di Marco Invernizzi
Guardavo con profonda tristezza un gruppo di studenti manifestare la mattina del 27 settembre, giorno dello sciopero mondiale organizzato da Fridays for future contro il cambiamento climatico, addirittura con il placet del nuovo ministro italiano dell’Istruzione, Lorenzo Fieramonti. La tristezza nasce non tanto dalla palese strumentalizzazione mondiale di giovani che ne approfittano per perdere un giorno di scuola oppure dalla vista dei pochi estremisti di sinistra che li guidavano con le loro bandiere, ma dal contesto in cui è maturata la protesta.
Poche ore prima la Corte costituzionale ha di fatto introdotto nel nostro Paese, attraverso una sentenza, l’eutanasia. Gli stessi media che esaltano lo “sciopero verde” esultano perché finalmente abbiamo il “diritto” di morire con “dignità”. Ai giovani si dovrebbe spiegare quale potrebbe essere il loro futuro fra mezzo secolo, quando la legge sull’eutanasia sarà stata bene “rodata” e “accolta” dalla maggioranza della popolazione e quindi i settantenni, per esempio, potranno essere “accompagnati” alla morte con “dolcezza” e umanità.
Oggi i medici hanno reagito “presto e bene” davanti al tentativo di farli diventare strumenti di morte invece che custodi della vita. Ricordo per tutti Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) e la lettera di Massimo Gandolfini su Avvenire del 27 settembre. Ma fra 50 anni probabilmente anche la loro eroica resistenza, con o senza l’obiezione di coscienza, potrebbe essere stata sconfitta dalla cultura e dalla prassi dominanti. E allora per i giovani oggi in piazza si prefigurerà la realtà triste e disperata della morte per accompagnamento.
C’è solo un modo per impedire tutto questo: riprendere a trattare pubblicamente delle cose che contano. Non che la protezione dell’ambiente (meglio chiamarlo Creato) non sia un problema reale, come attesta la lettura del Magistero (per chi è cattolico) da almeno mezzo secolo e come attestano gli scienziati più avveduti. Ma questa attenzione non può diventare una ideologia che insinua che l’uomo è il cancro del pianeta e soprattutto non dovrebbe impedire di affrontare i temi fondamentali, almeno per il mondo occidentale, come il suicidio demografico, senza la soluzione del quale fra non tantissimi decenni il problema ambientale verrebbe superato dall’assenza della componente umana o comunque dalla sostituzione della civiltà nata dal cristianesimo con qualcosa d’altro.
Per non rassegnarsi bisogna avere presente questo passaggio e agire di conseguenza, come suggeriscono il vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino, Alfredo Mantovano, sul Il Foglio e don Roberto Colombo, membro del Comitato nazionale di bioetica, su Avvenire sempre del 27 settembre. Bisogna che chi ha responsabilità importanti smetta di considerare divisive le recenti parole di Papa Francesco e del cardinal Gualtiero Bassetti contro l’eutanasia e inciti parroci, docenti, catechisti, padri e madri di famiglia ad affrontare il tema della vita, oggi, e quello inerente alla deriva umana che sta colpendo la società occidentale almeno dalla rivoluzione antropologica del 1968. Non è mai troppo tardi per ricominciare a dire la verità, per continuare a guardare gli ammalati come una testimonianza preziosa per tutta la società, ad accudirli con amore non per aiutarli a morire ma per farli vivere meglio, affinché si sentano accolti e non pensino di essere diventati soltanto un problema.
Tutto questo è ancora possibile farlo negli ambienti che sopravvivono e creandone di nuovi, unendo famiglie e amicizie in una solidarietà reale. L’unica cosa da non fare adesso è recriminare per il tempo perduto (anche se ci sono tante ragioni per farlo) e invece cominciare ad agire subito.
Venerdì, 27 settembre 2019