Júlio de Albuquerque, Cristianità n. 84 (1982)
Quello che la stampa italiana non ha scritto sulla Riforma Agraria in El Salvador. Una documentazione precisa – raccolta in volume da una giornalista americana – su un avvenimento profondamente lesivo della giustizia oltre che della indipendenza del popolo salvadoregno. I soliti pretesti per giustificare la confisca: difendere i diritti umani e de-motivare la sinistra radicale. Il tragico risultato: l’inizio della guerriglia e la rovina dell’economia. La impopolarità della Riforma Agraria – la più sovversiva mai realizzata in America Latina – confermata anche dalle recenti elezioni, che hanno visto i partiti a essa contrari raccogliere ampi consensi nei quartieri popolari delle città e tra i contadini.
Realizzata sotto la guida del democristiano Napoleon Duarte
La Riforma Agraria radicale della giunta in El Salvador
Il colpo più audace e più radicale sferrato da Carter in nome della politica dei «diritti umani» contro una nazione dell’America Latina si è verificato nella fase finale della sua amministrazione, nel corso dell’anno 1980; e la vittima è stata la piccola repubblica centro-americana di El Salvador.
Tale colpo, notevole per il suo radicalismo e per la rapidità con la quale fu eseguito, si trova descritto e commentato nel saggio Washington’s Instant Socialism in El Salvador, «Il socialismo istantaneo di Washington in El Salvador», di Virginia Prewett, una pubblicazione del Council for Inter-American Security, edita nella capitale statunitense nel 1981.
L’autrice è una quotata giornalista, specializzata in argomenti relativi all’America Latina, che conosce in profondità. Nel corso di venticinque anni ha redatto rubriche specializzate in argomenti latino-americani su importanti giornali come il Washington Post e il Washington Daily News, oltre a scrivere articoli per riviste come Foreign Agairs Quarterly, The Reader’s Digest, Saturday Evening Post, ecc. Ha pubblicato anche diversi libri su temi relativi all’America Latina. Oltre ad avere viaggiato con frequenza attraverso questo continente, ha risieduto anche in Messico, in Argentina e in Brasile, dove è vissuta per tre anni dirigendo un fondo nell’interno del paese.
Inoltre, Virginia Prewett si interessa con passione di argomenti legati alla proprietà rurale e ha seguito e studiato tutti i sistemi di riforma agraria realizzati oppure tentati in paesi dell’America Latina. Quanto riferisce su El Salvador lo fa, quindi, con profonda conoscenza di causa.
Azione militare contro la proprietà privata
Quanto l’opera riferisce come intervento di un paese grande – che si proclama campione della democrazia – in un altro paese, piccolo, per promuovere in esso, nel modo più drastico e violento, una Riforma Agraria socialistica e confiscatoria, è semplicemente incredibile. Si è trattato, come dice l’autrice, di «un avvenimento che ha scosso una nazione, senza precedenti nella storia del Nuovo Mondo».
Per due giorni, il 5 e il 6 marzo 1980, autocarri, jeep e veicoli militari, pieni di soldati in tenuta di guerra, hanno percorso tutte le strade e le vie di campagna di El Salvador, occupando e confiscando la maggior parte delle grandi tenute, che sostenevano la economia del paese. In questo modo 376 proprietà rurali e imprese agricole, con una estensione di 1.200 acri, pari a 485,6 ettari, o più, sono state strappate ai loro proprietari e sono passate sotto l’amministrazione dello Stato.
È stato confiscato tutto: raccolti nei campi e nei granai, sementi, trattori e macchinario essenziale alla agricoltura meccanizzata, autocarri, jeep, piccoli aeroplani, benzina e pezzi di ricambio; tutta l’attrezzatura necessaria alla semina, alla raccolta e alla lavorazione del caffè. Zuccherifici; scuole e case di dipendenti delle tenute. E, naturalmente, le case dei proprietari, con tutto quanto contenevano. «Non ho potuto neppure prendere delle lettere di miei figli che stavano in un cassetto», disse uno dei proprietari espropriati.
Alcuni ottennero dagli invasori il permesso di prendere le loro automobili. Qualche altro trattò per conservare il suo piccolo aereo. Ma la maggior parte dovette andarsene anche a piedi, portando solamente l’abito che indossava.
Poco tempo dopo la confisca a mano armata delle proprietà rurali, i dirigenti degli istituti finanziari privati furono chiamati da funzionari del governo per una riunione. Mentre vi si trovavano, distaccamenti di soldati svolsero identica azione in città, circondando le banche private e confiscandole a favore dello Stato.
Con la produzione agricola e il credito in suo potere, il governo passò a essere praticamente l’unico amministratore della economia salvadoregna.
Chi stava dietro alla giunta
Questa autentica scellerataggine realizzata sul piano delle riforme socialistiche e confiscatorie fu, in apparenza, effettuata per ordine della giunta civico-militare che, dalla deposizione dell’allora presidente, generale Carlos Romero, nell’ottobre 1979, sta governando il paese centro-americano con poteri discrezionali.
In realtà, però, tanto riguardo alla deposizione di Romero quanto alla realizzazione delle riforme socialistiche, la interferenza del governo Carter è stata decisiva. Gli stessi diplomatici americani che, dopo avere tentato inutilmente di convincere Romero a rinunciare, hanno appoggiato la sua deposizione, hanno fornito al nuovo governo il piano di Riforma Agraria. Agronomi salvadoregni, funzionari dello Stato, sono stati tenuti per tre giorni praticamente in isolamento completo, allo scopo di ricevere un massiccio indottrinamento. Poi hanno accompagnato i distaccamenti militari che hanno occupato le tenute, per mettere subito in pratica la formula made in USA per socializzare la campagna in El Salvador.
Questa «nuova diplomazia» carteriana ha deciso di prendere El Salvador come teatro di esperimento di una nuova tattica in materia di politica estera latino-americana. Essa consiste nell’instaurare il socialismo in un paese per togliere a Cuba il pretesto di intervenire. Ossia, nel fare il comunismo prima che lo facciano i comunisti…
La difesa dei diritti umani è stata la giustificazione trovata per questo esperimento. Fu allora ampiamente diffusa una menzogna: il potere economico di El Salvador era concentrato nelle mani di 14 famiglie latifondiste, che opprimevano i lavoratori, negando loro le condizioni minimali per una vita dignitosa.
Pertanto, secondo il raziocinio di Washington, per evitare un intervento di Cuba in El Salvador, e dal momento che un «cambiamento» era inevitabile – con «cambiamento» si intenda la comunistizzazione del paese -, ciò che doveva essere fatto consisteva in una ridistribuzione delle ricchezze, ossia nel togliere a quanti hanno molto per dare a quanti hanno poco. E a questo scopo non c’era niente di meglio che statalizzare le banche e le grandi proprietà rurali, da trasformare in cooperative agricole amministrate dal governo, oppure divise in piccoli lotti da distribuire ai contadini.
In questo modo sarebbe finita la oppressione, i redditi sarebbero stati distribuiti e tutti avrebbero partecipato della ricchezza del paese. E la sinistra radicale sarebbe rimasta senza pretesti per tentare qualsiasi azione sovversiva. E tutti sarebbero vissuti felici nella «pace dei pantani» socialistica.
L’autrice mostra, con abbondante documentazione, come nessuna di queste previsioni ottimistiche si sia realizzata. E anche come fu evidente la partecipazione del governo nordamericano alla manovra, svolta sulla base di miti e di menzogne.
Il cibo non ha placato il leone
Il fallimento più evidente e rilevante in materia di previsione è stato quello secondo cui la sinistra radicale sarebbe stata placata dalle riforme socialistiche. E che vi sarebbe stata pace nel paese.
È accaduto proprio il contrario. Pochi giorni dopo il golpe riformistico, si formò un vasto fronte di sinistra per combattere la giunta e l’intervento nord-americano. Il cosiddetto Fronte Democratico Rivoluzionario riunì allora socialdemocratici, socialisti, comunisti, cattolici progressisti, leghe contadine e organizzazioni terroristiche della sinistra radicale. In tutto, forse, 250 mila persone circa, preparate alla lotta violenta nel paese e all’estero. La guerriglia ebbe una recrudescenza e i massacri si succedettero da una parte e dall’altra.
La giunta portata al potere e appoggiata da Carter condusse il paese in una situazione di violenza mai vista sotto governi precedenti. Panamensi, cubani e nicaraguensi vennero a rafforzare le forze guerrigliere che tentavano di abbattere il regime. Cuba e Nicaragua servivano anche come campi di addestramento e fornitori di armi. Mentre accadeva tutto questo, l’ala di destra delle forze armate rispondeva con azioni militari contro la guerriglia.
Julián Ignacio Otero, che è stato anche capo del settore logistico e finanziario di una organizzazione terroristica – le Forze Popolari di Liberazione (FPL) – ha dichiarato in una intervista televisiva che la guerriglia salvadoregna riceve denaro per comperare armi attraverso conti bancari di gesuiti radicali di sinistra, che compromettono con il terrorismo i dirigenti della Università dell’America Centrale, istituto di insegnamento superiore in El Salvador, diretto da tale ordine religioso. Otero ha anche dichiarato che la influenza dei preti è più forte nel comitato politico del comando centrale terroristico; e che la Chiesa è impegnata in una attiva campagna di agitazione contro la giunta. Perciò le Forze Popolari di Liberazione, attraverso il lavoro fatto nelle diocesi e nelle parrocchie, sono state capaci di reclutare un grande numero di contadini, che sono ingannati e spinti alla lotta armata contro il governo.
Un’altra «sorpresa»: la rovina della economia
Un’altra conseguenza del golpe riformistico è stato il deterioramento della economia attraverso la statalizzazione della produzione agricola.
Le cooperative rurali create con la confisca delle grandi tenute, si sono trasformate, in realtà, in autentiche comuni statali. Ed è ben noto come è bassa la produzione in terre amministrate dal governo.
D’altro canto, i piccoli lotti di 17 acri «donati» oppure «venduti» dallo Stato a piccoli agricoltori, o candidati a esserli, sono a tale punto soggetti a esigenze di regolamentazione del loro uso, che il termine «proprietà» si trasforma in un’autentica beffa. In questo modo, per trent’anni, oppure fino a che non abbia pagato lo Stato per la sua terra, il «proprietario» non può affittarla o venderla. E può accadere che essa gli sia tolta e «venduta» a un altro, nel caso non soddisfi puntualmente le condizioni di pagamento che gli sono imposte dalle autorità governative. Che specie di produzione vi può essere in queste piccole «proprietà», il cui possesso è così precario? Tutto finirà per cadere sotto il giogo dello Stato, tanto più che questo controlla già il credito, attraverso la statalizzazione delle banche, e le esportazioni.
La economia di El Salvador dipendeva esclusivamente dalla produzione agricola delle grandi proprietà in regime di libera impresa.
Questa struttura dava a quella nazione autosufficienza nella produzione di alimenti e anche abbondante quantità di caffè per esportazione. Nonostante avesse la maggiore densità demografica dell’America Latina – circa 500 abitanti per km2 -, il suo reddito pro capite era, proporzionalmente a questa densità, uno dei maggiori del continente. E la sua produttività agricola per km2 era la più elevata.
Dati della Organizzazione delle Nazioni Unite, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Interamericana di Sviluppo, della Banca Mondiale e della Organizzazione degli Stati Americani mostrano che non vi era eccessiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, essendo il reddito ragionevolmente distribuito a tutta la popolazione.
Così, nel 1977, El Salvador investì nella pubblica istruzione e nella sanità il 32% del suo reddito statale, mentre paesi considerati «democrazie liberali», come la Colombia e il Venezuela, investirono solamente il 19,8% e il 18,8%, e il Messico semi-socialista il 18,5%. In spese militari El Salvador investì soltanto il 6%, contro il 9% del Venezuela e il 17% della Colombia. In El Salvador, il 20% della popolazione urbana e il 30% di quella rurale vivevano sotto quanto viene considerato livello di povertà, mentre la media per l’America Latina è rispettivamente del 43% e del 41%. Quanto agli indici di distribuzione del reddito nazionale, in El Salvador il 5% costituito dai più ricchi ne deteneva il 24%, e il 20% costituito dai più poveri ne riceveva il 5,7%, mentre la media per l’America Latina è rispettivamente del 32% e del 3,7%.
Da queste cifre si può constatare come El Salvador non corrispondesse alla immagine diffusa dalla stampa di sinistra, che lo indicava come il paese nel quale un piccolo numero di latifondisti e di capitalisti, in combutta con l’esercito, sfruttavano il popolo, cercando di lucrare il massimo e di pagare il minimo ai dipendenti e all’erario, e impedendo qualsiasi forma di organizzazione tra i lavoratori dei campi e gli operai.
Il «proconsole»
Questa immagine di El Salvador era adottata e diffusa soprattutto da Robert White, l’uomo di sinistra nominato dalla «nuova diplomazia» di Carter come ambasciatore in quel paese. Ma la missione di White non era quella di un semplice ambasciatore, bensì quella di un vero «proconsole», con lo scopo di comunistizzare il paese. Sono molto significative le parole dell’allora senatore Jacob Javits – repubblicano di sinistra di New York, battuto nelle elezioni del 1980 -, pronunciate nel corso della riunione della commissione Esteri del senato, che confermò la nomina di White: «(…) benchè teoricamente Lei sia un ambasciatore immerso nella burocrazia, per noi è un proconsole: andrà come ambasciatore, ma se farà solamente questo gli Stati Uniti non saranno serviti bene. In realtà dovrà essere un attivista e rischiare la sua carriera (…). Credo che potrà contare su un forte appoggio da parte di questa commissione. In questo campo Lei è un proconsole e non soltanto un ambasciatore. Un semplice ambasciatore non serve; non sarà sufficiente».
Le parole di Javits furono fatte proprie da un altro esponente di sinistra, Frank Church, presidente della commissione, a nome di tutti. White ebbe la sua nomina confermata da otto voti contro due e una astensione.
Come è a tutti noto, il termine «proconsole», utilizzato all’epoca dell’impero romano, serviva per designare un governatore nominato dalla metropoli per dirigere una colonia. Fu questa la funzione attribuita a White dalla «nuova diplomazia» di Carter.
Il mito delle «quattordici famiglie»
Per giustificare la confisca, il «capro espiatorio» inventato fu il mito delle 14 famiglie, poi esteso dalla stampa di sinistra a 30 famiglie. Ma il numero dei colpiti fu molto superiore a quello dei componenti di 14 oppure di 30 famiglie. Si calcola che più di cinquemila persone abbiano avuto i loro beni rubati dallo Stato; infatti, il pagamento per la confisca fu praticamente nullo, se non in titoli svalutati.
Questo accadde nella prima fase del piano riformistico, nella quale furono confiscate proprietà di 485,6 ettari o più. Quando sarà applicata la seconda tappa della Riforma Agraria, che prevede la confisca di proprietà minori, a partire da 250 acri, allora sarà privato dei suoi beni un numero ancora maggiore di persone.
Come si vede, il colpo assestato non è solamente contro un numero ristretto di famiglie che opprimono, bensì contro tutta la classe dei proprietari rurali e contro il sistema di produzione stesso. In questo modo, la economia di El Salvador tende a un collasso, poiché si è distrutta la struttura della libera impresa che la sosteneva, basata sul rispetto della proprietà privata.
Al collasso economico contribuirà certamente anche la fuga in massa di persone competenti a operare nei campi della produzione e della finanza.
Basta dire che, secondo l’ufficio di Costa Rica dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati, solamente nei primi otto mesi del 1980, 35 mila salvadoregni sono stati obbligati a lasciare il loro paese a causa della rivoluzione socialistica.
Essi non erano solamente quelli che hanno perso le loro terre oppure le banche private nel marzo 1980. Ingegneri, agronomi, tecnici dell’agricoltura moderna, operatori economici, amministratori, medici, avvocati, ragionieri, pubblicisti, insomma, tutta la linfa vitale di una economia, ossia le persone che sanno fare le cose, si è dispersa. Anche lavoratori rurali, che il golpe riformistico pretendeva di beneficare, hanno preferito lasciare il paese.
Molti rimasti sono stati vittime di attacchi terroristici. Il 15 ottobre 1980, primo anniversario del golpe che ha dato inizio alla rivoluzione socialistica, l’Agenzia France Presse ha ricevuto una comunicazione della Croce Rossa di El Salvador, nella quale essa dichiarava di avere soccorso 24 mila sfuggiti al terrorismo di sinistra nel Nord-Est del paese, nel corso della settimana precedente. Queste sono le masse che la giunta dice di avere beneficato … La Croce Rossa ha informato che il 60% di questi infelici erano bambini.
Gli arrendisti del «cedere per non perdere»
Tuttavia, se molti fuggono, altri preferiscono restare e… trattare con il proprio carnefice.
Sono i seguaci del «cedere per non perdere», che non si preoccupano del fatto che sia portato via agli altri, purché non si porti via il loro. Oppure che gli si porti via il loro non oggi, ma soltanto domani. Non sono guidati da principi, ma da un egoismo del momento, che cessa di essere umano per divenire semplicemente animalesco.
Esempio significativo di questo tipo di persone è costituito da un gruppo di imprenditori salvadoregni che non ha ancora perso i suoi possessi, ma che potrà venirli a perdere nella prossima tappa delle riforme. Riconoscendo che il nuovo socialismo sta demolendo la economia del paese, si mostra disposto a convivere con le riforme già fatte, purché possa contribuire a modificare il modello economico in favore della libera impresa. Ossia, i suoi componenti accettano come fatto compiuto la confisca dei beni altrui, purché non vi siano nuove leggi che confischino i loro. Tale gruppo si è autodenominato Alleanza Produttiva, e ha dichiarato che non appoggia né si oppone alla giunta (?!).
La storia ha dimostrato che persone di questo tipo solitamente sono le prime a essere appese ai lampioni quando esplodono le rivoluzioni cruente …
Virginia Prewett presenta nel suo saggio anche altre conseguenze funeste, non solamente relative a El Salvador, ma pure al prestigio stesso della politica estera nord-americana in America Latina, derivante da questo disastroso esperimento della «nuova diplomazia» carteriana.
Commentando tali fatti, non abbiamo avuto la intenzione di esultare per l’abbattimento, già avvenuto, di qualcuno, come Carter e la sua politica dei «diritti umani». Abbiamo anzitutto inteso attirare l’attenzione dei lettori sull’azione nefasta di coloro che, senza dichiararsi comunisti oppure socialisti, o anche negando di esserli, tuttavia accettano certi «cambiamenti» come inevitabili.
I fatti accaduti in El Salvador possono servire anche come avvertimento per quanti pensano possibile placare l’impeto della sinistra radicale con concessioni come quelle che sono state fatte in quel paese. Infatti i comunisti saranno soddisfatti solamente quando riusciranno a eliminare non soltanto i loro avversari, ma anche i loro «compagni di strada» e si installeranno soli al potere. L’unico modo di vincerli consiste nell’affrontarli con decisione e con coraggio, senza concessioni di nessun genere, cogliendo in loro tutta la malizia di cui sono capaci, e agendo di conseguenza.
Ecco perché la guerriglia comunista in El Salvador, benché non possa contare sull’appoggio della opinione pubblica della nazione, non è stata ancora definitivamente eliminata.
Júlio de Albuquerque