Giovanni Cantoni, Cristianità n. 91 (1982)
Secondo l’on. De Mita, il programma del partito di «ispirazione cristiana» non consiste nel perseguimento di un regime democratico cattolico, ma, piuttosto, nella promozione del sostegno cattolico a una utopia «democratica».
Sulla base di tesi ufficiali
Utopia «democratica» e Democrazia Cristiana
Pochi mesi or sono, a fronte della celebrazione del XV congresso nazionale della Democrazia Cristiana, ritenevo di dovere dedicare ampio spazio alla descrizione della politica di «democrazia compiuta», emersa dall’assise del partito di maggioranza relativa e di ispirazione cristiana, nonchè alle grandi linee del «piano» teso alla sua realizzazione (1).
Allora le constatazioni, benché testualmente fondate, hanno indotto qualcuno a lamentare una particolare durezza e una pregiudiziale animosità antidemocristiana. Ritengo perciò opportuno ritornare sull’argomento, sia pure più sinteticamente, per addurre conferme, nuovamente testuali, di quanto allora asserivo. E l’occasione mi è offerta dal discorso tenuto dal segretario politico della Democrazia Cristiana, on. Ciriaco De Mita, in apertura dei lavori del consiglio nazionale del suo partito, iniziati a Roma il 15 ottobre scorso, e la sintesi della sua replica, a conclusione di tali lavori, del 18 dello stesso mese (2).
In entrambi i documenti, l’autorevole uomo politico democristiano espone, in termini contemporaneamente storici e dottrinali, i caratteri della politica di «democrazia compiuta», e indica quelli della «alternativa», destinata a costituirne «il punto di equilibrio».
Il «piano» è dettato dalla improrogabile necessità di superare l’impasse in cui si dibatte la vita politica della nostra nazione dal 3 giugno 1979, data che ha segnato la fine della politica di «solidarietà nazionale» e, quindi, della strategia di «compromesso storico». Secondo l’on. De Mita tale impasse può essere superato solamente a condizione di prendere atto che «l’epoca dell’allargamento del consenso allo stato democratico per via di aggregazioni successive – prima l’intesa ampliata ai socialisti, poi rapportata ai comunisti – si è conclusa».
«Ciò che è stato possibile nel passaggio dal centrismo al centrosinistra non è più proponibile. La stessa esperienza della solidarietà nazionale […] ha posto fine alla associazione progressiva di sempre nuove forze al nucleo originario sul quale si è consolidato lo stato democratico dall’epoca centrista».
Perciò «Ora, anche per effetto della consumazione storica della solidarietà nazionale, si impone un diverso quadro di riferimento, nel quale diventa centrale la questione dell’alternativa».
E ancora: «La fase dell’evoluzione per aggregazioni successive è conclusa e non è riproponibile sotto sembiante aggiornate. Quella comunista si pone […] come questione centrale di un processo che troverà conclusione al momento dell’alternativa, che costituirà perciò il punto di equilibrio della democrazia compiuta».
Dunque, per realizzare la «democrazia compiuta» si deve superare la fase di «democrazia consociativa», frutto delle successive aggregazioni di forze al governo, e rinunciare alla politica di «solidarietà nazionale» – la versione democristiana del «compromesso storico» -, che ne sarebbe stata l’ultima fase, perchè fallita in termini di consenso a causa della chiara immagine totalitaria offerta da un governo di tutti i partiti senza opposizione politicamente apprezzabile.
Tale superamento del «vicolo cieco» politico necessita della istituzione di «nuove regole del gioco», cioè si profila nella direzione delle riforme istituzionali. «L’alternativa è, dunque, il raggiungimento di una diversa condizione generale della democrazia, dove il controllo sulla gestione del potere è reale in quanto è possibile un avvicendamento di forze sulla base delle indicazioni fornite dagli elettori»; e «il controllo vero, quello che la gente chiede, è la possibilità di sostituire un gruppo dirigente».
Perciò, se «le istituzioni sono in crisi e vanno adeguate», da questione comunista […] [è] centrale ai fini del superamento della Democrazia bloccata o zoppa»: «Il concorso di una forza di opposizione come il Partito Comunista che concorresse a rafforzare i meccanismi delle istituzioni, che rifonda le strutture del potere in termini di garanzia di libertà e non in termini di lottizzazione o di stato socialista, è la spinta oggettiva che la politica […] dà a questa forza, se essa ha voglia, possibilità e tempo di evolversi».
Dunque, «il rapporto col Partito Comunista acquista rilevanza non perché esso sia un nuovo soggetto politico da aggregare ad una maggioranza già sperimentata o a gruppi di una maggioranza che ipotizzano un allargamento di consensi sulla propria sinistra. […] Quella comunista si pone, invece, come questione centrale di un processo che troverà conclusioni al momento dell’alternativa, che costituirà perciò il punto di equilibrio della democrazia compiuta».
Non più, quindi, tutti i partiti al governo, che offrono una brutta immagine totalitaria, ma tutti i partiti «riformatori istituzionali» e poi utenti delle «nuove regole del gioco», «alternativa» compresa.
Qui giunto nella informazione e nella comprensione relative al piano per «sbloccare la democrazia» – cioè per permettere anche al Partito Comunista la fruizione delle gioie del governo senza che il fatto possa innescare reazioni di sorta, in quanto svolgentesi all’interno della prospettiva dell’«alternativa», quindi del «compimento della democrazia» -, è inevitabile chiedersi, contemporaneamente, che cosa significhi «democrazia» nel contesto dei propositi espressi dall’on. De Mita, e quale sia la funzione che si attribuisce la Democrazia Cristiana, in generale e nel quadro della proposta politica fino a ora illustrata.
Comincio da questo secondo punto. Secondo il segretario nazionale democristiano, « le diversità ideologiche […] non sono da tempo più usate come discriminanti politiche. Già De Gasperi nella collaborazione fra cattolici e laici mirava a stabilire patti politici sulla tolleranza reciproca e sul rispetto dell’autonomia di ciascuna forza politica. Ma il rifiuto dell’ideologismo e delle contrapposizioni ideologiche è ormai una costante della politica democristiana». Perciò «il nostro rispetto, la nostra attenzione, la nostra alleanza con gli altri partiti democratici, anche quando la Democrazia Cristiana, sul piano dei numeri, poteva non averne bisogno, era la risposta a questa esigenza, a questa condizione di arricchimento della vita democratica». Per questo, cioè per «arricchire la vita democratica, più che per realizzare una democrazia cristiana», la Democrazia Cristiana ha «speso decenni di riflessione, analisi, confronti per disinnescare l’integralismo tra i cattolici», e per «assolvere ad un lavoro di emancipazione di masse, non solo cattoliche, che non avevano ricevuto una educazione democratica sufficiente ad organizzare attorno al nuovo stato consensi vasti e certi»: insomma, sempre «per far progredire la democrazia in Italia».
Emerso con estrema chiarezza che alla «democrazia» – e quindi, conseguentemente, al suo compimento – vengono sacrificate tutte le «contrapposizioni ideologiche», ritorno al primo punto, ansioso di avere una definizione di ciò a cui tutto è sacrificato. «E veniamo al tema della democrazia compiuta. Quando se ne parla, si potrebbe ritenere che noi ipotizziamo una democrazia che si realizza. Ma la democrazia è un processo, quindi non si compie mai, si compie storicamente, ma sul piano della prospettiva. È come la libertà: non si identifica mai con una posizione: la libertà è la domanda di libertà o l’aspirazione all’evoluzione che esiste nella coscienza comune. La nostra difesa della libertà e della cultura, il nostro sostegno alla cultura libera, come condizione di ogni società democratica, poggia su questo valore: nessuno di noi, neppure noi cattolici possiamo immaginare di ipotizzare un ordinamento sociale all’interno del quale, se non come dato storico e contingente, siano risolte tutte le questioni. Tutto è risolto e tutto nel momento in cui è messo in discussione [sic]».
Credo di potermi astenere da qualsiasi commento e mi limito ad abbozzare una ricostruzione di quanto ho sostanzialmente trascritto.
Dunque, dopo un tempo in cui società e mondo cattolico coincidevano – il tempo della Cristianità -, e in cui Chiesa e Stato erano distinti ma non separati, il violento distacco dello Stato dalla Chiesa ha dato origine ai movimenti cattolici (3). Tra questi uno, quello democristiano – servendosi della lecita preferenza di parte dei cattolici per un regime in cui i gestori della cosa pubblica vengono scelti attraverso il suffragio elettorale – ha introdotto il binomio «cristianesimo-democrazia», prima in senso lato, poi con una accezione specificamente politica. Nel corso dello sviluppo storico l’elemento «democrazia» si è sempre più sviluppato a danno dell’elemento «cristianesimo», fino a volontariamente sacrificare ogni aspetto dottrinale a quello politico-istituzionale, quest’ultimo accettato, tra l’altro, nella sua evoluzione pilotata da «democrazia liberale e individualistica» a «democrazia socialistica e popolare» e nella sua estensione da «democrazia politica» a «democrazia sociale» e, ultimamente, a «democrazia economica». E, in fondo, ecco la democrazia che «non si compie mai», la utopia «democratica» presentata come l’ideale democristiano!
Stando così le cose, come non guardare con speranza alla «società senza rappresentanza», e con comprensione al «rifiuto della politica come tale»? Come non reiterare l’appello agli «emarginati della politica», cattolici o «uomini di buona volontà» che siano? Come non auspicare una rinascita di «carità politica» (4)?
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. il mio La «democrazia compiuta» ovvero l’Italia rossa grazie alla setta democristiana, in Cristianità, anno X, n. 85, maggio 1982.
(2) Cfr. CIRIACO DE MITA, Discorso tenuto in apertura dei lavori del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, del 15-10-1982, in Il Popolo, 16-10-1982; e IDEM, Sintesi della replica a conclusione dei lavori del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, del 18-10-1982, ibid, 19-10-1982. Tutte le citazioni contenute nel testo senza diversa indicazione di fonte sono tratte da questi due documenti, e riprese dall’uno o dall’altro indifferentemente, data la loro unitarietà e logica connessione.
(3) Cfr. PIO XII, Discorso al primo Congresso mondiale dell’Apostolato dei laici, del 14-10-1951, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIII, pp. 294-295.
(4) PIO XI, Discorso ai membri dell’Assemblea Federale della F.U.C.I. e delle U.C.I., del 18-12-1927, in Discorsi di Pio XI, a cura di Domenico Bertetto S.D.B., Torino 1960, vol. I, 1922-1928, p. 745.