Angelo S. Lazzarotto PIME, Cristianità n. 240 (1995)
Un missionario in Cina traccia, sulla base di una lunga esperienza e di un’informazione costantemente aggiornata, una panoramica di realtà che, lontane dall’immediato interesse dell’opinione pubblica italiana, rischiano di essere sottovalutate o comunque poco comprese. Quindi, con particolare attenzione alla situazione religiosa, passa in rassegna l’attualità di cinque paesi asiatici: Cambogia, Laos, Viet Nam, Corea del Nord e Cina, nei quali il comunismo è tuttora al potere; in tutti, benché in modo diverso, la professione del cattolicesimo — e di ogni religione — è tuttora gravemente ostacolata. L’intervento conclude con l’auspicio che, nei rapporti internazionali, sia tenuto in conto il problema della mancanza delle più elementari libertà religiose e civili.
Il volto del comunismo reale in Asia oggi
Relazione di padre Angelo S . Lazzarotto, del PIME, il Pontificio Istituto Missioni Estere, al convegno organizzato da Alleanza Cattolica e da Cristianità, a Roma, il 10 e l’11 dicembre 1994, dal titolo 1989-1994: alla ricerca del nemico perduto. Dall’impero socialcomunista all’egemonia progressista (cfr. Cristianità, annoXXII, n.236, dicembre 1994, pp. 7-9); quindi al convegno promosso dagli stessi organismi, a Lecce, il 4 febbraio 1995, dal titolo 1989-1994. Cinque anni dopo fra le rovine del Muro. Dal socialcomunismo al progressismo (cfr. questo stesso numero di Cristianità, p. 30). I1 missionario è attualmente responsabile della sezione Asia del CUM, il Centro Unitario di Animazione Missionaria istituito dalla Conferenza Episcopale Italiana, con sede a Verona.
Introduzione
Nel mese di novembre del 1994 si teneva a Bogor, in Indonesia, un’importante conferenza internazionale, cui partecipava il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, con i capi di Stato e di governo dei principali paesi asiatici, oltre che di Canada, Australia e Nuova Zelanda. Questa riunione fra le diciotto nazioni dell’APEC, il gruppo di Cooperazione Economica Asia-Pacifico, è passata quasi inosservata alla stampa italiana, sempre più ripiegata sulle nostre vicende provinciali.
Era il seguito dello storico incontro che un anno prima, nel novembre del 1993, aveva dato il via, a Seattle, nel Nord America, a un processo di coordinamento e collaborazione sul piano economico nell’immensa area dell’Asia e del Pacifico. Si tratta di un processo destinato a cambiare gli equilibri internazionali. L’interesse primario dell’America, che gravitava tradizionalmente verso l’Oceano Atlantico come al mare nostrum, si va spostando verso l’oceano Pacifico.
Gli studiosi non hanno dubbi sul fatto che i destini del mondo, nel Duemila, saranno decisi più sul versante del Pacifico che su quello dell’Atlantico. E in Asia Orientale, accanto al Giappone che già compete con le grandi potenze occidentali per tecnologia e forza economica, la Repubblica Popolare Cinese si propone come forza trainante, sia per la veloce crescita economica, che attira capitali e investimenti da tutto il mondo, sia per il fatto che la sua enorme popolazione si presenta come un enorme nuovo mercato aperto al mondo. Si tratta — non dimentichiamolo — di una Repubblica Popolare Cinese che rimane oggi il più grande Stato guidato da un forte regime comunista. Mentre non ci sono segni che lascino prevedere in Cina un collasso del partito simile a quanto avvenuto nell’Europa Orientale, si nota che il modello attualmente instaurato in Cina, della cosiddetta «economia di mercato socialista», sta ridando fiato anche agli altri regimi comunisti dell’Asia Orientale e Sud-Orientale.
Vale la pena di tentare una breve panoramica di queste realtà che, lontane dalla nostra immediata esperienza, rischiano di essere da noi sottovalutate o comunque poco comprese. Questa relazione passerà in rassegna quindi l’attualità di alcuni paesi asiatici, nei quali il comunismo è tuttora al potere, per concludere con qualche riflessione di carattere generale sulla situazione asiatica.
Cambogia
Visitando la capitale della Cambogia, Phnom Phem, pur nell’apparente serenità della gente che affolla le strade, è difficile scrollarsi di dosso l’impressione della precarietà della situazione. L’ombra dei khmer rossi sembra incombere sul futuro del paese anche dopo le elezioni democratiche, svoltesi sotto l’egida dell’ONU, che hanno chiaramente indicato la volontà del popolo di voltare pagina. In un incontro che ebbi nel 1994 con i responsabili e alcuni professori dell’università di Phnom Phem, veniva in evidenza in modo drammatico l’abisso in cui il paese era stato precipitato. Le autorità si sono rivolte a un ONG, un Organismo Non Governativo, di ispirazione cristiana, New Humanity, che era presente nel paese con dei progetti di sviluppo, per essere aiutate ad avviare dei corsi accademici; era impossibile infatti trovare sul posto docenti preparati, in quanto gli intellettuali del paese sono stati barbaramente eliminati dal regime di Pol Pot negli anni dal 1975 al 1979.
In una scuola della capitale, che era stata trasformata in carcere e luogo di esecuzione, dopo che ai prigionieri venivano estorte confessioni per presunti delitti e atteggiamenti anti-rivoluzionari, sono raccolte agghiaccianti testimonianze della barbarie perpetrata in Cambogia. È difficile immaginare cosa sia stato quel periodo di terrore, davanti al quale le democrazie occidentali sono state a guardare. Sconcerta il fatto che il genocidio dei khmer rossi sia stato fermato, quindici anni fa, non dal cosiddetto mondo libero, ma dalle truppe della vicina Repubblica Democratica del Viet Nam, che poterono in tal modo prendere il controllo di quel paese, ricco di risorse naturali. E, in seguito a quell’intervento armato, la guerra civile ha continuato a insanguinare il paese. Troppi interessi politici ed economici dei paesi limitrofi e delle grandi potenze hanno contribuito con ambiguità e connivenze a prolungare le sofferenze di un popolo.
Ancor oggi il lavoro di ricostruzione, avviato in seguito all’accordo firmato a Parigi nell’ottobre del 1991, è appesantito dall’handicap di tensioni e contraddizioni che condizionano la coalizione di governo, nel quale sono presenti ancora i comunisti sostenuti dal Viet Nam. E crescono corruzione e sperperi.
Ma impressiona il fatto che il mondo libero non sappia o non voglia trovare il modo di portare i responsabili del genocidio a rispondere dei loro misfatti davanti a un tribunale internazionale. Anzi, a tutt’oggi, perdura l’ipoteca dei khmer rossi — tuttora guidati da Pol Pot, dietro lo schermo di Khieu Sampan —, che si ripropongono come alternativa per il governo della Cambogia. Questo ritorno sarebbe la più crudele e ingiusta condanna per il pacifico popolo cambogiano.
Laos
Il Laos, un paese di soli quattro milioni di abitanti, pressato fra Viet Nam, Cambogia, Thailandia e Birmania, raramente compare sulle pagine dei giornali italiani. Il regime comunista si instaurava anche nel regno del Laos alla fine del 1975, sull’onda delle vittorie conseguite in Viet Nam e in Cambogia. I guerriglieri del Pathet Lao già occupavano con i nordvietnamiti i due terzi del paese. La nuova Repubblica Popolare firmò presto un trattato di amicizia e di collaborazione con il Viet Nam, ufficializzando la sudditanza del Laos rispetto al potente vicino e giustificando la presenza delle truppe vietnamite sul proprio territorio. Diventava così più esplicita anche la collocazione accanto all’Unione Sovietica e la contrapposizione alla Cina comunista. Pechino, decisa a imporre nel Sud-Est asiatico la propria leadership ideologica e la propria supremazia di Grande Fratello, mentre non esitava ad affrontare militarmente il Viet Nam, sosteneva la guerriglia interna in Laos, oltre al regime estremista di Pol Pot in Cambogia. Intanto, la situazione economica disastrosa e l’insicurezza provocata dai movimenti di resistenza spingeva una massa di laotiani a fuggire verso la Thailandia — si parla di circa 400.000 rifugiati, un decimo della popolazione —, nonostante le pessime condizioni di vita nei campi profughi.
Nel 1989 il Laos raggiungeva un accordo con la Cina e nel 1991 il vecchio leader Kaysone Phomvihan avviava il paese sulla via delle riforme economiche, seguendo l’esempio cinese e vietnamita. La nuova Costituzione, mentre confermava il monopolio e il ruolo guida del partito rivoluzionario, non faceva alcun accenno esplicito al socialismo. Nonostante la permanente retorica «anti-imperialista», anche il Laos si apriva agli scambi economici con i paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni dell’Asia del Sud-Est, e con gli Stati Uniti. Nello sforzo di favorire la modernizzazione, il governo laotiano cominciava a favorire anche il turismo; significativa, in questa linea, l’inaugurazione nel 1994 del grande ponte sul Mekong, che congiunge la capitale Vientiane con la cittadina di Nong Khai in Thailandia, costruito con la collaborazione tecnica dell’Australia.
La Chiesa è presente in Laos con una piccola minoranza di non più di trentamila fedeli, assistiti, dopo l’espulsione nel 1975 di un centinaio di missionari stranieri, da diciassette sacerdoti locali e da tre vescovi. «Abbiamo fiducia — mi diceva nel 1994 il vescovo di Vientiane, mons. Jean Khamsé Vithavong — che la nuova politica di apertura economica preluda a tempi migliori e a un po’ più di libertà anche per la Chiesa».
I cristiani sono comunque ancora discriminati, anche perché nella mentalità prevalente essere laotiano equivale a essere buddhista. Il governo non permette iniziative di annuncio esplicito ai lontani, ma sono numerosi quelli che esprimono il desiderio di conoscere la dottrina di Gesù. Occorre prudenza, per non dare il pretesto a funzionari troppo zelanti di applicare sanzioni antireligiose prima in vigore e mai abolite formalmente.
Viet Nam
Nel 1975 la vittoria dei comunisti del Viet Nam del Nord sull’esercito di Saigon potentemente sostenuto dagli americani fu salutata da larga parte dell’opinione pubblica occidentale come la definitiva «liberazione». Finalmente — si diceva — dopo quasi quarant’anni di guerra, il martoriato paese si era liberato dalle forze del male, identificate nell’imperialismo americano. L’evolversi dei fatti, dopo lo shock e l’euforia di quel momento, ha costretto molti osservatori onesti a ricredersi sull’effettiva portata di questa «liberazione». Mentre la ricostruzione economica del paese segnava il passo, il nuovo regime di Hanoi, sfruttando il poderoso potenziale bellico, si imbarcava infatti in una politica di interventi militari nei paesi limitrofi, politica che lo contrappose per due volte in scontri armati di notevoli proporzioni con la Cina. E il mondo si è trovato di fronte lo spettacolo drammatico di migliaia di persone di ogni classe sociale che affrontavano l’incognita dell’oceano su fragili giunche, rischiando la vita pur di fuggire dal paese. È la tragedia dei boat people, che negli anni Settanta e Ottanta raggiunse proporzioni gigantesche, e che ancora non si è conclusa.
Nel 1980 il primo ministro Pham Van Dong riconosceva che c’era stata una cattiva gestione dell’economia, con gravi abusi da parte della burocrazia, e nel 1981 si varava una nuova Costituzione. Il sesto congresso del partito, che si tenne nel dicembre del 1986, segnava una svolta radicale con l’introduzione di una nuova politica di riforme economiche detta Doi moi, «rinnovamento». Dopo un cambio di dirigenti ai vertici del governo e dello Stato, nel 1988 si avviava la definitiva sostituzione dell’economia socialista con l’economia di mercato, iniziando a smantellare il sistema di collettivizzazione delle terre, incoraggiando la costituzione di imprese private e gli investimenti di capitali anche stranieri.
Questo cambiamento, che precedette di poco il collasso dei regimi comunisti dell’Europa Orientale, avvenuto negli anni 1989 e 1990, e nell’unione Sovietica nel 1991, permise a Hanoi di evitare la catastrofe economica, in quel difficile cambiamento di equilibri internazionali. Ma intanto non si allentava la repressione politica; il 13 ottobre 1990 venivano comminate pesanti condanne a trentotto persone accusate di altro tradimento, tra i quali dissidenti politici e religiosi.
Nel novembre del 1991 Hanoi riprendeva le relazioni diplomatiche con Pechino. Nell’aprile del 1992 veniva varata una nuova Costituzione, che sanciva una maggiore libertà economica, ma sottolineava ancora il ruolo guida del partito unico. Sul piano dei diritti umani si succedono segnali contrastanti: sono liberati vari dissidenti politici e religiosi, ma sono poi imprigionati vari attivisti per i diritti umani.
Tra il 1992 e il 1993 si consolida la svolta economica del Viet Nam, che si avvicina all’ASEAN. I1 Giappone ne approfitta per espandere la propria influenza economica; nel novembre del 1992, sfidando il veto degli USA, il Giappone offre al Viet Nam aiuti per 45 miliardi di yen. Poco dopo, il presidente George Bush permette alle ditte americane di aprire negoziati economici con il Viet Nam, e il presidente francese François Mitterrand, nel febbraio del 1993, compie una storica visita a Hanoi. E, infine, l’amministrazione Clinton annuncia, il 3 febbraio 1994, la fine dell’embago economico. Le multinazionali d’oltre oceano ed europee sono già pronte a firmare joint venture e patti di mercato con i comunisti del Viet Nam. Quel giorno, 3 febbraio 1994, nel cielo di Hochiminville — l’antica Saigon — attirava gli sguardi della gente un dirigibile con la scritta Coca-Cola ben evidente. Oggi, con investimenti per migliaia di dollari che piovono dall’estero, l’economia vietnamita tira forte e c’è chi prevede che il Viet Nam diventerà presto una delle «tigri dell’Oriente».
Ma sul piano dei diritti umani le cose vanno molto più a rilento. Nelle carceri vietnamite sono ancora «ospitati», in via di rieducazione, giornalisti, professori universitari ed esponenti religiosi cattolici, protestanti e buddhisti. Sulle loro fedine penali risulta l’annotazione: «Svolgeva attività miranti a rovesciare il governo del popolo».
Nel Viet Nam, che ha una superficie di poco superiore a quella dell’Italia con una popolazione di 71 milioni di abitanti, i cattolici sono soltanto 6 milioni, il 9%; si tratta peraltro di una percentuale notevole rispetto agli altri paesi dell’Asia, seconda soltanto alle Filippine. Per questo, l’atteggiamento del partito comunista e del governo vietnamita verso la Chiesa cattolica è sempre stato marcato dalla volontà di controllo e insieme dal tentativo di sfruttarne il prestigio morale. È significativo, per esempio, che i vescovi del Viet Nam siano potuti venire a Roma per la visita ad limina o per i Sinodi, nonostante i grossi ostacoli burocratici. Il controllo sulla Chiesa è per molti aspetti asfissiante, imponendo il numero chiuso sui seminaristi ammessi al sacerdozio; molti giovani, che pure hanno finito gli studi teologici, devono attendere anni per ottenere il permesso di diventare preti.
Nel luglio del 1989 una visita a Hanoi del card. Roger Etchegaray apriva una nuova fase; seguiva, nel novembre del 1990, il primo viaggio di una delegazione ufficiale della Santa Sede, guidata da monsignor Claudio Celli. La nomina dei vescovi — che sono tutti locali — rimane un grosso punto di controversia tra il governo vietnamita e la Santa Sede. Su venticinque diocesi, cinque sono vacanti da molti anni; undici vescovi hanno già superato i settantacinque anni.
Monsignor Claudio Celli, che nella primavera del 1994 si è recato per la quarta volta in Viet Nam, auspicava che le autorità vietnamite si convincano che «la Chiesa cattolica, mentre vuole essere più libera nelle sue istituzioni, intende porsi generosamente al servizio del paese e dei suoi abitanti». È stato possibile nel frattempo nominare alcuni vescovi, mentre si continua a discutere per l’apertura di seminari maggiori, di noviziati, come anche per la restituzione di beni ecclesiastici requisiti dal governo. Nel mese di novembre del 1994 alcuni vescovi vietnamiti hanno potuto partecipare a Roma a un corso di aggiornamento organizzato dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli per vescovi di recente nomina. E a Manila, nel gennaio del 1995, a incontrare Papa Giovanni Paolo II c’erano anche alcuni vescovi dal Viet Nam. Ovviamente, prevale la volontà di non esasperare le contrapposizioni.
Tra i cardinali nominati dal Papa il 26 novembre 1994 c’era anche l’arcivescovo di Hanoi, mons. Pham Dinh Tung. Interrogato dai giornalisti, il neoporporato ha detto: «La Chiesa cattolica oggi vive nel paese un momento nuovo. Dobbiamo lasciarci alle spalle le persecuzioni e le limitazioni che abbiamo subito. Ma nello stesso tempo deve diventare più forte il nostro impegno nella lotta e nel controllo dei nuovi valori che stanno entrando nella nostra società. La ricerca del benessere e nuovi stili di vita rischiano infatti di creare falsi miti».
Corea del Nord
Le scene che la televisione di Stato ha diffuso in tutto il mondo nel 1994, in occasione della morte del presidente Kim Il Sung, hanno dato un’idea dell’isterismo collettivo e del culto della personalità che la dittatura di tipo stalinista era riuscita a montare in un paese completamente isolato dal resto del mondo per oltre quarant’anni. Enfatizzando il principio Juche, «autonomia e autarchia», il popolo coreano, uscito stremato dalla rovinosa guerra del 1951-1952, è stato mantenuto nella più vergognosa povertà. Le scarse risorse venivano destinate a mantenere e a potenziare un forte apparato militare, creando periodicamente tensioni e minacce specialmente alla Corea del Sud, e arrivando, come si sa, a sfidare la comunità internazionale con la produzione di ordigni nucleari.
La caduta del muro di Berlino sembra aver avuto poco effetto sul partito comunista coreano e sul «grande leader» Kim Il Sung, alla cui ombra si stava preparando come erede il figlio Kim Jong Il. Nel testo della nuova Costituzione del paese, approvata nell’aprile del 1992, viene eliminata l’espressione «marxismo-leninismo», che era ben in evidenza nella precedente Costituzione del 1972. Sul piano economico, pressati da una grave crisi nella produzione del riso e dal drammatico declino del commercio con la Russia, i dirigenti nord-coreani cominciavano a esprimere il desiderio di allacciare relazioni commerciali con le nazioni a sistema capitalistico, specialmente dell’Asia Orientale e Sud-Orientale. Con l’incoraggiamento e il sostegno della Cina, veniva avviato un progetto per sviluppare una zona di mercato libero, con la costruzione di un grande porto attorno alle foci del fiume Tumen, al confine di Russia e Cina.
La sorte delle religioni era stata segnata già nel 1945, alla sconfitta del Giappone che occupava la penisola, quando la Corea del Nord cadde sotto il controllo della Russia. Il regime comunista che vi fu instaurato non tardò a confiscare tutte le proprietà dei gruppi religiosi, a cominciare da quelle dei buddhisti, e si sa che la popolazione coreana professava tradizionalmente il buddhismo della corrente mahayana. Ma fu durante la guerra del 1951-1952 che, in odio anche agli americani intervenuti in difesa della Corea del Sud, furono sistematicamente distrutte le chiese cristiane, uccidendo o inviando nei campi di lavoro forzato gli appartenenti a qualsiasi religione, permettendo così di parlare del paese come di Kong Jong-Won, «Terra senza Paradiso».
Oggi sembra che anche per la religione si apra uno spiraglio nella nuova Costituzione nord-coreana. Quella precedente, scritta sul modello che prevalse in Cina durante la Rivoluzione Culturale, affermava la libertà di fede accanto al diritto di propaganda dell’ateismo. Nell’edizione del 1992 si legge: «È garantita la libertà di fede e sono permessi la costruzione di edifici religiosi e l’esercizio delle cerimonie di culto». Un completo black-out sulla vita religiosa nella Corea del Nord è durato per quarant’anni.
Quanto al cristianesimo, nel 1993 si seppe dell’esistenza di due chiese nella capitale Pyeongyang, una per i cattolici e una per i protestanti. Nel 1992 i protestanti hanno potuto aprire una seconda chiesa nella capitale, dove contano circa un migliaio di fedeli. I cattolici sono poche migliaia in tutto il paese e sono rimasti completamente privi di sacerdoti; gli sparuti gruppi di fedeli che si radunano per il culto domenicale sono guidati dai laici. Grazie all’aiuto del vescovo giapponese di Nagoya, che si è recato in visita a Pyeongyang nell’estate del 1992, si è potuto aprire due nuove cappelle in zone diverse del paese. Ma il futuro rimane incerto.
Cina
Siamo di fronte al paese più popolato del mondo: 1.200 milioni di persone! Un paese cosciente della propria cultura e storia millenaria.
Forse qualcuno ha avuto occasione di vedere un documentario fatto dalla BBC di Londra in occasione del centenario della nascita di Mao Zedong, il 26 dicembre 1993, e riproposto dalla televisione della Svizzera italiana. Vi si riportavano testimonianze inequivocabili — e dissacranti! — sulla personalità e sull’azione politica di colui che era stato osannato come il «grande timoniere». Giunto al vertice del potere, Mao lo aveva gestito al modo degli antichi imperatori. Il modello che più ammirava era quel Qin Shi Huandi, il primo imperatore vissuto 2200 anni fa, che aveva fatto bruciare i libri classici e ucciso molti letterati confuciani contrari alla sua politica; Mao si vantava di aver saputo esercitare il potere assoluto in modo ancor più deciso e spietato, convinto che la rivoluzione che si era proposto giustificava ogni eccesso. Gli studiosi concordano nel valutare tra i sessanta e gli ottanta milioni il numero delle vittime causate dalle repressioni e dalle politiche forsennate di Mao.
In questa breve conversazione ci limitiamo comunque a dire qualcosa della nuova fase del comunismo cinese, iniziata dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, e dopo il rovesciamento della cosiddetta «banda dei quattro». Dal 1978 prese il potere Deng Xiaoping, il leader oggi novantenne, ripudiando gli estremismi ideologici di Mao Zedong. Da allora in Cina la Rivoluzione Culturale voluta da Mao è apertamente esecrata da tutti come una delle più gravi catastrofi del paese, anche se il mito di Mao sopravvive come simbolo del potere detenuto dal regime. Deng Xiaoping rovesciò la politica economica del «grande timoniere» aprendo il paese alla logica del mondo capitalista e all’economia di mercato. E da quindici anni la Cina sta velocemente modernizzando le proprie industrie, con l’aiuto di tecnologie e di capitali provenienti da tutto il mondo. La crescita del prodotto interno lordo ha raggiunto in Cina punte del 12-13% annuo. Anche sul piano ideologico Deng Xiaoping instaurò una politica più pragmatica; egli si è guardato bene tuttavia dall’abolire i quattro pilastri ideologici su cui era stata costruita fin dall’inizio la nuova repubblica popolare: regime socialista, marxismo-leninismo-maoismo, il partito comunista come guida unica del paese, dittatura del proletariato. Permane e si accentua così la contraddizione tra la veloce corsa al progresso tecnologico e la morsa ideologica imposta dal dispotico potere politico. La società cinese, e specialmente il suo mondo culturale, risultano così, all’osservatore esterno, come malati di schizofrenia. Da una parte rimane d’obbligo un ossequio formale all’ideologia marxista, che nessuno può permettersi di mettere in questione, e dall’altra dilagano comportamenti e metodi di lavoro che vanno nella direzione di un liberismo esasperato. C’è una corsa sfrenata a far soldi, mentre l’idealismo di certi rivoluzionari della prima generazione sta scomparendo. Si dice che anche fra i cinquanta milioni di iscritti al partito comunista cinese pochi ormai credano in un’ideologia che la storia ha definitivamente condannato. A detta degli stessi dirigenti una delle piaghe più gravi, capace di disgregare una struttura che non teme rivali esterni, è la corruzione: per chi da quarant’anni detiene un potere incontrastato, è troppo grande la tentazione di usare i privilegi burocratici per arricchirsi più in fretta. E questo male oscuro sta corrodendo l’intera società. La campagna per una «civiltà spirituale socialista», su cui il regime insiste da anni, non è sufficiente a riempire il vuoto di ideali che travaglia la gioventù cinese.
In tale contesto gli attuali dirigenti comunisti hanno dovuto constatare, con loro sorpresa, che il sentimento religioso, soffocato per tanti anni e condannato senza appello come antiscientifico, era tutt’altro che morto. Stanno anzi fiorendo fra il popolo, specie nelle campagne, le forme più strane di superstizioni, con chiromanti, fattucchiere, nuovi culti, che approfittano della scontentezza della gente. Se ne è preoccupato anche il giornale ufficiale del partito, il Quotidiano del Popolo, in due editoriali del 1994, deprecando il fatto che lo stesso Mao Zedong — per suprema ironia della sorte — stia diventando oggetto della superstizione popolare.
Nel nuovo clima di relativa libertà anche le religioni propriamente dette sono rifiorite. Negli ultimi quindici anni chiese, templi e moschee, che le autorità avevano permesso di riaprire, si sono andate riempiendo oltre ogni previsione: sono oltre quattromila le chiese riaperte al culto o ricostruite in questi anni. Non è possibile avere statistiche aggiornate e attendibili su un tema così delicato anche perché, almeno per quel che riguarda i cristiani, molti preferiscono sottrarsi ai controlli delle strutture pubbliche. Una ricerca dell’Ufficio statistico nazionale di Pechino avrebbe stabilito che nel 1990 esistevano in Cina almeno 200 milioni di «credenti», metà dei quali sono da considerare buddhisti, o meglio aderenti alle religioni tradizionali, una trentina di milioni musulmani, e gli altri sarebbero cristiani, sia cattolici che protestanti. Quanto ai cattolici, le autorità della parte di Chiesa ufficialmente riconosciuta affermano che i fedeli sarebbero oltre 10 milioni, quasi triplicati rispetto al 1949.
Il regime ha permesso anche la riapertura di un certo numero di seminari; si parla di diciannove, tra regionali e diocesani. Purtroppo non mancano grossi problemi nella loro conduzione.Quanto alle suore, rimangono poche religiose molto anziane, sopravvissute dalle vecchie comunità disperse all’inizio degli anni Cinquanta. A queste si sono aggiunte, negli ultimi anni, oltre un migliaio di giovani suore e molte vocazioni si preparano in una quarantina di noviziati, più o meno improvvisati.
L’insospettato risorgere di interesse per le religioni, che si è manifestato nei più diversi strati della società, compresi i giovani e gli intellettuali, ha indotto numerosi studiosi cinesi a investigare le circostanze di tante conversioni, non più partendo dagli assiomi dell’ideologia marxista, ma esaminando dal vivo il nuovo fenomeno sociale. Un nuovo clima culturale sembra così emergere fra molti intellettuali, a dispetto della sistematica propaganda antireligiosa che continua da quasi mezzo secolo. E questo fa ben sperare per il futuro del cristianesimo in Cina.
Al momento della svolta di Deng Xiaoping le autorità cinesi avevano ammesso che, specialmente negli anni bui della Rivoluzione Culturale, erano state commesse gravi ingiustizie e deformazioni dei fatti a danno non solo di molti credenti, ma di vasti settori della società, e perfino di leali militanti del partito comunista. Questo aveva fatto nascere la speranza che ci fosse la volontà politica di far prevalere la verità, riscoperta e verificata appunto a partire dai fatti. In realtà, dal numero delle «riabilitazioni» attuate in questi anni risultano esclusi la maggior parte di quanti sono considerati refrattari all’ideologia o potenziali contestatori del potere dispotico. In questa situazione i credenti non sono le uniche vittime, ma vi figurano in modo preminente. E ancora oggi, periodicamente, si ha notizia di vescovi, sacerdoti e semplici fedeli arrestati o sottoposti a periodi di indottrinamento e rieducazione. Si tratta generalmente di persone socialmente innocue, ma cui si rimprovera di non accettare il controllo dell’associazione patriottica dei cattolici, preferendo esprimere la loro fede nella clandestinità e quindi con il rischio di essere considerati fuorilegge.
Anche nei confronti di chi osa farsi paladino dei diritti umani o esprimere idee politiche che si discostino dall’ideologia ufficiale, dopo la repressione di piazza Tiananmen nel giugno del 1989, c’è stato un irrigidimento e perdura la caccia ai possibili dissenzienti. Polizia ed esercito hanno la situazione fermamente sotto controllo; non c’è alcuna possibilità di intaccare la struttura di potere con la forza; significativamente, le autorità additano oggi come il maggior pericolo non la rivoluzione, ma l’«evoluzione pacifica» della società. Ma è come voler fermare il vento con i reticolati.
Il vecchio leader Deng Xiaoping, con il suo slogan «Non importa che il gatto sia bianco o nero purché prenda i topi», ha tentato di conciliare l’ideologia fondante della Repubblica Popolare Cinese, cioè il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong, con la prassi liberale, coniando l’espressione «economia di mercato socialista». Ma nelle sue prospettive, come in quelle dei tecnocrati che sono oggi alla guida del paese, non c’è alcuna esitazione sulla necessità di difendere con ogni mezzo il potere da parte del partito comunista. La priorità assoluta — dicono — è assicurare la «stabilità» del paese con lo sviluppo economico.
Conclusione
Nel grande incontro dei capi di Stato di tutto il continente americano, che si svolse a Miami nel dicembre del 1994 per gettare le basi di una collaborazione estesa dal Canada all’Argentina, veniva sottolineato che l’unica assenza era costituita da Cuba, che non vi fu invitata a causa del suo regime totalitario. Può far meraviglia che, negli incontri dei capi di Stato e di governo dell’area asiatica e del Pacifico, la presenza della Repubblica Popolare Cinese non sia contestata da alcuno.
L’amministrazione Clinton, che aveva promesso di legare il rinnovo della clausola di «nazione preferita» nei rapporti commerciali bilaterali alla concessione di sostanziali garanzie sui diritti civili da parte del governo cinese, alla fine ha dovuto cedere. La rivista Time, presentando nel novembre del 1994 il summit di Bogor, in Indonesia, intitolava il servizio Business first, Freedom second. Da parte sua, l’associazione internazionale Human Rights Watch/Asia, l’«Osservatorio sui Diritti Umani in Asia», ha lanciato più volte una denuncia, accusando i governi occidentali e i grandi operatori economici del cosiddetto mondo libero di farsi complici delle ingiustizie perpetrate dai regimi totalitari.
In preparazione alla Conferenza sui diritti umani, organizzata a Vienna dalle Nazioni Unite nel giugno del 1993, anche in Asia si erano tenuti vari convegni e seminari. Notevole, fra gli altri, un incontro di oltre duecento ONG che operano in Asia. Nella loro dichiarazione finale sottolineavano la necessità che i singoli problemi siano affrontati in una visione globale, che parta dal rispetto dei più fondamentali diritti, sociali ed economici. Larga parte delle popolazioni dell’Asia mancano infatti del minimo indispensabile per la vita, dal cibo e vestito all’abitazione, al diritto a un lavoro equamente rimunerato, all’assistenza sanitaria e all’educazione.
Approfondendo le premesse ideologiche che permettono il perpetuarsi di queste situazioni disumane, si nota che, nell’ultimo mezzo secolo, il Giappone ha costituito un modello al tempo stesso detestato e invidiato per molti paesi dell’Asia. Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, il paese del Sol Levante ha saputo imporsi come uno dei paesi più ricchi e tecnicamente sviluppati del mondo. Sulle sue orme vari paesi dell’Asia Orientale sono oggi ammirati come i «piccoli dragoni» rampanti. E altri si propongono di imitarne i metodi. Si tratta, in genere, di governi che si dichiarano per una democrazia partecipata e contro le ideologie marxiste. Ma, nella maggioranza dei casi, dominano in questi paesi dell’Asia delle oligarchie di tipo autoritario, spesso sostenute dalla classe militare, che giustificano legislazioni e applicazioni della giustizia non rispettose dei diritti dell’individuo.
Come abbiamo visto, anche la Repubblica Popolare Cinese sta oggi sovrapponendo all’ideologia marxista lo stesso modello di efficienza imprenditoriale capitalista, esaltando il profitto a scapito del rispetto per la persona, incoraggiando l’acquisizione e l’accumulo di ricchezze, con scarsa attenzione ai valori etici e ai principi morali. E gli altri paesi asiatici a regime comunista si stanno incamminando sulla stessa via.
La Chiesa cattolica, che vive in stato di infima minoranza nella maggior parte dei paesi dell’Asia, sta prendendo coscienza della necessità di impegnarsi per promuovere una nuova coscienza del bene comune, con un rinnovamento che tocchi alla radice i grossi problemi sociali. Fin dalla prima assemblea della FABC, la Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia che si tenne a Taipei, in Taiwan, nel 1974, i vescovi sottolinearono la necessità per i cattolici in Asia, che rappresentano meno del 3% delle popolazioni, di unirsi a tutte le persone socialmente impegnate, realizzando un costruttivo «dialogo di vita» con popoli di fede, di ideologia e di culture diverse, per promuovere il bene comune. Da allora, i problemi sociali e la promozione umana figurano in modo preminente nei documenti comuni dei vescovi dell’Asia.
Nella Quinta Assemblea tenuta a Bandung, in Indonesia, nel 1990, i vescovi asiatici richiamavano le loro Chiese a una profonda conversione, in modo da poter gioiosamente «servire i popoli dell’Asia nella ricerca di Dio e di una vita umana migliore». E in un seminario tenuto in Thailandia nel gennaio del 1992 facevano riferimento all’enciclica Centesimus annus, sottolineando l’interdipendenza che lega oggi tutti i popoli. Facevano quindi appello alle Conferenze episcopali dei paesi più sviluppati, e quindi dell’Occidente, perché sia fatta pressione sui rispettivi governi e istituzioni. Occorre che siano denunciate anche in Occidente le politiche che violano la dignità e i diritti umani fondamentali delle masse dei poveri degli altri continenti e in particolare dell’Asia, perpetuandone la condizione di indigenza.
Mentre consideriamo il volto disumano del comunismo reale, non possiamo dimenticare il volto altrettanto ripugnante del più sfrenato capitalismo occidentale, che non esita a sostenere praticamente questi regimi per assicurarsi un più facile e sicuro guadagno. Le multinazionali, investendo senza esitazione dove trovano condizioni più favorevoli ai propri interessi, hanno una grossa responsabilità nel favorire il mantenimento di condizioni disumane di lavoro e di sfruttamento degli strati più deboli della società in vari paesi dell’Asia.
Nell’enciclica Centesimus annus Papa Giovanni Paolo II metteva in guardia dal pericolo che ai paesi del Terzo Mondo si proponga un modello di sviluppo basato sul capitalismo: è un vero pericolo se, come specifica il Papa, con «capitalismo» s’intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso (n. 42).
Angelo S. Lazzarotto PIME