Giovanni Paolo II, Cristianità n. 240 (1995)
Discorso ai Vescovi della Regione Sud 1della Conferenza Episcopale del Brasile, del 21-3-1995, n. 3, in L’OsservatoreRomano, 22-3-1995. Traduzione dall’originale portoghese e titolo redazionali.
Chiesa e società civile, sacerdoti e politica
In primo luogo, occorre osservare che la missione della Chiesa è anzitutto di ordine religioso. Certamente, «proprio da questa missione religiosa scaturiscono dei compiti, della luce e delle forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina […] anch’essa può, anzi deve, suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi» (cfr. Gaudium et spes, 42). Ma il suo campo d’azione privilegiato consisterà sempre nell’annuncio a tutti gli uomini di Gesù Cristo — lo stesso ieri, oggi e sempre (cfr. Eb 13, 8) —, il Signore di tutto l’universo e l’unico Nome «dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12; cfr. Lumen gentium, 1). Da questa verità deriva la salus animarum come fine essenziale della Chiesa e sua legge suprema. Da qui la distinzione tanto chiara e manifesta che il Concilio fa fra la Città terrena che è la società civile, e la Chiesa che «riceve la missione di annunciare il regno di Dio e di Cristo e di instaurarlo fra tutte le genti; di questo regno essa costituisce sulla terra il germe e l’inizio» (Lumen gentium, 5; cfr. Sollicitudo rei socialis, 41). Perciò «la Chiesa, nella sua lettura dei problemi sociali, si pone su un asse che trascende i limiti della storia umana nella loro pura dimensione temporale. Essa non confonde mai il regno di Dio con la costruzione della Città degli uomini. Né assorbe questa Città, come pretenderebbero gli schemi di diverse forme di cristianità politica, né si lascia assorbire da essa, nella linea di altre sistematizzazioni che pretendono di ridurre l’azione evangelica all’impegno socio-politico» (Discorso ai Vescovi della Regione Est 1, n.7, 24-3-1990; cfr. Discorso, 13-10-1991).
In diverse altre occasioni […] ho affrontato questo punto. Posso menzionarvi il mio discorso ai Vescovi del CELAM, in cui ho ricordato loro il documento di Puebla, che mostra le conseguenze del ricorso a una visione ideologica che pretendesse di illuminare l’azione della Chiesa e che alla fine comporterebbe «la politicizzazione totale dell’esistenza cristiana, la dissoluzione del linguaggio della fede in quello delle scienze sociali e la svuotamento della dimensione trascendente della salvezza cristiana» (n. 545).
Di conseguenza, i sacri ministri, così come i religiosi e le religiose consacrati, devono evitare con cura qualunque coinvolgimento personale nel campo della politica o del potere temporale, come ha anche recentemente ricordato il Direttorio per il Ministero e la vita dei Presbiteri: «Il sacerdote, servitore della Chiesa che per la sua universalità e cattolicità non può legarsi ad alcuna contingenza storica, starà al di sopra di qualsiasi parte politica. Egli non può aver parte attiva in partiti politici o nella conduzione di associazioni sindacali» per poter «rimanere l’uomo di tutti in chiave di paternità spirituale» (n. 33). L’esperienza conferma la verità di questa affermazione: «La riduzione della sua missione a compiti temporali, puramente sociali o politici o comunque alieni dalla sua identità, non è una conquista ma una perdita gravissima per la fecondità evangelica della Chiesa intera» (Ibidem).Questo è anche l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che ricordava come la realtà temporale, attraverso i cristiani laici, sia impregnata «dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Spetta ai laici il primo posto nel compiere questo dovere» (Lumen gentium, 36). Fortificate sempre di più, con il vostro ministero e con quello dei vostri sacerdoti, la formazione cristiana del vostro laicato, affinché, illuminato dal Vangelo, possa risanare «le istituzioni e le condizioni di vita del mondo, quando esse inducessero comportamenti di peccato» (Ibidem)
Giovanni Paolo II