Giovanni Cantoni, Cristianità n. 98-99 (1983)
L’esame dei risultati elettorali nella prospettiva delle scelte di fondo e urgenti che si impongono alla nazione.
In grande evidenza dopo il 26 giugno
Il problema politico dei cattolici italiani
In previsione della tornata elettorale del 26 giugno mi ero limitato, accanto a considerazioni molto generiche, a sottolinearne la importanza almeno come test, come indagine demoscopica. Ma – accettando il giudizio corrente presso l’uomo della strada – ne avevo immaginato un esito irrilevante (1). Invece, il pronostico è stato ampiamente smentito dal fatto, e i risultati del test si sono rivelati per diversi aspetti addirittura clamorosi, sì che si impone un loro accurato esame, condotto secondo articolate angolazioni e prospettive.
1. Lo stato della nazione
Comincio dell’esame dei dati elettorali considerati nella loro integralità. rapportati al corpo di tutti gli aventi diritto al voto, e non solamente a quanti nella occasione lo hanno esercitato, cioè dalla analisi del «voto integrale» (2).
Partendo dalla sinistra comunistica – a struttura partitica leninistica e che raggruppa il Partito Comunista e il Partito Democratico di Unità Proletaria -, si rileva una sua lenta erosione, probabilmente derivante dalla «guerra di posizione», che ormai da anni deve condurre, senza sortite entusiasmanti e senza prospettive credibili nel breve o nel medio periodo. Le difficoltà dell’area vengono fronteggiate con artifici organizzativi – come, per esempio, la cooptazione dei candidati del Partito Democratico di Unità Proletaria nelle liste comunistiche nella recente tornata elettorale -, che permettono di allevare «in serra» personale dirigente alternativo e integrativo, che, all’interno del Partito Comunista, ne turberebbe la routine e i delicati equilibri psicologici derivanti dal ristagno ideologico e operativo.
Ugualmente evidente – anche se confessato a denti stretti – è il sostanziale fallimento della sinistra socialistica e libertaria – a struttura partitica giacobina e che raccoglie il Partito Socialista, quello radicale e Democrazia Proletaria -, il cui limitato successo è tanto chiaramente sproporzionato allo sforzo compiuto da configurarsi senza difficoltà come un insuccesso.
Di rilievo percentuale appare, invece, l’incremento di centro o di centro-sinistra – che interessa il Partito Liberale, il Partito Repubblicano e il Partito Socialista Democratico -, favorito più che dal cosiddetto «effetto Spadolini» – che, comunque, sarebbe più corretto chiamare «effetto governo Spadolini», evidenziando il fatto che il potere moltiplica sé stesso – dal massiccio crollo democristiano.
Proprio il crollo della Democrazia Cristiana è, di fatto, l’aspetto più clamoroso della tornata elettorale, come espressione massiccia di una caduta certamente prevista e prevedibile, ma ipotizzata come più graduale, anche se forse inesorabile. Le ragioni di questa tendenza sono da individuare nel distacco della classe politica democristiana dal mondo cattolico e dal suo «intellettuale organico», il clero, sia per dissapori di breve respiro – come il caso delle Ipab, durante l’ultimo governo Andreotti -, sia come passo obbligato verso la perfetta «laicità della politica» (3), realizzata con l’opera di «rinnovamento» del partito, travestita da «moralizzazione», che ha fatto perdere a esso ogni residua connotazione cristiana.
Infatti, tale «rinnovamento» si è rivelato come realizzazione di una prospettiva politica pragmatistica e ha, in concreto, «liberato» le diverse motivazioni dell’elettorato democristiano, favorendo il compiersi della parabola «dal diritto naturale alla sociologia» (4). Quindi, tali motivazioni elettorali «in libertà», hanno dato corpo a una fuga di voti «efficientistici» verso sponde liberali e soprattutto repubblicane, così come a una migrazione di voti «anticomunistici» verso lidi missini, e di voti «autonomistici», e «corporativi» nelle direzioni le più diverse offerte dallo sfrangiato spettro delle presenze partitiche.
In questo modo, non più trattenuto dal richiamo ecclesiastico – desueto ormai dal 1976, ma alla cui assenza si va lentamente abituando -, l’elettorato democristiano ha imboccato in forze la via della diaspora, «gridando in cuor suo» – e in questa formula sta forse la ragione principale dell’esito a sorpresa – «il voto è mio e me le gestisco io»! Importa grandemente notare che, alla proclamata «modernizzazione» della Democrazia Cristiana nei suoi vertici e nei suoi metodi, ha corrisposto, grosso modo, la fuga della parte più «emancipata» del suo storico elettorato e la permanenza della parte più integralistica di esso, che, se non coincide con il 32% dei sì espressi in occasione del referendum antiabortistico, lo richiama evidentemente, sostanzialmente e, soprattutto, simbolicamente. E il paradosso è ampiamente confermato dal decremento di voti metropolitani e dalla tenuta dei voti rurali, con fenomeno opposto a quello manifestato dal risultato elettorale del Partito Comunista.
Alla notevole flessione democristiana si è abbeverato anche il successo del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, sempre più apertamente e incontestabilmente «destra del regime» e, come tale, al momento liberato dal «malocchio» dell’«arco costituzionale» e «preparato», forse, a svolgere ruoli sempre più significativi nella «commedia dell’arte» della vita politica nazionale (5). Il prezzo della introduzione in società è stato pagato almeno con pesanti espressioni di lealismo di regime, quali, per esempio, la definizione dell’assenteismo come manifestazione di «pederastia» (6); la proclamata preferenza per il voto comunistico rispetto alla scheda bianca e il «pentimento» per la battaglia antidivorzistica (7), nonché il richiamo a «Solidarnosc come dottrina» (8), che non può non entusiasmare chi pensa da sempre alla «anomalia italiana» (9) e studia da decenni «da Jaruzelski». Comunque, l’incremento missino ricavato esclusivamente dal decremento democristiano configura il Movimento Sociale come possibile collettore di nuove dislocazioni dell’elettorato, ma certo non come educatore o rieducatore politico; in altre parole, come guardia alle frontiere di destra del regime e non certamente come missionario a destra.
Va, poi, segnalato il globale incremento dei raggruppamenti che esprimono realtà localistiche e malessere civico e di qualche segmento sociale, anche se, spesso, tali raggruppamenti sono stati infiltrati socialisticamente oppure fatti esplodere dall’interno, come nel caso della Südtiroler Volkspartei e del Partito del Popolo Trentino Tirolese.
Infine, si deve notare l’incremento delle schede bianche e dell’astensionismo che, anche secondo l’asina di Balaam – che pure ne ha tentato l’inquinamento nella fase preelettorale – non sono di sinistra, ma di centro e di destra (10). Questo incremento è tanto più significativo se si ricorda che, accanto a tutte le autorità politiche, anche l’autorità ecclesiastica è scesa in campo contro di esso, per assicurare consensi al regime e maggiore rappresentatività alla classe politica – tra l’altro con termini inauditi, cioè da anni non più uditi, neppure quando sarebbero parsi particolarmente opportuni, come nel caso dei referendum contro il divorzio e contro l’aborto -, ma senza riuscire a coprire in qualche modo la vacuità e la equivocità sostanziale dei programmi (11).
2. La dinamica della Rivoluzione a livello partitico
Lo stato della nazione – così come emerge dai dati elettorali – è quello di un corpo sociale affetto da un morbo cronico e stagnante a sinistra, e con diffuse esplosioni di vitalità che significano profonda sfiducia negli anticorpi democristiani a combattere il virus socialcomunistico ma che, anche senza compiere scelte terapeutiche significative, offre significative indicazioni sintomatologiche, che rivelano «voglie» di gerarchia di valori, di anticomunismo, di funzionalità, di autonomia reale e di attenzione al pluralismo sociale. Passo, perciò, all’esame delle possibili conseguenze di governo di fronte all’articolato dissenso del corpo elettorale, di sostanziale furbizia.
Su questo fronte, quello che – a rigore di logica – doveva succedere dopo la tornata elettorale del 1979, e che è parso modificato in radice, anche se inspiegabilmente, con il semestre fanfaniano, è oggi l’esito più verosimile della situazione che si è venuta a creare dopo il 26 giugno.
Infatti, è facilmente ipotizzabile un governo a guida socialistica – forse contestata non più da esponenti della classe politica democristiana, ma dal versante repubblicano del polo laico; e forse oggi temuta da qualche leader socialista per ragioni di potere interne al suo partito -, che conduca il paese dalla «democrazia bloccata» alla «democrazia compiuta», in una fase più avanzata di quella «democrazia mediata» che si sarebbe espressa ed esaurita con i governi Spadolini. Si tratterebbe di una fase di «transizione verso la democrazia compiuta», cioè verso l’alternativa democratica, con bipolarismo e alternanza, da inaugurare, dopo un triennio a leadership socialistica (12) e dopo nuove elezioni anticipate, forse caratterizzate dal «sorpasso» comunistico della Democrazia Cristiana e, questa volta, da un autentico successo socialistico.
Tutta la non facile operazione è da svolgere in una fase non di espansione del consenso nei confronti del regime politico che guida la nazione italiana, ma in una fase di netta e progressiva restrizione del consenso stesso. Perciò, in questa atmosfera rischiosa e con scarsa fondazione sociale, si può produrre sia un riflesso di solidarietà tra le varie componenti della classe politica, spingendola a farsi «costituente» per difendersi dal dissenso e dalle stravaganze sociali (13); sia un aumento del generale nervosismo, in relazione ai pericoli connessi alle manovre da compiere, alla loro articolazione e alla loro difficoltà oggettiva, sia intrinseca a esse che estrinseca, poiché ognuna di tali manovre comporta, tra l’altro, sacrifici in termini di potere reale, che si scontrano con umane affezioni e con storiche vischiosità, dal momento che non tutti i sovversivi sono anche «iniziati» della Rivoluzione e che i partiti e i sindacati sono chiaramente più consistenti e più vasti delle sette.
Sulla base di queste ultime osservazioni non si può, quindi, escludere, per il futuro immediato e prossimo, nessuna ipotesi governativa di quelle presenti nel ventaglio che si è venuto costruendo dalla seconda guerra mondiale a oggi, comprese la «solidarietà nazionale», il «compromesso storico», nonché, evidentemente, il «governo diverso». Quanto al «compromesso storico», esso potrebbe rivelarsi come possibile, ed essere di fatto favorito, da una arrogante indecisione socialistica, sì da presentarsi come un patto fra i «perdenti», cioè la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, in difesa contro il laicismo «vincente», rappresentato dai Partito Socialista e da quello repubblicano, e contro l’ondata qualunquistica e di «destra», nella prospettiva del fare fronte a emergenze, per altro di non difficile reperimento sul mercato della nostra società.
3. Il mondo cattolico e i suoi problemi ideologici e politici
Se è vero che i due fatti più rilevanti della recente tornata elettorale sono costituiti dalla ulteriore restrizione del consenso da parte del corpo sociale alla attuale classe politica considerata nel suo insieme, e dalla sensibile flessione della Democrazia Cristiana, vengo ora ai gravissimi problemi sollevati da questo secondo accadimento.
Del notevole decremento democristiano corrono due letture. Secondo la prima, esso sarebbe da imputare al rinnovamento, alla «modernizzazione» incompiuta, e quindi, sostanzialmente, a ragioni di tempo. «Si è perduto non per quello che […] si è fatto, ma perché non si è fatto abbastanza», sostiene Pietro Scoppola (14). «De Mita ha perso […] perché la sua politica offriva prospettive moderne e ardimentose», incalza Domenico Bartoli (15). Lo «sbaglio è stato quello di sottovalutare il costo elettorale della ventata di rinnovamento […] smantellando certe impalcature corporative e disfacendo certe strutture clientelari», sentenzia Indro Montanelli (16). Dunque, la vistosa recessione democristiana sarebbe da imputare alla rottura, reale ma incompleta oppure semplicemente incompiuta, del partito con il suo sottobosco mafioso e clientelare. Si tratta, con ogni evidenza, di una ipotesi interpretativa assolutamente priva di ogni verosimiglianza, dal momento che presuppone la verità della seguente tesi, e la sua verifica: il mafioso e l’uomo legato a un patrono partitico, privato dei suoi consueti riferimenti di sottogoverno e di sottopotere, passa a votare per repubblicani, liberali e missini, cioè per le tre gambe ideali del tripode su cui brucia la perenne memoria del prefetto Mori! Ma non è più verosimile che questo tipo umano si incisti maggiormente nel tessuto organizzativo del partito? E poi, come interpretare il decremento metropolitano e la tenuta rurale? Non a caso la lettura annovera fra i suoi sostenitori sia esponenti della Lega Democratica che «laici», e pour cause.
La seconda ipotesi interpretativa si sintetizza nella formula «Pragmatici si muore»: «Rinnovandosi la Dc ha rotto i canali […] che la legavano all’Italia reale […].
«Quindi è necessario procedere oltre, con un rinnovamento senza pragmatismo» (17).
E ancora: «Chi esce battuto da queste elezioni è il pragmatismo politico di un partito che non ha voluto guardare a fini ultimi ma è rimasto tenacemente ancorato a fini prossimi» (18).
Si tratta, certamente, di una lettura più accurata e più puntuale, ma che apre una problematica molto rilevante, dal momento che pare, in talune sue espressioni, inquinata dalla prima interpretazione, quando si afferma che le «colpe sono state pagate nel momento in cui era iniziato un rinnovamento» (19).
Si rende quindi indispensabile rubricare, almeno sinteticamente e propositivamente, i problemi bisognosi di essere affrontati alla radice e avviati a tempestiva e corretta soluzione.
a. Anzitutto, è necessario chiarire definitivamente che l’«assenza» è prospettiva protestantica, e nasce come disintegrazione della morale sociale oggettiva in morale individuale soggettiva, senza realizzazione e rilevanza storiche; che la «mediazione», e la «scelta religiosa» che la accompagna, sono le espressioni contemporanee del liberalismo cattolico, e non esercizio della virtù della prudenza e rispetto per il reale, ma accettazione del reale storico non come dato ma come norma; e che, quindi, l’unica posizione cattolica ortodossa – non un optional – è costituita dalla presenza proselitistica e diffusiva (20).
b. Si deve, poi, innervare la presenza con un serio ritorno alle origini, ma alle origini del movimento cattolico e non a quelle del suo aspetto – subito degenerato – costituito dalla tendenza democristiana, che assume la democrazia non come habitat storico oppure come regime instaurando in vista del bene comune di una determinata nazione, ma come ideologia. Infatti, nelle origini della Democrazia Cristiana, anche se di diversa denominazione, sta a tutte lettere l’attuale esito della parabola che porta dall’aconfessionalismo all’amoralismo sociale, dal diritto naturale alla sociologia, dalla corretta distinzione tra fede e impegno politico e sociale alla loro separazione quando non contrapposizione (21). Stando così le cose, si impone infine una chiara definizione di progressismo, di integrismo e di integralismo. Infatti, se «l’integrismo tende a far coincidere la verità ed il valore con le forme venerabili che ogni generazione eredita da quelle che la hanno preceduta»; se il progressismo, cioè «il modernismo, che si accorge anche troppo bene della caducità di tutte le forme che i valori, di volta in volta hanno assunto nella storia, ne approfitta per proclamare superficialmente che tutto scorre e nulla permane e che non esiste nessuna sostanza etica e morale che si sottragga al cangiamento» (22), si deve predicare il ritorno al «cristianesimo della presenza integrale» (23), al «cristianesimo integrale» (24).
4. Il paradosso della sconfitta democristiana
Su queste basi espongo la tesi – insieme interpretativa e programmatica -, che mi sforzerò di provare: se il crollo elettorale della Democrazia Cristiana non si traduce soprattutto e, possibilmente, esclusivamente, in crollo della sua attuale classe dirigente, la diaspora politica del mondo cattolico è destinata a continuare e ad aggravarsi. Infatti, se il partito democristiano ha perduto, la setta democristiana ha vinto un episodio della sua guerra, per quanto la affermazione possa parere paradossale.
Ma, proprio secondo l’on. Ciriaco De Mita, la Democrazia Cristiana ha «speso decenni di riflessione, analisi, confronti per disinnescare l’integralismo tra i cattolici», e per «assolvere ad un lavoro di emancipazione di masse, anche non cattoliche, che non avevano ricevuto una educazione democratica sufficiente ad organizzare attorno al nuovo stato consensi vasti e certi»: insomma, «per far progredire la democrazia» (25). Ebbene, che cosa è successo in modo vistoso il 26 giugno? Un contingente cospicuo di cattolici «integrali» si è «democratizzato», cioè ha fatto una scelta politica esteriormente non più determinata da prevalenti motivazioni religiose e morali; e ha lasciato il partito sempre soggettivamente sentito come la espressione politica dei cattolici italiani. Dunque, il pluridecennale lavoro politico democristiano ha dato il suo frutto, e una parte dell’elettorato democristiano ha imboccato la via della diaspora e del pluralismo ideologico: non è quindi fuggita per un preteso mancato rinnovamento, oppure per un suo ritardo, ma proprio a causa del progressivo realizzarsi di tale «modernizzazione», sì che è rimasta solamente la parte che continua a denunciare la necessità di una politica integralmente naturale e cristiana, nonostante le decennali delusioni. La interpretazione rende ragione anche della dislocazione elettorale sulle sponde del Movimento Sociale? Ce ne assicura insospettabilmente l’on. Rino Formica, affermando che «persino il voto aggiuntivo al Msi è un voto […] che […] si muove in una prospettiva di maggior democrazia, di effettiva uguaglianza fra tutti i partiti» (26), cioè fra tutte le visioni del mondo che sono soggiacenti ai loro programmi contingenti.
Quindi, se l’attuale classe dirigente democristiana può continuare la sua opera di «emancipazione» del mondo cattolico, la sua vittoria è destinata a nuovamente prodursi, dal momento che consiste nella eliminazione di ogni differenza di impegno politico sulla base di scelte religioso-morali, e nella completa dissoluzione di ogni residuo sanfedistico nella società italiana in realtà partitiche che fanno riferimento a visioni del mondo genericamente spiritualistiche, oppure non religiose e più o meno aggressivamente laicistiche. Certo, per la Rivoluzione il meglio sarebbe, fin da subito, educare «cristiani per il socialismo»; ma, se l’operazione presenta difficoltà, si deve accontentare di «cristiani per tutto», Purché non siano per «una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio» (27)! È la secolarizzazione, la fine di ogni gerarchia di valori, che prelude alla fine di ogni valore, magari passando attraverso un generico spiritualismo: è la lotta che vede il contributo della setta democristiana alla «dis-integrazione» del mondo cattolico, con il suicidio finale ipotizzato correttamente da Antonio Gramsci (28); è una battaglia perché tutti possano vincere e i cattolici perdano sempre, esaurendo progressivamente le loro forze, conquistate in secoli di missioni in Occidente.
5. Per una reazione consapevole
Se le premesse sono corrette e la paradossale tesi provata, si evidenzia con la massima chiarezza la necessità di non lasciarsi assolutamente coinvolgere da riflessi di solidarietà con il mondo cattolico che comprendano anche la proditoria guida democristiana, che ne sta promuovendo con vigore la scomparsa – l’«assenza» – attraverso la diaspora politica prodotta dalla propria «mediazione».
Perciò, si impone la unità del mondo cattolico attorno alla verità cattolica, che sostanzia la cultura cattolica, e testimonia la «qualità della vita» cattolica (29).
Perciò, ancora, si deve rifiutare ogni collaborazione a una rimonta della setta democristiana, ma operare per una riaggregazione cattolica, culturalmente qualificata, che si ponga correttamente la prospettiva di una soluzione adeguata, prima ideologica e poi operativa, del problema politico dei cattolici italiani e degli italiani di buona volontà, per retaggio di civiltà naturaliter christiani.
Relativamente al «che fare» si può ricavare grande vantaggio dallo studio e dalla comprensione della prassi del Partito Comunista e del suo mondo, frutto di una grande opera organizzativa, anche se si tratta, evidentemente, di «diseducazione organizzata». Ma spunti fecondi non mancano certo nell’associazionismo cattolico di sempre, ma soprattutto in quello seguente la Rivoluzione francese in genere e il Risorgimento in specie.
Il corpo sociale italiano, nella sua espressione elettorale, rivela infatti vasti residui di buon senso e di buono spirito – che, in analogia con il sensus fidelium, chiamerei sensus civium, purché non venga ridotto e banalizzato nel significato corrente di «senso civico» -; rifiuta il bipolarismo e non cede al pendolarismo elettorale in cui paiono essere cadute le altre nazioni europee; rinnova, sostanzialmente, la «lezione italiana», ma abbisogna di educazione politica per sviluppare in consapevolezza le sue indubbie potenzialità, e, anzitutto, per cogliere la distinzione tra Stato e società, impedire la vampirizzazione partitica del corpo sociale e delle sue strutture emergenti, e rifiutare la riduzione della politica ad amministrazione, con il conseguente appiattimento ideale.
Quello che ho tracciato, sia pure di massima, è chiaramente una proposta, un progetto. Perché non sia utopistico quanto alla sua realizzazione, posto che non lo sia quanto al suo contenuto, devo completarlo, sia pure ancora di massima, rispondendo ai quesiti: chi? come? quando?
Chi, dunque? Ogni cattolico e ogni uomo di buona volontà ne può essere realizzatore, dal momento che la politica fa riferimento alla morale e la sintesi della morale è il decalogo, espressione rivelata pro memoria – cioè non di necessità metafisica – delle «esigenze fondamentali di ogni morale umana» (30).
Come, poi? Soprattutto attraverso la fondazione – oppure la conversione – di circoli a coagulo occasionale svariato, che possano essere veicoli di cultura politica naturale e cristiana nei suoi elementi principali. Tali circoli devono essere organizzati e fatti vivere come premessa culturale di liste civiche, da provare nel 1985, nella prospettiva di una lega di liste civiche per la prossima tornata elettorale.
Quando, infine? Da subito alla prossima campagna, verosimilmente fra tre anni, come già facilmente si profetizza (31).
Alla completezza del quadro credo sia opportuno aggiungere le risposte a due quesiti ulteriori, se non ultimi. Il primo riguarda la possibilità che non si verifichi nulla di tutto quanto ipotizzato. Ebbene, in questo caso, fra tre anni, naturalmente ceteris paribus, il quadro politico ci ripresenterà una Democrazia Cristiana più «moderna» – magari rinvigorita dal sangue delle giovani generazioni organizzate dal Movimento Popolare e delle emergenti classi dirigenti della società -, che ricatta il mondo cattolico con il pericolo del «sorpasso» comunistico, ripropone una versione aggiornata del ‘48 e rimonta quel tanto che basta per continuare il suo lavoro di «democratizzazione»: oppure perde ancora e gioca di nuovo la carta del riflesso di solidarietà sentimentale. Fino al suo suicidio, che si accompagna a una sempre maggiore impotenza del mondo cattolico, su cui grava pesante, tra l’altro, la Realpolitik della parte più attiva del personale ecclesiastico, pronta ad accettare come fatti compiuti anche i desiderata di nemici confessi del nome cristiano, offrendo in cambio alle vittime – o agli strumenti del proprio arrendismo – qualche riga di «onore al sacrificio» su qualche organo di stampa autorevole.
Il secondo quesito si chiede perché non tentare la trasformazione della Democrazia Cristiana dall’interno. Rispondo che non escludo assolutamente la possibilità di una sua conversione clamorosa e, per tanti versi, miracolosa; ma che tale conversione non mi pare possa essere frutto di poche o molte «infiltrazioni», ma di un autoritativo ed esplicito intervento della stessa autorità ecclesiastica, che per decenni si è fatta garante della Democrazia Cristiana, e che ora dovrebbe, se del caso, promuoverne formalmente la conversione e autenticare sempre formalmente l’avvenuto miracolo.
Diversamente, non resta che operare, con serietà e alacrità, confidando in Dio e nella sua santissima Madre, e annoverando fin da ora fra le loro grazie tutti gli aiuti – o almeno i mancati ostacoli – che potranno venire da parte di chi, ai più diversi titoli, gestisce potere spirituale, politico, sociale ed economico. Comunque, fin da ora, Deo gratias Virginique Matri, grazie a Dio e alla Vergine Madre.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. il mio Premesse al voto e oltre, in Cristianità, anno XI, n. 97, maggio 1983.
(2) Cfr. 26 giugno 1983. Le cifre del «rifiuto» e il «voto integrale». In questo stesso numero di Cristianità.
(3) CIRIACO DE MITA, Il gioco del polo, in il Giornale, 29-12-1982. Cfr., in consonanza, FRANCO RODANO, Questione democristiana e compromesso storico, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 108-112, e passim.
(4) È il titolo significativo di un vecchio libro: cfr. JACQUES LECLERCQ, Dal diritto naturale alla sociologia, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1962.
(5) Cfr., per esempio, INDRO MONTANELLI, Almirante core ‘ngrato, In il Giornale, 1-7-1983.
(6) Cfr. Corriere della Sera, 22-6-1983.
(7) Cfr. Il Giorno, 6-6-1983.
(8) Cfr. il Giornale, 30-6-1983; e Secolo d’Italia, 29-6-1983.
(9) Cfr. FRANCO BERTONE, L’anomalia polacca. I rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica, Editori Riuniti, Roma 1981.
(10) Secondo Marco Pannella, infatti, «c’è una grande forza civile di saggezza, responsabilità, di ordine vero degli elettori di destra e di centro», manifestata dallo «sciopero del voto» (il Giornale, 29-6-1983).
(11) Due episodi per tutti. Secondo mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi internazionale, «parlando in termini di morale tradizionale, non evita il peccato mortale chi, al di fuori di una effettiva impossibilità fisica, non desse il suo voto per la guida del Paese». (ADISTA, anno XVII. nn. 2668 – 2669 – 2670, 6/7/8-6-1983, p. 5). Mi limito a segnalare il lungo «peccato mortale» commesso dal popolo cattolico, con licenza pontificia, al tempo del non expedit.
Quanto alla conoscenza dei programmi fra i quali l’elettore è stato invitato a scegliere responsabilmente, mons. Michele Mincuzzi, arcivescovo di Lecce, sostiene che «il partito della Dc […] afferma e statutariamente si impegna a ispirare al Vangelo e all’insegnamento sociale della Chiesa la sua attività politica» (Gazzetta del Mezzogiorno, 29-5-1983). Mi limito a segnalare come ogni e qualsiasi riferimento al Vangelo e all’insegnamento sociale della Chiesa sia assente dall’ultimo Statuto della Dc, pubblicato in Il Popolo, 28-4-1982.
(12) La strategia e la corrispondente terminologia sono chiaramente esposte in una importante intervista concessa dal leader socialista Rino Formica: cfr. la Repubblica, 30-6- 1983.
(13) Cfr., per tutti, il Giornale, 30-6-1983.
(14) PIETRO SCOPPOLA, Tentazioni e speranze del 32%, in Il Tempo, 3-7-1983. Cfr. anche padre Bartolomeo Sorge S.J., in Il Sabato, anno VI, n. 29, 16-7-1983, p. 7.
(15) DOMENICO BARTOLI, Sul ponte sventola scudo crociato, in il Giornale, 29-6-1983.
(16) Ibid., 30-6-1983.
(17) Il Sabato, anno VI, n. 27, 2-7-1983, p. 1.
(18) Ibid., p. 5. La dichiarazione è di Augusto Del Noce, forse la vittima più illustre del crollo democristiano e, forse, sacrificato dalla setta (cfr. ibid., anno VI, n. 28, 9-7-1983, p. 4).
(19) Così Roberto Formigoni, in Avvenire, 3-7-1983.
(20) Quanto affermo è diametralmente opposto a ciò che sostiene padre B. SORGE S.J., I cristiani nel mondo postmoderno. Presenza, assenza. mediazione?, in La Civiltà Cattolica, anno 134, n. 3189, 7-5-1983, pp. 243-254. Ivi si possono leggere tesi come la seguente: «Vi sono acquisizioni del mondo moderno che ormai sono irreversibili, quali il pluralismo […] delle visioni della vita» (p. 249). Mi chiedo cosa sarebbe stato del cristianesimo se i nostri padri nella fede avessero considerato come «irreversibili» certe «acquisizioni del mondo» antico, come, per esempio, il politeismo, cioè una sorta di pluralismo religioso e, quindi, «delle visioni della vita» più direttamente rapportate al sacro.
(21) Cfr. i miei La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980; La «democrazia compiuta» ovvero l’Italia rossa grazie alla setta democristiana, in Cristianità, anno X, n. 85, maggio 1982; e Utopia «democratica» e Democrazia Cristiana, ibid., anno X, n. 91, novembre 1982.
(22) A. DEL NOCE, L’«anomalia polacca» e la politica italiana, in Il Tempo, 24-6-1983.
(23) IDEM, I nuovi e i vecchi zar al capolinea dell’ateismo, in Il Sabato, anno VI, n. 25, 18-6-1983, p. 21.
(24) INOS BIFFI, Cultura cristiana. Distinguere nell’unito, Jaca Book, Milano 1982, p. 18. Cfr. anche JOSÉ LUIS ILLIANES, Cristianismo, Historia, Mundo, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1973, pp. 28-30; e il mio «Progressismo», «integrismo» e cattolicesimo integrale, in Cristianità, anno VIII, n. 66, ottobre 1980.
(25) C. DE MITA, Discorso tenuto in apertura dei lavori del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, del 5-10-1982, in Il Popolo, 16-10-1982.
(26) Cfr. la Repubblica, cit.
(27) GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema Dalla «Rerum Novarum» ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa, del 31-10-1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 2, p. 523.
(28) «Il cattolicismo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida» (ANTONIO GRAMSCI, I popolari, in L’Ordine Nuovo, anno I, n. 24, 1-11-1919, in L’Ordine Nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1954, p. 286). Il «suicidio» del «cattolicismo» attraverso la sua «democratizzazione» è il corrispondente temporale della «autodemolizione della Chiesa» (cfr. PAOLO VI, Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VI, p. 1188).
(29) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, doc. cit., p. 522.
(30) IDEM, Discorso ai giovani, al Parc-des-Princes, dell’1-6-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 1, p. 1622.
(31) Cfr. sempre la Repubblica, cit.