Giovanni Cantoni, Cristianità n. 236 (1994)
Dopo le dimissioni del primo Governo Berlusconi
«Italiani, state puniti!»
Un «golpe» giudiziario, massmediatico e politico «corregge» gli «errori» partitici dell’elettorato, punisce la sua «disubbidienza» alle indicazioni dei potentati della Prima Repubblica e — aprendo una crisi al buio — di fatto lo «rimanda» alle urne.
Convinto come sono della straordinaria portata della libertà nell’operare dell’uomo, avverso ogni e qualsiasi ipotesi di fatalità storica, come quella — per esempio — ipotizzata dalla dottrina del cosiddetto «eterno ritorno», sempre che qualcuno l’abbia mai professata come viene consuetamente esposta. Ma il rifiuto della «ripetizione» materiale dei fatti non può giungere al rigetto pregiudiziale del loro ripresentarsi formale e, quindi, dell’analogia fra gli avvenimenti, né finalmente comportare la negazione di una topica storica, cioè del riproporsi di «luoghi comuni» nel corso degli accadimenti, corrispondenti ai luoghi comuni nel discorso, parlato e scritto, il cui insieme è parte cospicua della retorica. Questa rapida notazione dottrinale vuole introdurre all’esame del golpe che si è realizzato nella Repubblica Italiana a partire dai giorni immediatamente seguenti l’esito della tornata elettorale del 27 marzo 1994 e che è culminato con le dimissioni, il 22 dicembre 1994, del governo guidato dall’on. Silvio Berlusconi.
1. La premessa maggiore è costituita dalla tesi secondo cui la Repubblica Italiana è stata — ed è ancora — sottoposta a regime socialcomunista. Il regime socialcomunista in questione non è stato e non è certamente di tipo marxista-leninista simpliciter, ma di tipo marxista-leninista-gramsciano. In altri termini, l’egemonia del partito comunista in Italia non si è realizzata e non si realizza, come altrove nel mondo, soprattutto, anche se non esclusivamente, con modalità politico-istituzionali e con corollari poliziesco-concentrazionari, ma in forme lato sensu culturali. L’articolazione sociale e l’organizzazione statuale di un popolo come quello italiano — frutto di caratteri peculiari anche geografici e di una storia pure marcatamente specifica — permettono l’identificazione in esse non solo dei tre classici poteri politici, legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche di almeno quattro poteri sociali reali, cioè real- mente esercitabili ed esercitati:
a. quello culturale stricto sensu, il cui ambito si stende dalla formazione all’informazione, dalla scuola materna ai mass media;
b. quello ecclesiastico, identificabile con la gerarchia della Chiesa naturalisticamente considerata come opinion maker;
c. Quello economico, costituito dall’attività imprenditoriale che si articola nei settori primario, secondario e terziario, e che si fa sfuggente — ma non per questo meno significativa — nelle zone alte del servizio bancario, nelle atmosfere rarefatte dell’alta finanza;
d. e, infine, quello sindacale.
Ebbene, relativamente a questi poteri sociali, a tutto il 27 marzo 1994 il partito comunista esercitava indirettamente e in diversa misura quelli politici, direttamente quelli culturale e sindacale, e contava amici e fiancheggiatori in quello ecclesiastico e in quello economico.
2. Per ragioni le più diverse — ma che vanno per certo da problemi economici a indiretti interventi soprannaturali — a partire visibilmente dal 1985 il mondo dei regimi di socialismo reale è entrato in palese ristrutturazione, attraverso la pratica della glasnost, la «trasparenza», e della perestrojka, appunto la «ristrutturazione». Tale mutazione ha avuto un momento emblematico nella caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e viene svelando la propria natura grazie all’assenza pressoché completa di conflittualità politico-sociale nei paesi in cui si realizza e al permanere o al ritornare al potere in essi delle vecchie nomenklature comuniste (‘).
Questa transizione pilotata, questa fuoruscita dai regimi di socialismo reale costituisce la premessa remota dei mutamenti politici in corso in Italia — il principale paese a regime socialcomunista nel cosiddetto «mondo libero» — dove si vengono realizzando dall’ultima fase della presidenza di Francesco Cossiga, quindi dai mesi immediatamente precedenti la tornata elettorale del 5 aprile 1992, cioè dall’esordio dell’operazione giudiziaria detta Mani Pulite, che chiude gli anni Ottanta, cioè quello che si può forse definire l’«allegro decennio craxiano».
Dopo che la trasformazione del regime socialcomunista italiano era stata inaugurata dalle «picconate» del presidente della Repubblica Francesco Cossiga — a ennesima conferma del classico piscis a capite foetet —, il 3 ottobre 1992, sul Corriere della Sera, Paolo Franchi raccoglieva un’intervista a Massimo D’Alema, in cui l’esponente socialcomunista invitava a notare un’analogia, cioè «[…] quanto assomiglia alla fine del socialismo reale, la crisi del nostro sistema» (2).
Quindi, all’opera de1presidente della Repubblica si affiancava quella di magistrati con il lancio dell’operazione Mani Pulite, praticata con mostruoso strabismo (3) e comunque destinata oggettivamente, a causa di un degrado della classe politica dirigente sia reale che artatamente favorito, a garantire il risultato del gioco elettorale maggioritario, il cui profilo istituzionale era stato ampiamente definito dalla consultazione referendaria del 18 aprile 1993, poi dalla riforma elettorale, approvata dai due rami del Parlamento il 3 e il 4 agosto 1993 e, dopo di allora, resa operativa e regolamentata. In concreto, tale procedura elettorale doveva porre davanti agli elettori la scelta fra i «puliti», i «progressisti», e gli «sporchi», i «conservatori», la vecchia classe dirigente formale. Ma il 27 marzo 1994, per ragioni di certo assai varie, nello scontro a due — versione addizionata di trucco dei «ladri di Pisa» — ha avuto impensatamente la meglio il terzo, la cui presenza deve consuetamente soltanto rendere verosimile il gioco e garantirne agli spettatori il carattere veritiero (4).
Di nuovo — in altri termini — in Italia la transizione pilotata doveva portare il partito comunista alla gestione, autenticata dal consenso elettorale, anche dei poteri legislativo ed esecutivo, confermando la sua infiltrazione in quello giudiziario e favorendo la crescita in autorevolezza dei suoi amici e fiancheggiatori in quelli ecclesiastico ed economico. Ma le cose sono andate diversamente, l’operazione non è riuscita perfettamente, qualcosa non ha funzionato, non tanto tecnicamente, quanto soprattutto nella risposta del corpo elettorale, nell’espressione elettorale della cosiddetta opinione pubblica, che ha confermato il perdurare di quella che mi è parso a suo tempo di poter definire la «lezione italiana», cioè l’avversione irriducibile al comunismo del popolo italiano (5).
3. Allora è cominciato il golpe. E con il golpe l’analogia.
Nell’ex Unione Sovietica la comparsa di prodotti indesiderati, di scarti di produzione nella realizzazione dei processi di glasnost e di perestrojka, cioè l’irruzione sulla scena di personaggi terzi, incontrollati e incontrollabili, come Boris Nikolaevic Eltsin, ha reso necessario il golpe d’agosto del 1991, giocato d’intesa fra Michail Sergeevic Gorbaciov e l’esercito (6).
Così, nella Repubblica Italiana si è venuto attuando — e si è perfezionato — un golpe conforme alle caratteristiche storico-istituzionali dello Stato in cui si realizzava, il cosiddetto «Stato di diritto» (7), un colpo di Stato comunque intenzionato a eliminare i frutti dell’imprevedibilità storica, cioè quella che è stata indicata come la «vittoria della destra», una vittoria consistente molto più modestamente — rispetto alla magniloquenza ingannatrice dell’espressione — nella titolarità del potere ma con esiguo potere reale quanto all’esecutivo, e in un potere risicato ed esposto a ogni vento di follia quanto al legislativo. E del golpe nel senso indicato sono stati protagonisti — consapevoli o inconsapevoli — non le Forze Armate, nelle democrazie occidentali europee oggi funzione di basso profilo nell’esecutivo, ma esponenti del potere giudiziario d’intesa con le più elevate cariche istituzionali dello Stato, in esercizio o in quiescenza, operatori di vertice del potere culturale, soprattutto nella sua articolazione mass-mediatica, nonché uomini politici di bassa lega che, oltre la retorica novista, sono il residuo della peggiore partitocrazia, priva di spessore culturale, demagogica e pregiudizialmente spregiatrice delle indicazioni del corpo elettorale. Nessun blindato ha sferragliato per le strade — se fosse accaduto tutti avrebbero pensato semplicemente, con maggiore o minor gradimento, a prove intempestive per la sfilata del 2 giugno — né dai quartieri alti del potere è giunta l’eco di colpi che facessero pensare a scontri fra reparti diversamente schierati: niente di tutto questo, ma solamente avvisi di garanzia, conferenze stampa e ovattati talk show, con qualche kermesse animata dall’esibizione di cantanti di lumbard rock, un tempo detta comizio. Se qualcuno sostenesse che i golpe non più cruenti sono la prova di un progresso evidente e costituiscono un segno della democrazia, trascurerebbe il rovescio della medaglia e cioè il fatto che l’assenza di segni forti toglie evidenza a quanto accade, in qualche modo lo nasconde, quindi non solo impedisce l’identificazione immediata dei violenti, dei prevaricatori e dei loro complici, ma rende non poco problematica e difficile la stessa identificazione del golpe, di cui si diventa consapevoli soltanto dopo che si è realizzato.
Comunque — e quale che sia la valutazione strutturale del fatto in sé — in Italia è stato realizzato un golpe, con l’intento palese di correggere l’esito, quanto all’esercizio dei poteri legislativo ed esecutivo, dell’espressione della volontà popolare così come si è manifestata il 27 marzo 1994; e a tale correzione si è voluto provvedere sulla base di una sapienza riposta, quella di chi, della democrazia, ha la nozione seguente: «democrazia è l’espressione, ordinata o meno, formale o meno, rispettosa delle regole istituzionali o meno, del consenso popolare al comportamento di una parte, mentre ogni espressione di dissenso, per quanto ordinatissima, formalissima e regolatissima, cade fuori da questo sacro recinto».
Dunque, non si tratta della eventuale correzione da parte degli eletti di un errore morale commesso dagli elettori, correzione che sarebbe non solo lecita ma doverosa — naturalmente con ciò mettendo gli eletti a rischio il proprio potere — dal momento che le maggioranze non sono infallibili e che gli stessi eletti sono responsabili non soltanto di fronte agli elettori, ma anche — soprattutto — di fronte a Dio e alla sua legge: assolutamente no. Infatti e per esempio — com’è ben certo, se non altrettanto ben noto e notato — nessuno ha mai neppure pensato di correggere gli esiti referendari in tema di divorzio e di aborto (8). Quindi, si tratta piuttosto e unicamente della correzione di un errore elettorale, partitico, consistente nel fatto che gli elettori hanno preferito certi candidati ad altri, certi cartelli elettorali ad altri, cioè non hanno seguito le indicazioni implicite ed esplicite delle lobby, dei potentati della Prima Repubblica, che indicavano come eligendi i «progressisti»; e la correzione ha anche il sapore di una punizione degli elettori che hanno osato disubbidire e che quindi, con l’apertura di una crisi al buio, vengono «rimandati» alle urne.
4. Con ogni evidenza la classe politica che ha gestito il potere nella Repubblica Italiana per decenni, rispondendone più o meno esplicitamente a potenti internazionali, ha dovuto seguire le trasformazioni dei propri mentori; per la loro migliore sequela ha proposto all’opinione pubblica regole del gioco diverse da quelle instaurate in illo tempore, cioè all’epoca della fondazione del regime, introducendo il sistema elettorale maggioritario. Accanto al mutamento delle regole ha predisposto anche la criminalizzazione di uno dei due contendenti, e in questo è forse andata oltre il segno o almeno oltre la prudenza — la presunzione e l’abitudine a vincere comunque può far perdere il senso della misura — così che si è prodotta una «diversità», la «vittoria della destra» (9). Quindi, questa diversità doveva e deve essere eliminata con un intervento chirurgico, praticato per via massmediatica e giudiziaria e con la messa in opera di un tradimento partitico prima dell’elettorato poi dell’alleato.
5. Ma perché si è giunti a tanto? Oltre al mancato conseguimento della titolarità dei poteri esecutivo e legislativo da parte dei progressisti, qual era il pericolo a cui erano esposti la Repubblica Italiana e il popolo che organizza a causa del permanere all’esecutivo del Polo delle Libertà e del Polo del Buon Governo? Qual era la posta in gioco?
* La democrazia, come ha detto e dice qualcuno? Ma quale democrazia? Forse l’acquiescenza alle indicazioni di chi, se non seguito, tenta di mutare proditoriamente e furbescamente le regole finché non consegue il risultato da lui auspicato?
* La solidarietà sociale, come hanno affermato e affermano irresponsabilmente altri, soprattutto nel mondo cattolico ed ecclesiastico? Ma quale solidarietà sociale si può pensare di realizzare con la collaborazione di chi ha mostrato — in Italia e nel mondo intero — di saper produrre solo la «vergogna del nostro tempo» — come sono stati definiti i regimi di socialismo reale in un’autorevole documento vaticano (l10) —, cioè povertà di ogni genere, quindi non solamente economiche, piuttosto che affrontarle e in qualche modo risolverle, a meno che non si ritenga soluzione del problema della povertà l’eliminazione fisica del povero?
* Il federalismo, come urlano terzi? Ma cos’ha a che fare con il federalismo, che appunto «federa» soggetti statuali esistenti nella prospettiva della soluzione collegiale di problemi comuni, con la produzione artificiale di Stati a tavolino, senza nessun rispetto né per la geografia poco nota né, tanto meno, per la storia decisamente ignota?
La confusione è grande, ma — al di là di essa — appare con sufficiente chiarezza come l’alternativa reale sia stata e sia fra una democrazia coniugata al relativismo etico, ai valori intesi come «quello che vale per me», e una democrazia con qualche principio, con qualche valore inteso come «qualcosa che vale per sé» e quindi sottratto alla qualificazione o alla dequalificazione attraverso il consenso elettorale (11).
E ancora e finalmente: in che misura, pur nella grande confusione, questa alternativa non è trasversale al panorama politico, ma verticale rispetto ai fronti che si sono venuti formando? Tale misura è ben rappresentata dal rapporto fra il peso del Partito Democratico della Sinistra, il «partito radicale di massa» (12), che egemonizza almeno quantitativamente — ma non solo — il fronte progressista, e quello dei Riformatori radicali, che costituiscono il fiore all’occhiello di sinistra del fronte moderato.
6. Un’indicazione credo di doverla pure a chi è impegnato, da eletto o da semplice elettore, sul fronte su cui si è consumato il golpe, ma dalla parte opposta a quella dei golpisti. Anche se, nella sua materialità, il golpe è riuscito, dopo il tempo per certo importante della sua realizzazione viene quello ancora più importante del suo consolidamento, e non di rado vincere è più agevole che gestire la vittoria. Tale consolidamento può essere ostacolato radicalmente solo dal porsi come alternativa ai golpisti, senza nessuna disponibilità a collaborare con loro, né nel grande né nel piccolo, senza lasciarsi in nessun modo sedurre da richiami privi di significato reale a un superiore bene della nazione. Così facendo non si imita, con spirito di ripicca o di futile rivalsa, la perfetta insensibilità di cui hanno dato prova i golpisti stessi relativamente a tale bene, che altro non è che il bene comune. Infatti, il bene comune va certamente perseguito, ma l’avvio del suo conseguimento ha come presupposti anzitutto la sconfitta dei golpisti, non il loro consolidamento, quindi la conferma della «vittoria della destra», con un indispensabile corollario, e cioè che la «destra» divenga sempre più «destra» simpliciter e sempre meno «destra della sinistra».
Non mi sono esibito in un gioco di parole, che non mi permetterei perché non stiamo vivendo una stagione per giocare. Noto subito che, se non è tempo per giocare, forse non vi è gran tempo neppure per finalmente studiare e rispondere con discernimento al quesito «chi fur li maggior tui» (13), «che cosa vuol dire essere di destra». Perciò — ad horas — mi permetto di dare un’indicazione, sulla cui base ciascuno — eletto ed elettore — può misurare qualitativamente ogni forza politica e quantitativamente ogni cartello: è «a destra» chi, anche nella vita sociale, accetta il Decalogo come criterio di giudizio prima dei programmi e poi dell’operato, «a sinistra» chi proclama e tenta di realizzare l’«antideculogo» (14).
7. Ho fatto riferimento al Decalogo, cioè alla sintesi della morale naturale confermata dalla Rivelazione. Si dovrebbe trattare di un richiamo chiaro. Purtroppo però non mancano esponenti della gerarchia ecclesiastica che, invece di predicare la morale e così formare le coscienze, si spendono a sproposito e si perdono, metaforicamente e letteralmente, in indicazioni sulle manovre politiche nonché sulle liste e sui partiti, quando non sui singoli candidati, mentre — al dire di Papa Giovanni Paolo II — «[…] per tale impegno di azione e di militanza politica non hanno né la missione né il carisma dall’alto» (15); e, se lo fanno da semplici cittadini, trascurano sempre di denunciare esplicitamente questa loro diminutio status — ma quanti mass media farebbero eco alle loro esternazioni, se non le potessero presentare come di esponenti della gerarchia cattolica in quanto tali? — e il più delle volte si rivelano anche cittadini non particolarmente ben formati quando non disinformati (16).
Quindi, nel sospetto che il mio richiamo non sia chiaro, poiché si tratta di dottrina morale e non dell’amministrazione di sacramenti propria del sacerdozio ordinato, fondandomi su una preziosa indicazione di Papa Pio XII, applico il principio di sussidiarietà anche alla Chiesa (17) e non mi limito al rimando formale al Decalogo, ma traduco dal Catechismo della Chiesa Cattolica il Decalogo stesso in proposizioni adeguate alla vita sociale e alla sua problematica, cioè in termini immediatamente utilizzabili dal fedele e dal cittadino.
In primo luogo e anzitutto, siccome non esiste decisione umana di profilo non infimo senza implicazioni morali, la legge morale deve orientare la vita associata e non vi è legge senza legislatore, non vi è morale senza Dio; quindi la famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, è cellula della società e modello di ogni aggregazione naturale e volontaria; la vita innocente va rispettata dal concepimento alla morte naturale; la vita sessuale si svolge in modo lecito solo nel matrimonio monogamico eterosessuale, dove solamente può essere feconda, e che è istituto atto a proseguire con l’educazione quanto iniziato nella procreazione, e ogni comportamento sessuale diverso può essere tollerato, ma mai tutelato e tanto meno promosso; la proprietà privata anche dei mezzi di produzione e la libertà economica sono lo strumento e la condizione ordinari per realizzare la destinazione universale dei beni; finalmente, l’informazione massmediatica non solo deve essere veritiera e non promuovere il male morale, ma non deve sostituirsi alla realtà e alla sua esperienza.
8. Quanto ho scritto è dell’ora e per l’ora, per un presente che però non esime né dall’operare instancabilmente per una conversione culturale profonda, condizione indispensabile di un’altrettanto profonda trasformazione politica — la società viene prima dello Stato, che ne è solo lo status — né, soprattutto, dal pregare, perché solo la preghiera «colpisce» gli aspetti inquietanti, misteriosi, bui e occulti degli avvenimenti, e questi aspetti, come sempre se non più di sempre, non mancano certamente nell’Italia del secolo XX.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. i miei L’impero socialcomunista fra crisi e «ristrutturazione», Cristianità, anno XVIII, n. 177, gennaio 1990, pp. 3-6 e 12; Alexandre de Marenches: Mikhail Gorbaciov e gli «struzzi», ibid., anno XVIII, n. 178, febbraio 1990, pp. 3-5; Fra crisi e «ristrutturazione»: ipotesi sul futuro dell’impero socialcomunista, ibid., anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp. 13-19; e «Verità su Fatima», ibid., anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991, pp. 3-4.
(2) Cfr. D’Alema: un dovere non perdere la testa, intervista a cura di Paolo Franchi, in Corriere della Sera, 3-10-1992.
(3) Cfr., esemplare per tutta la problematica che va ben oltre le cosiddette Tangenti Rosse, MAURO RONCO, Gladio rossa, l’«inchiesta impossibile», in Secolo d’Italia. Quotidiano del MSI-DN, 30-10-1994.
(4) Cfr. il mio L’alternativa davanti ai Poli delle Libertà e del Buon Governo: Seconda Repubblica o Nuova Repubblica?, in Cristianità, anno XXII, n, 227-228, marzo-aprile 1994, pp.3-5.
(5) Cfr. il mio La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980.
(6) Cfr. il mio URSS, agosto 1991: una tappa sulla strada del post- comunismo, in Cristianità, anno X1X, n. 197-198, settembre-ottobre 1991, pp. 3-6; e PIERRE FAILLANT DE VILLEMAREST, URSS, agosto 1991: il fallimento di un colpo di Stato, ibid., pp. 6-8.
(7) Cfr. JAN VALLET DE GOYTISOLO, Il moderno Stato di diritto, in Cristianità, anno XX, n. 201-202, gennaio-febbraio 1993, pp. 5-10; e IDEM, Una vecchia concezione dello Stato di diritto, ibid., anno XX, n. 203, marzo 1993, pp. 5-9.
(8) Cfr. ALFREDO MANTOVANO, La Democrazia Cristiana e l’aborto: perché fu «vero tradimento», ibid., anno XXII, n. 232-233, agosto- settembre 1994, pp. 13-15.
(9) Cfr. il mio Qualche domanda su «riforme», «questione morale» e altro, ibid., anno XX, n. 207-208, luglio-agosto 1992, pp. 3-4.
(10) CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su alcuni aspetti della «Teologia della liberazione» «Libertatis nuntius», del 6-8-1984, XI, 10.
(11) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Centesimus annus nel centenario della Rerum novarum, del 1°-5-1991, n. 46.
(12) Cfr. la mia intervista «Fermiamo il partito radicale di massa», a cura di Angelo Cerruti, in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio- febbraio 1994, pp. 10-12, trascritta e annotata da Secolo d’Italia. Quoti- diano del MSI-DN, 6-l-1994.
(13) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia. Inferno, canto X, v. 42.
(14) Sull’«antidecalogo», cfr. GIOVANNI XXIII, Radomessaggio natalizio ai fedeli e ai popoli del mondo intero, del 22- 12- 1960, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. III, pp. 90-91.
(15) GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’udienza Generale, del 28-7-1993, in L’Osservatore Romano, 29-7-1993.
(16) Su questo costume, cfr. due interventi forti di S. E. mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como: l’intervista Maggiolini: sono stufo, sembriamo delle serve al lavatoio, a cura di Orazio Petrosillo, in Il Messaggero, 28-11-1984; e l’articolo I vescovi non consigliano partiti, in L’Informazione, 17-12-1994. Dall’intervista trascrivo tre passaggi: 1. «Sono stufo e sono umiliato per tutti questi interventi di vescovi e di preti in politica. Ho l’impressione che la Chiesa non solo sia una banda di paese in cui i vari strumenti suonino fiori tempo e per proprio conto ma addirittura con uno spartito diverso»; 2. «I laici facciano il loro mestiere in un momento come questo quando non si capisce niente e noi preti cominciamo a dire che bisogna stare in grazia di Dio e ad insegnare il catechismo. Smettiamola di star loro addosso e di trasmettere segnali a destra e a sinistra: c’è padre Sorge che stasera ha parlato al Tg, c’è a Milano l’introduttore del Vangelo dell’Unità, c’è il neocardinale italiano che dice male della finanziaria. Che siamo diventati? Dei columnist? O non stiamo diventando delle serve che vanno al lavatoio e che davanti a qualsiasi cosa abbiamo la nostra da dire?»; 3. «Noi dobbiamo prendere in mano il Credo e i dieci comandamenti, dopo di che i laici avranno anche il coraggio di riprendere in mano la politica e di riprenderla in mano seriamente. Da parte di noi vescovi, preti e soprattutto religiosi, come si fa ad intervenire in questo modo, frastornando la gente? Il nostro ruolo è di formazione delle coscienze: il che non è un fatto da dare per scontato».
(17) Cfr. PIO XII, Discorso La elevatezza dopo l’imposizione della Berretta ai nuovi Cardinali, del 20-2- 1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VII, p. 389.