Alfredo Mantovano, Cristianità n. 101-104 (1983)
Fra i comportamenti umani che ledono gravemente l’onore del Creatore la costituzione pastorale Gaudium et spes (n. 27) elenca, dopo aborto ed eutanasia, il suicidio volontario. Che sul mondo si stia abbattendo anche questo flagello si rileva sia da tragici dati statistici (cfr., per esempio, Il Giornale, 19-11-1983) che da una autentica promozione della sua pratica. Da un libro uscito in Francia, e che insegna a togliersi la vita, lo spunto per una analisi tra cronaca e storia di assurde teorizzazioni e di tragici episodi, che rivelano un nesso inscindibile tra suicidio e socialismo. Di fronte al fallimento della utopia sovversiva, rivoluzionari e «rivoluzionati» si tolgono la vita, non riuscendo a sopportare i limiti della propria condizione creaturale. Sacrificio, sofferenza e sopportazione della propria finitudine unici rimedi alla drammatica tentazione dell’autoannientamento.
Ultimo passaggio di una «logica di morte»
Il suicidio come esito coerente del parossismo rivoluzionario
Titolo: Suicidio, istruzioni per l’uso (1); autori: due giornalisti francesi vicini al quotidiano di estrema sinistra Liberation. Si tratta di un libro di poco meno di trecento pagine, uscito in Francia da circa un anno e che nel settembre del 1982, a neppure sei mesi dalla pubblicazione, era già giunto alla terza edizione e a 50 mila copie vendute.
«Istruzioni per l’uso, a quale scopo?», si chiedono i coautori dell’opera; e rispondono: «Poiché darsi la morte senza sofferenze inutili è un diritto e poiché un diritto è inesistente se non si hanno i mezzi per esercitarlo, era necessaria una guida che facesse il punto sulle “ricette” attualmente conosciute» (2).
1. Il «diritto» al suicidio. Modalità di esercizio
Che il suicidio sia un diritto è dichiarato ripetutamente nel testo in questione: «Siamo chiari una volta per tutte: rivendichiamo tutti i diritti; suicidarsi, cambiare idea, fallire, fare uso di contraccettivi, abortire, ecc.» (3). E si tratta di un diritto in piena regola: «Si dice che l’aborto (il suicidio?) sanziona sempre un insuccesso, ma ciò importa poco; abbiamo anche il diritto all’insuccesso» (4); un diritto ben fondato secondo Guillon e Le Bonniec, per i quali «la lotta del popolo per i suoi diritti è una realtà, la realtà. In essa la rivendicazione del diritto al suicidio ritrova le sue origini popolari e libertarie, nascoste dalla storiografia ufficiale» (5).
E ancora: «vogliamo tutto: l’aborto senza rischi né fastidi, il piacere senza punizione, e la morte la vogliamo sicura e dolce. La libertà non ha prezzo, e non intendiamo pagare quello della sofferenza. Dell’affermazione del diritto a una morte volontaria facciamo un’arma contro i ladri della vita» (6).
Poste tali premesse, il pezzo forte del libro è il decimo capitolo, intitolato «Elementi per una guida al suicidio», nel quale vengono anzitutto indicate le principali pubblicazioni – stampate in Gran Bretagna, in Francia e in Olanda – contenenti liste di farmaci idonei a togliersi la vita; da tali liste, però, gli autori di Suicide, mode d’emploi, con ammirevole delicatezza, cancellano, insieme ai prodotti non disponibili in Francia, quelli i cui effetti sono imprevedibili o suscettibili di provocare dolori o altri disturbi prima di raggiungere l’effetto letale. Seguono alcune raccomandazioni «utili» per riuscire al meglio nel tentativo di suicidarsi: si consiglia, per esempio, di accingersi al gesto non a casa propria, ma in una camera d’albergo, dopo avere pagato in anticipo l’equivalente di almeno due giorni di permanenza, e dopo avere fatto presente al portiere che non si vuole essere disturbati. Questo per evitare irruzioni in camera prima che la sostanza scelta per lasciare questa terra abbia avuto effetto: infatti, non si trascura di ricordare che, «più la scoperta è tardiva, minori sono i rischi di rianimazione» (7).
Ma la parte più «interessante» del decimo capitolo è data dalla elencazione dei medicinali che consentono una «morte dolce»: con una freddezza che qualche detrattore potrebbe definire cinica, come se si trattasse di un normale prontuario, sono indicate decine e decine di farmaci, divisi in gruppi – barbiturici, sonniferi, analgesici, tranquillanti, e così via -, e per ogni prodotto sono precisate la «dose minima» indispensabile per la riuscita del suicidio e, accanto a essa, la «dose suggerita» per avere la massima tranquillità circa il buon esito dell’atto. Né manca, per ognuno dei farmaci elencati, la descrizione analitica del momento in cui, dopo la «consumazione», si perde conoscenza, dei «rischi» di rianimazione e dei tempi necessari per raggiungere l’effetto letale.
Il capitolo è completato dalla indicazione di altri medicinali, di per sé inidonei a darsi la morte, tuttavia utilizzabili per rendere sopportabile – attraverso l’addormentamento o la perdita di conoscenza – un metodo violento scelto per suicidarsi, e dà alcuni suggerimenti sul modo migliore per falsificare la «ricette» dei farmaci da acquistare e sulle precauzioni da prendere per evitare una indesiderata rianimazione tempestiva da parte di terzi. Infine, per tranquillizzare in tutto l’aspirante suicida, sono offerti anche consigli sul modo di redigere, prima della morte, un testamento ordinario che sia valido e non impugnabile da parte di eventuali pretermessi per «demenza» del testatore.
Come era prevedibile, subito dopo la pubblicazione, il volume ha scatenato polemiche e contrasti, che si sono accentuati quando più di una persona è stata trovata priva di vita con il libro in questione nelle vicinanze (8). Medici, farmacisti, librai e consumatori ne hanno chiesto al governo il sequestro, ma, come informa l’organo del partito comunista francese, «il ministro della Giustizia, ritenendo il suicidio un affare di carattere personale, non ha giudicato opportuno proibire la diffusione dell’opera» (9).
Il successo commerciale del libro può meravigliare per le sue dimensioni, ma, proprio per questo, rivela un fenomeno che è più diffuso di quanto non si creda: in altri termini, insegnare «come» togliersi la vita può trovare molti discepoli solo se vi è già chi è intenzionato a farlo; e il fatto che il libro stia andando a ruba dimostra quanto sia ampia tale disponibilità.
D’altra parte, ciò che trattiene l’aspirante suicida dal gesto fatale è spesso il timore della sofferenza collegata a quell’atto estremo: impiccarsi o tagliarsi la gola provoca istintiva ripugnanza. Come ricorda uno scrittore che è anche un suicida mancato, «il Kirilov di Dostoievskij disse che esistono solo due ragioni per cui non ci uccidiamo tutti: il dolore e il timore dell’aldilà. Sembra che, più o meno, ci siamo liberati di entrambe le ragioni. Nel suicidio, come nella maggior parte delle altre attività, c’è stata una rivoluzione tecnologica che ha messo democraticamente alla portata di tutti una morte poco costosa e relativamente indolore» (10). Se, perciò, viene offerto qualcosa che garantisca l’autoeliminazione senza soffrire, non può che risultare ben accetto a chi più di una volta ha pensato di «farla finita».
2. I precedenti
Né il contenuto di Suicide, mode d’emploi appare come una novità assoluta: già nel 1975 lo stesso Guillon aveva proposto la creazione di un Comitato per la morte dolce, e aveva fatto appello a medici, a infermieri e a esperti in materia perché ponessero «la loro scienza al servizio del suicidio» (11), indicando i farmaci più efficaci per darsi la morte senza dolore; nel 1979, sempre in Francia, veniva costituita la Associazione per il Diritto a Morire con Dignità, l’ADMD , che pubblicò una Guida all’Autoeliminazione, la quale però ebbe diffusione prevalentemente fra i membri della organizzazione stessa; in entrambi i casi, ci si propose di praticare, per il conseguimento dei propri scopi, un metodo simile a quello già adoperato nella campagna a favore dell’aborto: Michel Lee Landa, presidente dell’ADMD , annunciava, nel corso di un’assemblea dell’associazione, la compilazione di una «rosa di medici simpatizzanti paragonabile a quella che si è potuta avere per l’aborto» (12), che possano indicare farmaci idonei.
Con finalità e metodi analoghi ha iniziato a farsi strada in Gran Bretagna, verso la fine degli anni Settanta, Exit. Le sue modalità operative sono descritte in questi termini: «una persona gravemente minorata o con un cancro molto avanzato telefona a Exit e chiede un’assistenza tecnica. Gli viene detto che qualcuno prenderà contatto con lui più tardi. Mark Lyons [uno dei dirigenti di Exit] si presenta al domicilio; il suicidio è constatato nelle ore che seguono la sua visita» (13). Anche Exit pubblica una «guida» sul modello dell’ADMD: la edizione londinese di essa contiene una prefazione dello scrittore Arthur Koestler, suicidatosi nel marzo del 1983. Centri di informazione «per la eutanasia volontaria» sono sorti anche nei Paesi Bassi a partire dal 1973, e dal 1980 negli Stati Uniti.
Ma quello che più fa riflettere è il tipo di terreno su cui cadono i consigli di questi «benefattori della umanità»: «farla finita», come si dice, con la propria esistenza non fa più notizia, e quella che una volta era una rara eventualità, oggi è diventata una realtà banale. Ci si suicida a tutte le età non lo fanno solo gli anziani abbandonati o i disperati senza lavoro, ma anche i ragazzini, i giovani nel pieno delle forze e i professionisti affermati; non è più il gesto decadente e isolato del «poeta maledetto» o dello scrittore nichilista, ma è il drammatico quotidiano di gente comune, di ogni ceto e condizione.
Ogni giorno le pagine dei quotidiani informano – in misura più o meno ampia, a seconda della quantità e della qualità dei defunti – a proposito di suicidi oppure di omicidi plurimi seguiti dal suicidio dell’omicida. Si tratta di una realtà che, nella dimensione che ha assunto, è esplosa in questi ultimi anni: i «fumi» del progresso avranno anche cancellato malattie come la peste o il vaiolo, ma al loro posto hanno regalato, accanto alla televisione e al computer, tra l’altro, la bomba atomica e la banalizzazione del suicidio.
Ci si toglie la vita con la stessa indifferenza con cui ci si inietta la «dose» o con la quale la donna «sessualmente evoluta» cambia partner o si reca in ambulatorio per «interrompere la gravidanza»: uno scrittore con ben poche simpatie verso la religione ha, suo malgrado, constatato come «la condanna della Chiesa nei confronti del suicidio […] si fondava per lo meno sulla preoccupazione per l’anima del suicida. Per converso, gran parte della moderna tolleranza scientifica sembra basarsi sull’indifferenza umana» (14).
La questione è talmente banalizzata da essere propagandata, al pari dei pannolini per neonati, dai microfoni radiotelevisivi pubblici e privati e dagli stereo dei mangianastri: nell’estate del 1982, tra le altre, imperversava tra i teen-agers – e non solo fra loro – una canzonetta il cui motivo ricorrente suonava «dammi una lametta che mi taglio le vene» (15).
Eppure casi di suicidio e sue giustificazioni non sono mai mancate in passato; il ricorso a esso non era raro, pure assumendo caratteri particolari: lo praticavano – per esempio, presso i goti o presso i traci – uomini molto avanzati in età o colpiti da gravi malattie; fra gli indù le spose dopo la morte dei mariti; fra i galli, a dimostrazione dello scarso peso che aveva presso tali popoli la considerazione della personalità del singolo, i servitori alla morte dei capi (16). Nel mondo romano gli stoici e gli epicurei lo consigliavano quando si contraeva un male incurabile; nel secolo XVIII alcuni illuministi lo ritenevano affermazione di libertà e di autonomia spirituale contro le ingiustizie sociali; i romantici dell’Ottocento vi leggevano una risposta in termini estetici a una esistenza terrena priva di significato. Studi statistici e sociologici hanno constatato, poi, un incremento delle morti volontarie in periodi di decomposizione sociale, come durante la decadenza di Atene, di Roma e dell’Impero Ottomano (17): mai, però, il fenomeno aveva avuto la estensione che si registra oggi.
Come si è giunti a tanto?
3. La Chiesa di fronte al suicidio
Se il suicidio è sempre stato condannato dalle migliori espressioni di umana saggezza; se Platone lo ritiene in opposizione al dominio assoluto di Dio (18); se Aristotele lo giudica contrario anche al bene sociale e alla tendenza, insita nell’uomo, alla conservazione dell’essere (19); con il cristianesimo la opposizione alla morte volontaria trova i fondamenti più solidi e più completi. San Tommaso insegna che, con il suo gesto, il suicida compie anzitutto un attentato contro Dio, autore della vita, il quale ha reso l’uomo non proprietario ma solo usufruttuario e depositario della propria esistenza: «il passaggio da questa vita a un’altra più felice – scrive il Dottore Comune – non soggiace al libero arbitrio dell’uomo, ma alla potestà divina» (20).
Il suicidio è, poi, un delitto contro sè stessi – «che uno uccida sé stesso è contro la inclinazione naturale e contro l’amore con cui ciascuno deve amare sé stesso» (21) – e contro la società: «ognuno fa parte di una comunità e appartiene a essa. Colui quindi che si uccide reca ingiuria alla società tutta» (22).
Dai contemporanei sostenitori dell’autoeliminazione viene diffusa la tesi secondo la quale il cristianesimo, nei primi secoli, avrebbe fornito «un forte incitamento al suicidio» (23), e ciò attraverso «l’esaltazione del martirio; che vale come biglietto d’ingresso al regno dei cieli. S. Pietro, il fondatore della setta [sic], non ha deliberatamente cercato la morte […]?» (24).
È facile confutare questa opinione non rara, e che peraltro proviene da chi, basandosi su estrapolazioni dalla sacra Scrittura, pretende di dare lezioni di esegesi biblica avendo, spesso, ben poca familiarità con la Parola di Dio: nei testi sacri non esiste, infatti, alcun passo che convalidi la tesi in questione. Quanto al martirio, la differenza rispetto al suicidio è ben chiara: mentre con quest’ultimo ci si dà la morte per odio alla vita e per «farla finita», senza alcuna prospettiva ulteriore, il martire affronta il boia – che, peraltro, non coincide mai con la vittima, ma è un’altra persona -, posto nella condizione di dovere scegliere senza scampo tra la morte del corpo e l’abiura della fede; ma, poiché l’abiura condurrebbe alla morte dell’anima, egli preferisce accettare la prima, quella del corpo, che costituisce un danno infinitamente meno grave, e perciò, posti sulla bilancia i due beni, la salute temporale e la salute eterna, sceglie coraggiosamente il secondo, che è l’unico a rivelarsi imperituro e inestimabile. Quindi, al contrario del suicida che con il suo gesto rinnega la realtà che gli ripugna, il martire cristiano valuta invece positivamente il creato, in quanto opera di Dio, anche se poi vi rinuncia per un bene di ordine superiore (25).
Giova poi ricordare che negli scritti dei Padri della Chiesa, se da un lato si esorta a non rinnegare la fede neppure di fronte a minacce di morte, dall’altro si proibisce ai cristiani di denunciarsi volontariamente alle autorità allo scopo di essere martirizzati: il concetto si trova, tra l’altro, nel Martirio di San Policarpo e negli Atti proconsolari di san Cipriano (26), e si arriva ad affermare che «Dio toglierà prima la forza di resistere, a coloro che baldanzosamente sollecitarono la testimonianza del sangue, fidando nella propria determinazione» (27).
4. Contro la Chiesa: «la morte volontaria è la più bella!»
In coerenza con tali principi, all’apice di «quella società cristiana del Medio Evo» – che «seppe esprimere la propria visione del mondo nella unità della fede in cui erano assunti, pur rimanendo distinti, i valori, le esigenze e le. credenze relativi al visibile e all’invisibile, al temporale e all’eterno, alla vita del corpo e a quella dello spirito» (28) -, la coscienza sociale è ben salda – con la eccezione, che proprio per questo conferma la regola, rappresentata da alcune sette ereticali – nella riprovazione del suicidio. Di ciò costituisce espressione fedele la collocazione che Dante riserva agli ingiusti contro sé stessi – come sono chiamati coloro che si sono dati volontariamente la morte -, posti nel secondo girone del settimo cerchio dell’inferno, e trasformati, per la legge del contrappasso, in alberi contorti sui quali nidificano le Arpie: il poeta descrive la loro condizione in un’atmosfera che appare disumana e anormale, come anormale è il gesto di chi ha troncato la propria vita (29).
Con l’apparire e, poi, con il graduale e tragico avanzare della Rivoluzione nella storia, anche la considerazione del suicidio muta: «La morte volontaria è la più bella», scrive Michel de Montaigne, esponente tra i più illustri del Rinascimento trionfante nel secolo XVI; e prosegue: «la vita dipende dalla volontà altrui, la morte dalla nostra» (30). L’atteggiamento rinascimentale verso il suicidio rompe con la chiara visione medioevale ed è il riflesso diretto dell’individualismo sempre più marcato che, allontanando l’uomo da Dio per avvicinarlo a una prospettiva «laica» e pragmatica, introduce il dubbio in relazione ai problemi fondamentali della vita e della morte: non è un caso, d’altronde, che in otto drammi shakespeariani si incontrino quattordici suicidi, senza che l’autore inglese accompagni il racconto di essi con alcuna riprovazione morale (31).
La Rivoluzione francese va oltre, cancellando il suicidio dalla lista dei delitti legali: né il codice penale del 1791, né quello del 3 brumaio dell’anno VI, né tanto meno il Codice Napoleonico vi fanno più cenno alcuno (32); in tale modo sono aboliti tutti i precedenti e plurisecolari provvedimenti repressivi (33). Con il Romanticismo si giunge a esaltare la morte volontaria come espressione di genialità e di sensibilità: se la vita era vissuta dai romantici come un’opera di fantasia, era logico che il suicidio divenisse «un gesto letterario, un gesto isterico di solidarietà con qualsiasi eroe di fantasia che in quel momento fosse di moda» (34). Così, per esempio, il giovane Werther e la tragica fine a lui riservata da Goethe provocano, nel decennio 1830-1840, una vera e propria moda, e molti giovani si tolgono la vita per imitare lo sventurato eroe.
Ma è nel socialismo, esito coerente della progressiva materializzazione dell’uomo e della parallela spersonalizzazione di Dio, fino a dichiararlo morto, che il suicidio trova il suo fondamento logico e necessario.
5. Guyana: spunti di riflessione
Quella sera, e via via che le notizie si facevano più precise nei giorni immediatamente seguenti, milioni di americani stentavano a credere a quanto ascoltavano e alle immagini che le varie reti televisive trasmettevano in continuazione, spesso interrompendo i programmi consueti; soprattutto si domandavano il perchè di un episodio così strano e in apparenza incomprensibile. Era domenica 19 novembre 1978 e, a partire da quella sera, gli schermi a più pollici cominciarono a mandare in onda in tutta l’Unione immagini macabre: centinaia di cadaveri, ammonticchiati l’uno sull’altro in uno scenario tropicale, accanto ad alberi di alto fusto, capanne di legno, fitta boscaglia …
Non si trattava di immagini di guerra, i morti non erano vittime di un’altrui aggressione, ma, per la maggior parte, si erano tolti la vita volontariamente; i fotogrammi mostravano un calderone, per metà ancora pieno, contenente Kool-Aid e cianuro: l’altra metà era stata ingerita dai defunti in questione. Quasi tutti americani, provenivano dalla California, ma avevano scelto per uccidersi la foresta della Guyana socialistica, già colonia britannica, nella quale si erano trasferiti da più di un anno.
Le prime notizie diffuse dalla NBC e, subito dopo, dalle altre stazioni televisive parlavano di quattrocento cadaveri rinvenuti; ma il conteggio era destinato a salire di ora in ora, per fermarsi alla cifra di novecentododici persone.
Chi sono? Perché lo hanno fatto? Che cosa li ha spinti a tanto? Da tutto il mondo centinaia di reporter volano a Georgetown, capitale della Guyana, per raccogliere informazioni e immagini e per tentare di capire; le telescriventi delle redazioni battono i primi dati: i suicidi appartengono a una setta sorta in California da una ventina di anni, il Tempio del Popolo; il loro capo, un ex «pastore» metodista, viene rinvenuto tra i cadaveri: al cianuro ha preferito un colpo di pistola in fronte; si chiama Jim Jones.
I giornali abbozzano una prima spiegazione: a titoli di scatola parlano di «fanatismo religioso», ma la ipotesi regge per poco tempo. Ex aderenti alla setta suicida testimoniano che, durante le riunioni periodiche del loro gruppo, Jones era solito gettare il libro della Bibbia per terra e sputarvi sopra bestemmiando (35): atteggiamento che ha ben poco di religioso! Uno psicologo, la cui figlia era al seguito del Tempio in Guyana, andò a trovarla, circa un anno prima del suicidio, preoccupato delle stranezze che si raccontavano sul conto della setta, e sperando di poterla riportare a casa: «quando le parlai della mia fede in Dio – riferì poi, dopo essere tornato solo negli Stati Uniti – e della mia convinzione che in qualche modo le cose avrebbero finito per aggiustarsi, lei e un’altra donna appartenente al Tempio si affrettarono a farmi notare che loro non credevano in Dio» (36).
Infine, Leo Ryan, membro del Congresso americano, recatosi in Guyana per indagare sulla realtà della setta, dopo avere dato uno sguardo in giro aveva osservato: «non ho mai sentito uno del Tempio menzionare Dio. […] Ma se questa non è un’organizzazione religiosa, allora perché sono esenti dalle tasse?» (37).
Ma se il Tempio del Popolo non era una organizzazione religiosa, di che altro si trattava?
a. Il Tempio del Popolo
«Voi non sapete quale futuro vi attenda. Questa è una pietra angolare, questa è la pietra angolare! Voi ed io qui questa notte. Parleranno di noi per anni e anni in futuro. Queste sono giornate storiche. Questo è l’inizio del vero socialismo, della vera eguaglianza! Non ne siete felici?» (38). Con queste parole il «reverendo» Jones, chiamato «Padre» dai suoi adepti, concludeva nel 1967 un suo discorso nella sede del Tempio, in Redwood Valley, circa duecento chilometri a nord di San Francisco. Qui la setta si era stabilita da un paio di anni, proveniente da Indianapolis, dove era stata fondata una decina di anni prima, nel 1956.
Contando tra i suoi membri gente di colore, il Tempio si presentava come una organizzazione caritativa, aperta al prossimo, e soprattutto favorevole alla uguaglianza razziale; ma vi era in essa qualcosa di più, che non mancava di attirare la simpatia di esponenti di rilievo della sinistra americana: come Angela Davis, per esempio, leader della contestazione negra degli anni ’60, che ascoltava frequentemente gli interminabili sermoni di Jim Jones (39).
Al fascino del «Padre» non era indifferente neppure il mondo liberal statunitense: Jones ricevette per la sua opera le lodi di Walter Mondale, vice di Carter alla presidenza degli Stati Uniti, di Hubert Humphrey e di Henry Jackson, del Partito Democratico e, durante la campagna per le elezioni presidenziali del 1976, fu spesso in contatto con Rosalynn Carter, la quale poi, forse per compensare l’appoggio fornito da Jones al marito Jimmy, stilò per lui una «lettera di raccomandazione» diretta al governo della Guyana, perché consentisse senza fastidi l’accesso della setta nel paese sudamericano (40).
Già durante la permanenza in California il Tempio presentava al suo interno caratteri di socialismo puro: i beni degli affiliati – case, proprietà, redditi – erano trasferiti alla comunità, cioè a Jones, il quale, in cambio, passava a ciascuno vitto e alloggio e una somma settimanale di due dollari (41); i legami familiari erano sotto il controllo diretto del «Padre», il quale, spesso, ordinava la fine di alcuni matrimoni e l’inizio di nuovi (42), ma, in generale, le famiglie erano sfaldate poiché si incoraggiava la delazione dei bambini sul conto dei genitori poco fedeli alle direttive della setta e del coniuge verso l’altro coniuge (43), e si spingevano i genitori a trasferirsi in alloggi comuni e ad affidare i figli ai servizi del Tempio (44).
In tale modo Jones diventava l’unica figura di rilievo all’interno della setta; a ciò contribuiva anche il dominio sessuale che egli aveva su tutti gli adepti, sia uomini che donne, che venivano invitati ad avere rapporti carnali con lui, secondo i suoi desideri (45).
Come in ogni «comune» che si rispetti, non mancavano lunghissime riunioni, che si protraevano fino all’alba, di indottrinamento e di fanatizzazione (46), oltre che di confessione pubblica delle colpe per svilire ulteriormente ogni residuo di individualità; né era assente un articolato sistema punitivo per le infrazioni alle regole del Tempio, che comprendeva, tra l’altro, elettrochoc e violente percosse date pubblicamente: al termine, il punito doveva invariabilmente ringraziare Jones per la pena subita (47).
«Sono un socialista che crede nella democrazia totale»: così si definiva il «Padre» nell’ultima intervista da lui rilasciata (48); e il Tempio del Popolo rifletteva in pieno i suoi principi, racchiudendo in sé i caratteri classici del socialismo: abolizione della proprietà individuale e comunanza dei beni; eliminazione della struttura familiare e comunanza dei figli; perversione sessuale; «rieducazione» e – la sua assenza sarebbe parsa strana – divieto di fare domande: a un giovane adepto che chiede il motivo di un certo comportamento, uno dei più stretti collaboratori di Jones risponde che nel Tempio «non si chiede perché» (49).
E invece molti americani, soprattutto parenti e amici dei membri del Tempio, cominciarono, a mano a mano che trapelavano scarne notizie su quanto accadeva al suo interno, a porsi fondati interrogativi sull’attività della setta: i mass media se ne occupavano con interesse crescente e alcuni giornali tentarono di fare indagini; il che rese non più procrastinabile la messa in opera di un progetto che Jones aveva in mente da tempo: quello di trasferirsi, armi e bagagli, in un luogo lontano e isolato.
b. Un «esperimento bellissimo»
Uno dei tratti maggiormente ricorrenti nelle opere dei filosofi o degli scrittori che hanno teorizzato sistemi socialistici, è la necessità dell’isolamento, che viene considerata addirittura una condizione per la esistenza di una comunità socialistica. Se ne parla nella maggior parte delle utopie: per esempio, Tommaso Moro nella Utopia, Tommaso Campanella nella Città del Sole, Denis Vayrasse nella Storia dei Sevarambi, e molti altri, collocano i loro Stati ideali in terre lontane e inaccessibili, e generalmente si tratta di isole (50). Se tale necessità viene avvertita a livello teorico, lo è ancora di più per chi tenti di tradurre in pratica gli schemi socialistici: già nell’antica Cina, l’imperatore Ts’in Chi Huang, promotore di una organizzazione dell’impero secondo rigidi criteri collettivistici (51), aveva disposto la costruzione della grandiosa muraglia cinese, allo scopo di isolare la regione da qualunque notizia proveniente dall’esterno; sulla base della stessa logica, i responsabili della Congiura degli Eguali si proponevano, in caso di successo della loro rivolta, di circondare la Francia con una barriera insuperabile (52), e l’identico motivo giustifica la ferrea censura sulle informazioni che vige attualmente in ogni Stato socialistico, per tacere del significato del muro di Berlino.
Come mai tale necessità? E presto detto: per chi, come il socialismo, ha dichiarato la morte di Dio elevandosi al suo posto, è indispensabile mostrarsi privo di limiti e di difetti, pena la perdita di credibilità e il fallimento (53): il connotato di Dio è, infatti, la perfezione; ma i limiti saranno tanto più accentuati e più facilmente riconoscibili quanto più ampia sarà la possibilità di fare il confronto con modi differenti di vita associata, fondata su principi diversi da quelli socialistici.
Per questo, si deve a ogni costo evitare il confronto, impedendone la stessa eventualità; e ciò fino a quando il socialismo non pervenga al dominio sull’intero pianeta: a quel punto non si correranno più pericoli, essendo precluso ogni rischio di fuga e di confronto.
Ora, per i membri del Tempio il rischio esisteva: le defezioni si moltiplicavano, le punizioni dei riottosi si intensificavano, i parenti di più di un adepto premevano per fare luce sull’attività della setta in modo sempre più insistente, i mass media cominciavano a muoversi. Il trasferimento dalla California avvenne nel corso del 1977: il luogo prescelto era completamente isolato nella foresta, a 250 chilometri da Georgetown, capitale della Guyana, e da essa raggiungibile attraverso un viaggio o di un’ora in aereo o di ventitrè ore in battello, risalendo il fiume Kaituma.
All’interno della giungla, senza osservatori sgraditi, con il governo locale ospitale e ben disposto – grazie anche a consistenti elargizioni di danaro e alle «lettere di raccomandazione» presentate da Jones -, i caratteri di «comune» socialistica che già distinguevano il Tempio del Popolo furono ancora più accentuati; la giornata del comunardo prevedeva lavoro obbligatorio per undici ore quotidiane, razioni alimentari ridotte, passaporto confiscato e divieto di uscire dalla «comune», attività sessuale determinata da un apposito Comitato per le Relazioni, punizioni ancora più brutali, indottrinamento notturno fino alle tre del mattino, allarmi durante il sonno per provare la difesa contro fantomatici nemici esterni (54) e … frequenti prove di suicidio.
Si ripeteva una volta alla settimana, ed era chiamata «la Notte Bianca»: Jones riuniva i membri della «comune» e, dopo averli informati che i «nemici» stavano per attaccarli e che non si era in grado di difendersi, prospettava come «unica via d’uscita» il «suicidio di massa per la gloria del socialismo» (55). Allora, ci si disponeva in fila e ciascuno riceveva un bicchierino di liquido rosso che doveva bere e che, secondo quanto comunicava il «Padre», avrebbe condotto alla morte nel giro di tre quarti d’ora: trascorso tale periodo di tempo senza che si verificasse alcun decesso, Jones informava tutti che la bevanda in realtà era innocua e che ciascuno aveva superato con successo la prova di lealtà; però aggiungeva invariabilmente: «non è molto lontano il tempo in cui dovremo morire» (56). Jones non abbandonava mai il pensiero del suicidio: «la sua predicazione ormai era solo sulla bellezza di dare o ricevere la morte», testimoniava il figlio Steve, pochi giorni dopo il suicidio collettivo (57).
L’isolamento evidentemente non bastava: l’uomo autodivinizzatosi, sorto dalle ceneri del vero Dio dichiarato morto, non riusciva ad essere all’altezza delle proprie pretese; i limiti si rivelavano troppi: se avessero potuto, molti membri del Tempio avrebbero con sollievo abbandonato la «comune», dal momento che l’«esperimento bellissimo» (58) si era dimostrato un fallimento. E la coscienza di tale esito doveva essersi formata già da tempo nel «Padre», se è vero che la prima esercitazione al suicidio si era avuta nel 1973 (59), ben quattro anni prima del trasferimento in Guyana, quando la setta non era ancora oggetto di indagini e di sospetti.
c. Morire per il socialismo
La occasione per la «soluzione finale» fu fornita dalla visita che volle fare al Tempio, nonostante la ferma opposizione di Jones, una commissione di inchiesta guidata dal deputato del Congresso statunitense Leo Ryan. Molti particolari insospettirono i componenti della commissione, e più di un membro della setta chiese loro di essere portato via: il velo era squarciato, il fallimento era constatato pubblicamente. Il resto è noto: parte dei «visitatori», incluso Ryan, furono uccisi dai fedelissimi del «Padre», altri riuscirono a fuggire nella boscaglia; quindi iniziò, per l’ultima volta, il rito della «notte bianca», mentre Jones incitava a bere il cianuro con frasi del tipo: «morire in un suicidio rivoluzionario vuol dire vivere per sempre!» (60).
Sul suo corpo fu poi trovata la lettera di un seguace che evidentemente aveva da tempo accettato l’idea del suicidio collettivo: «Papà – vi si legge -, non vedo nessuna via d’uscita – sono d’accordo con la tua decisione – ho paura soltanto che senza di te il mondo non ce la faccia ad arrivare al comunismo …» (61).
Altri elementi confermano in modo inequivoco le idee di Jones: fu rinvenuto un documento nel quale si progettava un nuovo trasferimento del Tempio a Cuba o in URSS – quest’ultima era definita la «terra promessa» – e a tale fine erano già stati presi proficui contatti con funzionari dei governi dei due Stati e si erano cominciati corsi di lingua russa per i bambini presenti nella «comune» (62); il testamento del «Padre» devolveva poi oltre sette milioni di dollari (63) al partito comunista dell’Unione Sovietica «affinché aiuti le persone oppresse di tutto il mondo» (64), e dieci milioni di dollari al partito comunista americano (65).
Viene da chiedersi: ci si trova di fronte a un episodio isolato, e perciò inidoneo a fare testo, oppure quanto descritto costituisce l’esito coerente e necessario dell’applicazione di certi princìpi? In altri termini: la connessione tra socialismo e suicidio è solo occasionale o si presenta come costante e ineliminabile?
6. Socialismo e suicidio
«Se ci fosse un abisso ove tutto s’annientasse,/
Mi ci precipiterei/
A rischio di distruggere il mondo/
Che si interpone tra di noi. Questo mondo,/
Si spezzerebbe/
Sotto le mie maledizioni;/
Stringerei nelle mie braccia la dura realtà,/
Che perirebbe soffocata dalla mia stretta./
Affondare nel nulla e annientarsi del tutto,/
Questa sarebbe vera vita!».
Con questi versi, di fattura tutt’altro che pregevole, ma ricchi di significato, si conclude Oulanem, poema tragico il cui artefice normalmente viene ricordato per motivi diversi dall’avere composto esametri ed endecasillabi: l’autore in questione è Karl Marx, padre del socialismo scientifico e nume tutelare dei vari Stati comunisti presenti nel mondo (66).
Le strofe riportate fanno riflettere sullo spirito che animava l’uomo di Treviri, ma non brillano per originalità: egli, infatti, non è stato il primo socialista – e non sarà l’ultimo – ad avere esaltato l’annientamento totale come affermazione di vera vita. Igor Safarevic, dopo un’analisi articolata e approfondita, giunge a interpretare tale ideologia come «una manifestazione dell’istinto d’autodistruzione dell’uomo», il che «aiuta a capire la sua ostilità verso l’individualità, e la sua volontà di distruggere le forze che sostengono e rafforzano quest’individualità: la religione, la cultura, la famiglia, la proprietà individuale» (67).
L’istinto di autoannientamento, infatti, è stato sempre una costante sia delle esperienze che delle teorizzazioni socialistiche, in ogni epoca in cui esse hanno avuto modo di esprimersi. Quanto alle esperienze, è significativa, tra le altre, quella dei Catari, il cui movimento si diffuse in Europa nel secolo XI: riprendendo temi già propri alle eresie gnostiche e manichee – in particolare il contrasto radicale tra il dio del Bene e il dio del Male, creatore, quest’ultimo, della realtà materiale -, i catari rifiutavano la proprietà privata, il matrimonio e la famiglia; per essi l’ideale e lo scopo finale della umanità doveva essere il suicidio generale e, per indicare la strada, molti di loro si toglievano la vita, spesso in coincidenza con l’amministrazione del consolamentum, una sorta di sacramento in virtù del quale entravano a fare parte del numero dei perfetti all’interno della setta; tale suicidio era chiamato endura (68).
È interessante notare come a conclusioni identiche pervengano anche i teorici del socialismo: si pensi a Jean Meslier, vissuto nella Champagne a cavallo tra i secoli XVII e XVIII, il quale nel suo Testamento – opera pubblicata postuma e in seguito molto apprezzata da Voltaire e dai giacobini – espresse le tesi socialistiche consuete, a cominciare dal rifiuto della proprietà privata, facendole derivare dall’odio profondo che egli – che pure fece il prete di campagna per tutta la vita – aveva verso la religione. Dopo avere delineato il suo sistema e averne individuato i fondamenti, così Meslier concluse la sua opera: «con questo nulla finisco. Già adesso non sono più nulla e presto sarò nulla del tutto» (69); e non era un modo di dire: si suicidò all’età di 55 anni.
Non diverso è l’atteggiamento nei confronti della vita nutrito da Engels: «Ormai – scrive il coautore del Manifesto – non si può più considerare scientifica una fisiologia […] che non comprenda che la negazione della vita è contenuta come principio nella vita stessa, cosicché la vita è sempre concepita in rapporto al suo esito ineluttabile e presenta, fin dal suo embrione, la morte. La concezione dialettica della vita porta proprio a questo» (70); e, più avanti, e più sinteticamente, afferma: «tutto ciò che nasce è destinato a morire» (71).
Questo atteggiamento di fronte alla esistenza, sommato al nichilismo presente in numerosi ambienti culturali della Russia del secolo scorso, determinarono un modo di pensare diffuso nel movimento rivoluzionario russo, il cui ideale si esprimeva «nell’aspirare alla morte» (72) sì che il criterio di classificazione delle varie correnti della intelligencija non dipendeva dai loro programmi: «“più di sinistra” è colui che è più vicino alla morte, quello il cui lavoro è “più pericoloso” non per l’ordinamento sociale contro il quale si combatte, ma per la persona stessa che agisce […]. Ma questo non è altro che suicidio» (73).
Qualche decennio dopo, per Marcuse – il cui pensiero ha fuso la ideologia socialistica con le tesi freudiane (74) ispirando i movimenti socialistici di sinistra sorti negli anni Sessanta – l’istinto di morte deriva dalla volontà di liberarsi dalla sofferenza e dalla insoddisfazione provocate anche da fattori sociali: «L’istinto di morte – scrive – opera sotto il principio del Nirvana: esso tende a uno stato di “soddisfazione costante”, dove non esista alcuna tensione – tende a uno stato senza bisogni» (75); e continua: «La morte può diventare un segno di libertà […] Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò, che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio. Dopo una vita compiuta, possono decidersi per la morte – a un momento scelto da loro stessi» (76).
Se tali sono le posizioni teoriche, non vi è da meravigliarsi leggendo quanto segue: «la logica socialista è la libertà e la libertà fondamentale è il suicidio. Il diritto al suicidio, diretto o indiretto, è dunque un valore assoluto in tale tipo di società». Autore di questa dichiarazione è Jacques Attali, consigliere speciale del presidente Francois Mitterrand, che non poteva esprimersi in modo più chiaro (77)!
È esagerato, a questo punto, affermare che suicidio e socialismo corrono sullo stesso binario e che il secondo porta con sé, inevitabilmente, il primo (78)? È arbitrario ritenere che il binomio morte-socialismo sia sostanzialmente inscindibile e che, perciò, la eventuale estensione a tutto il mondo del socialismo condurrebbe alla estinzione totale della umanità (79)?
7. Il suicidio come «scelta matura» del rivoluzionario puro
«Non vi chiedo perdono per quello che ho fatto. È stata una decisione meditata, una scelta precisa. La scelta dell’unica alternativa che mi restava ad una vita fatta ormai solo di angoscia e di dolore»: con queste parole inizia la lettera lasciata ai familiari prima di morire, all’alba dell’8 gennaio 1979, da Marco Riva (80). Ventun anni, militante di Avanguardia Operaia, redattore del Quotidiano dei lavoratori, stimato dai suoi «compagni» che lo ricordano come «l’unico tra noi sempre ben vestito, con la cravatta, profumato, era quello che appariva più sicuro, anche il più duro, addirittura filo-Pci» (81), Marco si toglie la vita respirando i gas di scarico della sua autovettura; non è il primo né sarà l’ultimo suicida tra i giovani dell’ultrasinistra.
Il suo caso apre un dibattito, soprattutto nell’ambiente dove lavorava, ma – anche se potrebbe sembrare strano a prima vista – i suoi «compagni» non si mostrano eccessivamente meravigliati del suo gesto: «Perchè lui l’ha fatto e io no? – si chiede anzi uno di essi – Fino a quando non rifiuterò?» (82). E un altro incalza: «Invece di domandarci perché Marco si è ucciso, dovremmo chiederci perché non ci suicidiamo anche noi …» (83).
Qual è il motivo di tanta «naturalezza» nell’accettazione del fatto? La chiave, forse, si può cercare in alcuni brani della lettera lasciata dal giovane suicida: «mi sono trovato a scontrarmi con una realtà troppo diversa dalla mia e ho deciso di non voler tirare avanti una situazione veramente insostenibile e senza alcuna prospettiva (e credo sia stata proprio quest’ultima verità a farmi decidere). […] Non è stato il rifiuto della vita, ma l’impossibilità di vivere, di vivere la mia vita, la mia realtà, a farmi scegliere la morte» (84).
È un modo di pensare diffuso nell’estrema sinistra: si era creduto di potere cambiare la natura stessa dell’uomo attraverso l’assorbimento nel collettivo e il mito della rivoluzione permanente; manifestazioni, riunioni a ritmo incessante, Dio escluso, dio siamo noi, l’utopia al posto della realtà, il piacere, la lotta, la «comune», un nuovo linguaggio, un nuovo modo di vestire, e poi … poi lo scontro con la realtà – «non si può dire che una cosa è bianca quando è nera, quello che ha spesso fatto la sinistra perché tutti andassero avanti fiduciosi verso un feticcio» (85) – e l’inevitabile fallimento: «ci sono venute a mancare le utopie, non si vede la possibilità di un cambiamento […] la promessa e la purezza rivoluzionaria non stimolano più» (86).
L’io collettivo tradisce le attese; rimane solo la «delusione dell’uomo di fronte al destino individuale, soprattutto in un momento di crisi dei valori collettivi» (87). Né si può tornare indietro: i legami naturali sono stati recisi, ed è impossibile riannodarli. Si arriva a riconoscere che «siamo costretti a fare cose in cui in fondo non crediamo. Ecco, le due parole più giuste sono solitudine e autoinganno» (88), per affermare che «nella ipotesi di come usare oggi la tua vita la conclusione della morte non è delle peggiori» (89), e che «il suicidio è una scelta matura e non può essere visto solo in termini di cedimento» (90).
L’utopia è morta, non si riesce a capire, e quindi ad accettare una realtà lontanissima dallo pseudo-eden in cui ci si era rifugiati: l’esito consiste a maggiore ragione, nell’estraniarsi dalla realtà e nell’annientare sé stessi. La sostanza resta identica, anche se le modalità prescelte sono in apparenza differenti: vi è chi si suicida, chi si abbandona alla droga – e, cioè, ancora si suicida, solo che lo fa a rate -, chi si affida ai paradisi orientali: più di un ex militante dell’ultrasinistra, infatti, ha preso negli ultimi anni la via dell’Oriente (91), e case editrici – che un decennio fa pubblicavano testi relativi alla rivoluzione sessuale di esaltazione della vita nelle «comuni» sfornano oggi – libri su «mistiche» esotiche, la cui ragione di attrazione è forse da ricercare nella estinzione dell’essere in esse frapposta, come liberazione da una esistenza piena di tormenti e di sofferenze (92).
Ma sono naturali questa volontà di totale annientamento e questo desiderio di autodistruzione?
8. Il processo rivoluzionario e la diffusione del suicidio
«L’uomo vuole la felicità naturalmente e necessariamente» (93); «la creatura dotata di spirito desidera per sua stessa natura di essere felice; per questo essa non può non desiderare di essere felice» (94). San Tommaso sembra non stancarsi di ripetere questo concetto: il desiderio, il prepotente anelito alla felicità fa parte della natura stessa dell’uomo. I suoi contemporanei, poi, erano ben consci della importanza di tale assunto, se è vero che nella tradizione medioevale abbondano i trattati de vita beata; ciò, come fa notare Marcel de Corte, a differenza di quanto accade nell’epoca in cui viviamo: oggi, infatti, gli studi sulla felicità sono rarissimi e quei pochi riguardano in genere la felicità del cielo; di quella terrena si trascura la trattazione e perfino l’accenno (95).
Si tratta di un riflesso evidente della condizione esistenziale in cui si trova l’uomo contemporaneo, del quale non si può proprio dire che sia felice; tutt’al più si diverte, nel senso che al termine dava Pascal (96), cercando senza posa surrogati con i quali tenta invano di tacitare la sua tensione naturale verso la vera felicità. Si sforza di fare durare il piacere, di per sé transitorio e sfuggente, e lo moltiplica a ritmo frenetico, quasi a volere conferire a esso stabilità: spettacoli, musica, viaggi, giochi, sport, sesso, ballo, «tifo», senza interruzione … ma nessun surrogato lo soddisfa pienamente: quanto più cerca il piacere, tanto più la felicità si allontana.
Nel fondo del suo animo, egli è perennemente scontento; l’angoscia pervade la sostanza del suo essere, anche se tenta di mascherarla con il maggiore numero possibile di divertimenti; e quando con questi ultimi non riesce il maquillage, vengono alla luce disperazione, smarrimento, incertezza radicale, e la morte comincia ad apparire un’alternativa interessante a una esistenza priva di senso. Di ciò è specchio fedele l’arte dei nostri tempi, che oggi non riesce a offrire neanche uno spiraglio di serenità ma, al contrario, trasmette solo tristezza e angoscia. Si pensi alla totale astrazione dalla realtà e alla desolazione profonda di tanta musica contemporanea, per non parlare, poi, dei poeti e dei letterati espressi dal «secolo della morte, della guerra e del peccato» (97): uomini che ripetono quasi ossessivamente di essere condannati a «pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore» (98), e per i quali «il compenso di aver tanto sofferto è che poi si muore come cani» (99).
Ma, a ben riflettere, non può essere diverso l’esito di secoli di lotta contro l’ordine e la gerarchia nel creato e nell’uomo: esiste un nesso preciso tra l’avanzare della rivoluzione nella storia e il mutamento nella considerazione sociale del suicidio, specie se si legge il processo rivoluzionario in termini di graduale recisione di legami vitali, Emile Durkheim, che certo non può essere sospettato di simpatie per il cattolicesimo, fa notare come il suicidio nel secolo scorso fosse molto più diffuso nelle nazioni protestanti, come la Prussia o la Danimarca, che in quelle cattoliche, come Spagna, Portogallo o Italia (100): egli spiega il fatto osservando che tra le cause del suicidio non ultima è la perdita di coesione della società religiosa di cui si fa parte, alla quale si collega una crisi di valori e di certezze; ora, il protestantesimo vive in una struttura ecclesiale senz’altro meno integrata rispetto a quella della Chiesa di Roma che invece, con il suo credo universale e con la gerarchia che lo garantisce, ha al suo interno maggiore coesione e, quindi, offre maggiori certezze (101).
Altro elemento che contribuisce all’aumento dei suicidi, sempre secondo Durkheim, è la disintegrazione della società civile, che rompe la solidarietà tra le categorie e i corpi intermedi all’interno di una comunità politica (102) per questo la Rivoluzione francese e gli Stati liberali che fecero propri i principi ispiratori di essa, eliminando le corporazioni, che erano strumento di solidarietà e di integrazione, cancellarono un altro efficace ostacolo alla morte volontaria: come conseguenza della soppressione dei corpi intermedi, infatti, «mentre lo Stato si gonfia e ipertrofizza per giungere senza riuscirci a conglomerare fortemente gli individui, questi, privi di legami tra loro, rovinano gli uni sugli altri come molecole liquide senza incontrare nessun centro di forza che li trattenga, li fissi, li organizzi» (103).
Ma non basta: alla rottura del legame con la società religiosa e con la società politica, la follia rivoluzionaria fa seguire coerentemente la eliminazione dei vincoli più elementari e più naturali, a cominciare da quello familiare, la cui influenza sul suicidio è ancora più marcata: «in altri tempi la società domestica non era soltanto una somma di individui uniti tra loro da vincoli di reciproco affetto, ma anche un gruppo a sé con una unità astratta e impersonale. Era il nome ereditato con tutti i ricordi che rievocava, la casa di famiglia, la terra degli avi, la situazione e reputazione tradizionale, ecc. […] Tutto questo va scomparendo. Una società che si dissolve ogni momento per riformarsi su altri punti e in condizioni del tutto nuove, con tutt’altri elementi, non ha sufficiente continuità per rifarsi una fisionomia personale, una storia propria, cui possano ricollegarsi i membri. Se perciò gli uomini non sostituiscono questo antico oggetto di attività mano a mano che esso sfugge, è impossibile che non venga a crearsi un gran vuoto nell’esistenza» (104).
Ma neppure la famiglia nucleare riesce a trovare stabilità; la Rivoluzione spinge l’uomo a sciogliere quello che Dio ha voluto indissolubile e il sociologo constata un parallelismo tra l’aumento del numero dei divorzi e l’aumento dei suicidi (105). Poi si va ancora oltre: se Dio è morto, non è più creatore e signore della vita; spetta all’uomo stabilire chi deve nascere, chi deve sopravvivere, chi deve morire (106), e quando si deve morire: contraccezione, aborto, eutanasia, suicidio sono le tappe di questo percorso di morte e di isolamento-annientamento.
9. Il suicidio come alternativa al fallimento della utopia
Al termine del processo, l’uomo si ritrova ad avere troncato ogni radice che possa portargli nutrimento e vita, e con ciò si scopre sospeso, fuori dalla realtà, privo del «solo mezzo che potrebbe dargli stabilità: il suo stesso essere concreto» (107); fuori dal quadro naturale in cui è stato posto all’inizio dei tempi, non riesce più a capire chi è, da dove viene, dove è diretto: sente di essere fatto per qualche cosa di grande, desidera la felicità, ma non sa più che cosa è, né dove né come trovarla.
Vive in sé un contrasto insanabile tra la sua natura, che non cambia, e la repressione, frutto del pensiero gnostico-rivoluzionario, della verità naturale sul suo essere. E anche se ha la grazia dl intravedere la realtà dell’essere, qual è veicolata dal cristianesimo, essa gli sembra troppo difficile da sopportare: meglio, a prima vista, scegliere la fuga dalla realtà (108), con il conseguente rifugio in un mondo di sogno, costruito con la utopia e spacciato per vero. Da questo mondo irreale, basato sull’odio gnostico per la creazione, riflesso dell’odio verso il Creatore (109), sono banditi quei concetti che una lettura obiettiva della realtà rende facilmente constatabili: la limitatezza umana, la fallacia di ogni prospettiva di assoluta autonomia, la sua finitudine, in altri termini, la sua dipendenza creaturale.
La via d’uscita dal lager del sogno sembra quasi preclusa:
a. infatti, per chi fa parte dell’avanguardia della Rivoluzione vige il ferreo e marxiano «divieto di fare domande», che è un atteggiamento teso a «non conoscerei fatti che contrastano con le illusioni che si nutrono a proposito della realtà» (110). Si tratta di quello che Sartre definisce «malafede» (111), e che egli stesso ha praticato rispetto al comunismo quando, di fronte alle drammatiche notizie di stragi e di persecuzioni provenienti dall’Unione Sovietica, reagì sostenendo che compito dell’intellettuale di sinistra fosse quello di ignorarle, se non di negarle, perché in contrasto con il sogno del paradiso socialista. Questo fenomeno si è verificato spesso nel mondo comunistico; sono agghiaccianti le parole che il bolscevico Pjatakov, già caduto in disgrazia ed espulso dal PCUS, indirizzava a un ex compagno, Valentinov, a proposito dei suoi rapporti con il partito: «Il bolscevismo – egli scrisse – è un partito che vuole mettere in pratica ciò che si considera impossibile, irrealizzabile e inammissibile […]. Soffocando le nostre convinzioni, respingendole, bisogna nel più breve tempo possibile ricostruirci in modo da essere interiormente concordi con qualsiasi decisione presa dal partito, con tutto il cervello, con tutto il nostro essere. È difficile considerare falso oggi ciò che ieri ci sembrava ancora vero? Naturalmente no. […] Rinunciare alla vita, spararsi un colpo in fronte sono sciocchezze di fronte all’atto di volontà che intendo io. […] Io ho già sentito questo genere di ragionamenti […]. Il partito può sbagliare di grosso, ad esempio considerare nero ciò che è evidentemente e indiscutibilmente bianco […]. A chi mi suggerisce questo esempio dirò: ebbene sì, considererò nero quello che credevo e che mi sembrava bianco, perché non c’è vita per me al di fuori del partito, al di fuori dell’armonia con questo» (112). D’altra parte, è nota la vicenda di quei bolscevichi imprigionati soprattutto negli anni ’30 per ordine di Stalin, che durante il processo e perfino davanti al plotone di esecuzione continuavano a ringraziare lo stesso Stalin e a incensare il partito;
b. ma anche per chi non fa parte dell’apparato, per l’uomo comune, la via di uscita incontra ostacoli elevatissimi. A ciò contribuiscono al tempo stesso l’affievolirsi del retto uso di ragione a vantaggio di un modo di vivere sentimentale e istintuale, fortemente condizionato dalla «civiltà dell’immagine» (113) e la perdita anche del contatto fisico con la natura: la vita in palazzi-formicaio, senza potere vedere neanche il sorgere e il tramonto del sole, senza temere il freddo o il caldo perché vi è il calorifero oppure il condizionatore, senza sentire l’alternarsi delle stagioni, l’avere tutto sotto mano porta necessariamente a ignorare tutto: «si può usare il telefono, la radio, le macchine; si possono acquistare dei legumi, della carne, delle stoffe, senza capir nulla delle forze che si nascondono nelle cose» (114).
Il contatto con la realtà così gravemente compromesso conduce a un modo di vita sospeso, nello stesso tempo lontano da ogni «scuola di verità» (115) e condizionato, specie per le generazioni più giovani, «dalla nauseante pressione della pubblicità, dall’abbrutimento della televisione e dai clamori di una musica insopportabile» (116); il che, da qualche tempo, è constatabile anche visivamente nell’occhio spento e nell’agitarsi ritmico di tanti adolescenti che, a furia di no-stop music, sembrano avere lo stereo sempre in funzione anche nel cervello.
10. Il Superuomo nella valle di lacrime
Se però l’uomo ha perso di vista il vero bene, essendosi estraniato dal reale, non per questo ha smesso di desiderarlo, e tale desiderio, «informe e senza volto, nervoso e indeterminato» (117), non trovando l’unico oggetto che possa soddisfarlo, finisce per confondersi con il movimento del tempo, con lo svolgimento della storia. Il suo appetito, cioè, si converte in un divenire senza limiti e senza fine, specie, poi, se gli si racconta, facendogliela credere vera, la favola evoluzionistica del progresso ininterrotto della umanità. Questa tensione priva di una méta reale conduce, perciò, alla identificazione dell’uomo con la sua storia; ma, se egli si autocrea nel divenire della storia individuale e collettiva che, secondo il mito progressistico, lo condurrà a salti di qualità sempre più elevati, vuol dire che il suo essere non è dato e, quindi, non è soggetto a limiti posti da altri e a una ben determinata legge di sviluppo.
Al contrario: le sue possibilità sono illimitate, anche perché la palingenesi è immanente (118). A questo punto, il passaggio indispensabile per rendere possibili contemporaneamente il rifiuto dell’ordine dato all’essere, e la conseguente fede nel totale controllo dell’essere da parte dell’uomo, è la eliminazione dell’origine trascendente dell’essere stesso, cioé l’«assassinio di Dio» (119). Infatti, «l’uomo che coincide con la sua storia si fa da solo; è il demiurgo di se stesso. Spodesta il Dio del Genesi e ne prende il posto. La sua sola fede è l’ateismo» (120). L’«uomo nuovo» gnostico-rivoluzionario deve, quindi, riportare Dio in sé stesso (121): «la critica della religione – insegna Marx – finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo» (122), e costituisce «il presupposto di ogni critica» (123). Dio ucciso, dunque, e uomo deificato e perciò senza limiti.
Succede però che, nonostante lo stesso Marx scriva che «la critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola» (124), il mondo, a dispetto di ogni «critica», non muti la sua natura, confermando ogni giorno di più il suo volto di lacrimarum vallis, e anzi mostrandolo in modo ancora più accentuato e drammatico nei paesi dominati dalle forze che assicurano la felicità piena su questa terra. E il fallimento di tali sogni non dipende certamente, come viene fatto credere nelle cellule e nelle sottosezioni, da incapacità di singoli oppure da lentezze burocratiche, ma dal carattere utopico, contrario alla realtà, delle idee di partenza. Il dolore, il limite, l’insuccesso si rivelano ancora elementi centrali nella vita di ogni uomo; i vari paradisi terrestri – Vietnam, Cambogia, Cina, «comuni» volontarie, e così via – sono in realtà inferni storici, anticamere dell’inferno reale; gli arcangeli del mito evoluzionistico non volano in cielo, ma finiscono anch’essi, come tutti gli altri uomini, sotto terra, magari mummificati, ma sempre privi di vita sotto pietre squadrate e glaciali. La favola del progresso, raccontata in tutte le lingue, non sembra conoscere un finale lieto: oggi chi ha più il coraggio di concludere, se ha un minimo di onestà, che poi «vissero tutti felici e contenti»?
La malattia e la morte sono lì a ricordare all’uomo che è un essere finito e limitato; e, infatti, egli cerca di esorcizzarle, isolando l’una e l’altra: per esempio, trasferendo il malato scomodo in ospedale, e «scaricando su altri, con la coscienza perfettamente a posto, un’assistenza d’altra parte maldestra per continuare una vita normale» (125).
E la morte, che nel Medioevo era pubblica e si consumava alla presenza di familiari, di amici e di sacerdoti riuniti in preghiera (126), oggi, ricordando troppo efficacemente che non siamo eterni, va tenuta a distanza di sicurezza, confinata anch’essa in un letto di ospedale, che è il solo luogo ove si può tentare di farla sfuggire a ogni sconveniente pubblicità. Al funerale il pubblico si riduce, e guai a portare i bambini, che possono assistere a innumerevoli e spettacolari morti cinematografiche, ma che vanno tenuti lontano dal pensiero di quella vera. Talvolta, per liquidare il defunto in modo più completo, si preferisce la cremazione alla inumazione: così non vi è neppure più il fastidio della visita al cimitero. Anche il lutto è soppresso: «è una malattia. Chi lo mette in mostra dà prova di carattere debole» (127), e perciò viene isolato dall’entourage e viene messo in quarantena.
Si cerca di mascherare anche la vecchiaia, premonitrice della morte, regalando milioni alla estetista; oppure la si ghettizza, inventando la «terza età», che diventa un’area di parcheggio – definitivo – per anziani ingombranti, e anch’essa va mantenuta, come l’ospedale e il cimitero, a distanza: infatti, le «case di riposo» si trovano quasi sempre in estrema periferia, poiché la loro presenza minaccia, per l’uomo deificato, il mito della eterna giovinezza.
Si tratta, però, di semplici paraventi: il dolore è ineliminabile, per qualunque età; le rughe rimangono, anche sotto le creme delle estetiste; i farmaci, se guariscono da qualche malattia – ma non da tutte e, soprattutto, non dalle più gravi -, nulla possono contro la morte.
E l’uomo si ritrova solo, nudo, incapace di soffrire: gli hanno detto che è il Creatore e non riesce neanche a vivere come creatura; gli hanno promesso «tutto e subito», e si accorge di non avere niente e di non essere niente, privo, come si è ridotto, di passato, di presente e di legami vitali. Avendo rifiutato i suoi limiti oggettivi, non sopporta più il minimo insuccesso o malanno, per non parlare della decadenza fisica e dell’incurvamento: chi si ritiene Dio, infatti, non riesce a capire perché deve soffrire e invecchiare.
La disillusione è enorme, e lo «scacco» rende incapaci di vivere. Il destino di uno dei più efficaci teorizzatori del superomismo illustra in modo esemplare questa condizione esistenziale. Nicola Abbagnano spiega come in Nietzsche, «ad un certo punto, la paralisi progressiva e la consapevolezza insorgente del proprio fallimento come Superuomo, trovarono il loro punto d’incontro e lo sbocco fatale nella pazzia» (128): egli, cioè, diventa pazzo perché, dopo avere creduto di potersi elevare a chissà quali vette, constata con la malattia i propri limiti e non si rassegna a sopportarli rinnegando il suo sogno. Lo stesso Nietzsche, in una lettera scritta nel 1888 a un amico, afferma che «dopo la pubblicazione dello Zarathustra, egli non fa in realtà che il pagliaccio per poter dominare una tensione e una vulnerabilità insuperabili» (129): «fare il pagliaccio», cioè mascherare una realtà che contrasta in modo stridente con la utopia, cioè, ancora, autoingannarsi, impegnarsi in una truffa intellettuale la cui logica è identica al «divieto di fare domande».
11. Faites vos jeux: folli, drogati o suicidi?
Se, davanti al fallimento, taluno diventa pazzo, qualche altro preferisce togliersi la vita. I suicidi, così diffusi nell’estrema sinistra, hanno dietro di sé le stesse motivazioni: se l’utopia non si trasforma in realtà, la morte diventa «l’unica alternativa […] ad una vita fatta ormai solo di angoscia e di dolore», come lascia scritto Marco Riva nella lettera ai genitori (130). Altri, ancora, scelgono la droga: come è stato notato, «se per Marx la religione è l’oppio del popolo e se per Aron il marxismo è l’oppio degli intellettuali, siamo giunti ormai al punto che oggi la gente preferisce prendere l’oppio allo stato puro» (131)!
È interessante, in proposito, all’interno della già citata tavola rotonda sviluppatasi sul Quotidiano dei lavoratori, lo scontro tra la posizione – che sembra prevalere – di coloro che giustificano il ricorso alla morte in termini di «scelta matura» in un momento di «crisi di valori collettivi», e la opposta posizione di coloro che, invece, ritengono ancora possibile la salvezza nell’io collettivo, proseguendo nell’impegno di trasformazione della società, dal quale continua a dipendere anche la «risoluzione dei problemi personali», e che bollano i frequenti suicidi come espressione di una «ideologia del vittimismo» (132).
L’alternativa al fallimento è, infatti, o l’auto-eliminazione oppure l’attribuzione dell’insuccesso a terzi – l’imperialismo, il capitalismo, la società, i preti, ecc. -, e il conseguente rituffarsi in un impegno rivoluzionario ancora più radicale: in tale caso, «l’esito positivo andrà a perdersi in un avvenire sempre più promettente ma sempre più lontano. Per giustificare ai propri occhi le sue iniziative, l’uomo è costretto […] a trasformarsi […] in un essere sempre più rivoluzionario […], che non riesce mai a portare a termine la sua opera, e la cui insoddisfazione lo trascina in un perpetuo divenire, che genera una condizione sempre più miserabile perché non ha fine» (133). Facendo un giro più lungo, la seconda strada finisce tuttavia per portare alla stessa destinazione della prima: il fallimento è solo rinviato alla fine della prossima illusione; d’altra parte, chi se ne intende ricorda che «il rivoluzionario è un uomo condannato» (134), e che «il vecchio slogan “la rivoluzione o la morte”, non è più l’espressione lirica della coscienza in rivolta, ma è l’ultima parola del pensiero scientifico del nostro secolo» (135).
Né ciò può stupire, dal momento che siamo di fronte a una necessità intrinseca al pensiero rivoluzionario. Luciano Pellicani ricorda che, poiché per lo gnostico il mondo è orrendo, «è logico che esso debba essere annichilito e poi ricostruito dalle fondamenta. Ma se tale doppia operazione non è possibile, la tentazione al suicidio di massa è irresistibile, poiché il Paracleto gnostico e i suoi seguaci non possono tollerare lo scacco. […] Se non può farlo positivamente (rigenerando il macrocosmo), cercherà di farlo negativamente, ritorcendo l’aggressività accumulata verso il microcosmo. Di qui il suicidio, o il rito di estinzione, l’autofagia» (136).
Ma ciò che rende ancora più logicamente necessario il suicidio è l’avere ucciso Dio e l’averlo riportato in sé stessi. San Tommaso insegna che «non esiste negli esseri creati il potere di ritorno verso il nulla: ma in Dio solo è il potere di dare a quelli l’essere o di lasciare inaridire in essi l’afflusso dell’essere» (137). Ora, se l’uomo si è messo al posto di Dio, per somigliare a quest’ultimo deve assumerne il connotato principale: la potentia ad non esse (138), cioè la disponibilità piena dell’essere e il potere di riportarlo al nulla. In altri termini, chi si sostituisce a Dio non può che togliersi la vita: solo così proverà a sé stesso di essere diventato Dio (139), rivestendone la funzione. Kirilov, protagonista dei Demoni dostoievskijani, si uccide proprio per mostrare a sé e agli altri di essere Dio.
Diversamente non avrebbe senso proclamarsi padroni di sé stessi: «affermando il diritto al suicidio – si legge in Suicide, mode d’emploi – affermiamo che la nostra vita ci appartiene, che ci apparteniamo» (140).
E non è un caso che i periodi in cui si verificano con più frequenza i suicidi siano quelli in cui si fa sentire maggiormente il vuoto del vero Dio: le feste natalizie, per esempio (141), oppure, in genere, i giorni di festa, e in particolare quelle domeniche fonti della leopardiana «tristezza e noia» (142).
Dunque, l’esito e il prezzo di secoli di Rivoluzione, di odio a Dio e di persecuzione alla sua Chiesa, di distruzioni e di lotte, è constatabile da parte di chiunque: è una (dis) società formata da uomini che non vogliono avere figli, che rinnegano i propri padri e che finiscono per togliersi la vita: come si vede, un bilancio esaltante!
12. La Croce, unica vera alternativa al suicidio
Sarebbe vano, a questo punto, soffermarsi sulla meditazione del percorso rivoluzionario e del suo inevitabile sbocco, se essa non fosse accompagnata dal desiderio e dallo sforzo di individuare e, quindi, di imboccare una via di uscita. Non è possibile, infatti, rimanere neutrali, poiché la posizione in cui ci troviamo non è quella di spettatori: non assistiamo, cioè, alle vicende della vita e del mondo dall’esterno di una comoda platea; nella vita e nel mondo siamo stati proiettati all’inizio della nostra storia individuale e non ci è consentito disertare la scena: ognuno deve interpretare la propria parte fino in fondo.
Per riuscirvi bisogna scegliere, e la scelta è limitata a due sole opzioni: la Rivoluzione o la Contro-Rivoluzione; tertium non datur. Non scegliere, infatti, significa optare implicitamente per la Rivoluzione, perché, restando inerti, si è trascinati dalla corrente, e la corrente, oggi, va vorticosamente solo in una direzione, quella della Rivoluzione. E la via della Rivoluzione coincide, come si è visto, con la via della morte e della disperazione.
La tragica diffusione del suicidio lo conferma. Non si tratta solo di un fenomeno limitato a sparute avanguardie sovversive: certo, per queste ultime i motivi appaiono più chiari ed evidenti, ma coloro che si tolgono la vita non si trovano soltanto tra i giovani dell’estrema sinistra. Il fenomeno è capillarizzato, come capillare è la estensione della mentalità rivoluzionaria, specie di quelle tendenze che mirano al dissolvimento individuale e che si raggruppano sotto il nome di IV Rivoluzione (143).
Ora, proprio perché la morte si mostra a tanti come l’unica alternativa a una esistenza nella quale non si riesce più a cogliere il senso del dolore, diventa ancora più urgente recuperare per sé e per gli altri l’unica visione in grado di spiegare, perché vera e reale, il significato e il modo di vivere la sofferenza.
Nell’ottica tradizionale e cristiana, il dolore ha una collocazione precisa, all’interno della relazione peccato-colpa-sacrificio (144). Esso non è stato voluto da Dio, ma è entrato nel mondo a causa del peccato: la colpa che ne consegue può essere riparata solo attraverso la purificazione della sofferenza e del sacrificio. E tale riparazione, impossibile per le sole umane capacità dopo la caduta originale, diventa realizzabile grazie all’assunzione volontaria delle miserie terrene da parte di Nostro Signore: «la sofferenza invase e avvolse tutto l’essere umano del Figlio incarnato. […] Gesù appare come l’uomo oppresso dal dolore, dall’odio, dalla violenza, dallo scherno, e ridotto all’impotenza» (145). Egli «ha preso volontariamente su di sé la sofferenza e la morte, che gli uomini avevano meritato per i loro peccati. Ma non ci ha esonerati da questa sofferenza e da questa morte, perché vuole farci partecipare al suo sacrificio redentore» (146).
Dopo la Incarnazione, il dolore si presenta come l’unico strumento che garantisce la elevazione dell’uomo: «Cristo realizza l’ideale dell’uomo che, attraverso il dolore, porta al più alto livello il valore dell’esistenza. […] La sofferenza non è mai inviata da Dio allo scopo di schiacciare, né di diminuire la persona umana, né di intralciarne lo sviluppo. Essa ha sempre lo scopo di elevare la qualità della vita, stimolando ad una più grande generosità» (147). Nello stesso tempo, essa garantisce la vera felicità, che, infatti, è fondata «sull’ammirabile fecondità del dolore» (148), così come la gioia che pervade la madre dopo avere dato alla luce il proprio bambino si fonda sul travaglio del parto. Ogni sofferenza è feconda in quanto, collaborando, per volontà di Dio, alla Redenzione, genera grazia e vita spirituale e, quindi, vera gioia. Tale gioia è poi sublimata dalla coscienza di imitare, attraverso il dolore, il Divino Modello, e questo spiega la straordinaria coincidenza e contemporaneità di «pene, ingiurie, obbrobri e disagi» e di «perfetta letizia» (149) nella vita di ogni santo.
Ciò non significa, naturalmente, disprezzo per la vita: il cristiano ama il creato e ogni suo elemento, ben sapendo che ogni cosa è buona perché uscita dalle mani di Dio (150), e perciò non accetta la ferita per amore della ferita, ma si priva delle cose che vengono annientate dalla ferita, pur ritenendole in sé buone, a vantaggio di altre superiori (151).
Il pensiero gnostico-rivoluzionario, «assassinando» Dio, elimina anche i concetti di peccato e di colpa, ma non riesce a cancellare il dolore che, mantenendo la sua centralità nella vita di ciascuno, resta così privo di spiegazione. Il prezzo dell’odio illuministico verso il sacrificio e del dogma della natura immacolata dell’uomo consiste, allora, nell’avere aggiunto alla sofferenza disperazione e angoscia. Studi recenti nel campo della psicologia dimostrano che la consapevolezza da parte del paziente circa la natura del male che lo affligge si rivela utilissima ai fini di un buon decorso operatorio (152): eppure si tratta di una consapevolezza che riguarda solo il dato fisiologico; si pensi, allora, a quale maggiore utilità può portare la coscienza anche della causa remota della malattia e del dolore …
Si è pure constatato che, a parità di stimolo doloroso, il grado di sofferenza è influenzato dalla condizione psicologica del malato: «se egli concentra la sua attenzione sull’episodio che porta alla sofferenza, il livello di sofferenza aumenta anche di molto, mentre se ne è distratto la sofferenza diminuisce» (153); anche in questo caso, la scienza conferma la esattezza dell’insegnamento della Chiesa, teso a bandire ogni autocompatimento e a fare meditare, durante le avversità, invece che sulle proprie miserie, sulle sofferenze di Colui che ha pagato col suo Sangue le colpe degli uomini.
Per chi rifiuta di comprendere la grandezza del sacrificio, bollando l’homo religiosus come «uomo limitato per natura» (154) e che, di conseguenza, si priva della spiegazione reale della sofferenza, la esistenza è un continuo tormento, e il dolore viene vissuto come «una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria» (155), cui si desidera soltanto porre termine al più presto con la morte, a torto ritenuta «la fine di tutto» (156) E i profeti di questo secolo offrono, su di un piatto d’argento, all’uomo disperato «un mezzo meno doloroso per uscire dall’inferno terrestre» (157):il suicidio.
«Se oggi ci si uccide più che in passato – osserva Durkheim, e quanto scrive è tanto più interessante in quanto è un positivista – non è certo perché si debbano fare sforzi più dolorosi per mantenersi, o perché i nostri legittimi bisogni siano meno soddisfatti; invece è perché non sappiamo più dove si fermino i bisogni legittimi e non scorgiamo più il significato dei nostri sforzi» (158).
Perciò la ricetta anti-suicidio può solamente prescrivere il recupero della consapevolezza della nostra condizione di finitudine, indispensabile per consentire di aspirare all’infinito, e la ripresa del percorso di quella via della Croce che è detta regale (159) perché – garantendo il passaggio dalla vita alla Vita – conduce alla gloria del Re dei Re.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Cfr. CLAUDE GUILLON e YVES LE BONNIEC, Suicide, mode d’emploi. Histoire, technique, actualité, 3ª ed. riveduta e aumentata, Alain Moreau, Parigi 1982.
(2) Ibid., p. 4 di copertina.
(3) Ibid., p. 257.
(4) Ibidem.
(5) Ibid., p. 153.
(6) Ibid., p. 11.
(7) Ibid., p. 221.
(8) Ibid., p. 256, Di recente – come informa BRUNO CRIMI, Uccidersi con giudizio, in Panorama, anno XXI, n. 918, 21-11-1983, p. 129 – il dibattito sul volume è stato vivacizzato dall’apertura, a Parigi, di un procedimento penale a carico di Yves Le Bonniec, incriminato per «mancata assistenza a persona in pericolo e omicidio volontario». Questi i fatti a fondamento dell’accusa: nel novembre del 1982 Michel Bonnel, di trentanove anni, ex seminarista, di Montpellier, dopo avere letto il libro in questione, scrive a Le Bonniec chiedendo chiarimenti e precisazioni su alcune «ricette» indicate nel testo, e riceve dal giornalista pronta e dettagliata risposta: il 6 marzo successivo Bonnel si uccide, seguendo fedelmente le istruzioni ricevute.
Il processo viene aperto su denuncia dei familiari del suicida i quali, riordinando le sue carte, trovano Suicide, mode d’emploi e le lettere scritte da Le Bonniec.
(9) L’Humanité, 6-8-1982. Nel dibattito sulla divulgazione del volume, si fa notare – come non certo ingenuamente sottolineano Guillon e Le Bonniec – «il silenzio del clero» francese (op. cit., p. 255). Tra le prese di posizione a favore del libro, si ricorda quella del presidente del Pen Club francese, René Tavernier, per il quale è «insopportabile e inammissibile ogni interferenza dello Stato nella libera scelta dell’individuo» (il Giornale nuovo, 18-5-1982).
Anche in Italia, negli ultimi tempi, si stanno muovendo quelli che sono forse i primi timidi passi di una «campagna» a favore del «diritto» al suicidio; lasciando da parte le rivendicazioni più radicali dei partigiani francesi dell’autoeliminazione e usando toni in apparenza moderati, gli ingredienti nostrani sembrano essere gli stessi adoperati in passato per altre «gloriose» battaglie (si pensi a quelle a favore del divorzio e dell’aborto): descrizione di «casi pietosi», richiami ai «diritti civili», proclamazione della libertà come valore intangibile e pluralismo ideologico.
Così, in un «pezzo» ospitato dalla terza pagina del Corriere della Sera, del 21 aprile 1983, e intitolato Sono sociali e morali i problemi del suicidio, Giuliano Toraldo di Francia, giustifica il suicidio in talune ipotesi particolari – per esempio, quella di un vecchio solo e abbandonato oppure di un malato incurabile -, e condanna il comportamento di chi, in questi casi, si volesse adoperare per impedire che altri si tolga la vita; tale comportamento, per l’articolista, sarebbe «violento», in quanto mirerebbe a imporre a chi la pensa diversamente la «ideologia» -secondo cui la vita umana è sacra.
E non meraviglia se, di fronte alla risposta critica con cui su Avvenire del 26 aprile 1983 (Inammissibile la violenza, anche contro se stessi) Luciano Morigo ha smontato senza difficoltà simili tesi, Toraldo di Francia ha trovato un «difensore d’ufficio», anche se non esplicito, nel «teologo» don Giovanni Gennari (Si preparano polemiche sul suicidio, in Paese Sera, 28-4-1983). Questi, usando la tecnica consueta di fare precedere le falsità da affermazioni vere, dopo avere sottolineato che non sta bene uccidersi, perché la vita è dono di Dio e di essa l’uomo è solo depositario ma non proprietario, sostiene però che «se non si crede in Dio Signore amoroso e misericordioso della vita ci possono essere condizioni in cui essa può essere ragionevolmente considerata un peso inutile e senza scopo»: il problema, perciò, secondo don Gennari, andrebbe risolto su un piano soggettivo, in base a quello stesso «pluralismo» dei principi che gli ha consentito in passato di prendere posizione – pur essendo sacerdote – a favore di divorzio, contraccezione e aborto.
Ma non basta: in men che non si dica, il «teologo» riesce a trasformarsi in «moralista» e a dichiarare: «sono convinto che il suicidio è male, è cristianamente e religiosamente peccato, ma sono anche convinto che questo è valido solo nella prospettiva della vita come dono di Dio. Perciò la conclusione dell’articolo dell’Avvenire che chiama il suicidio “delitto” è equivoca. Delitto è un atto che va contro la legge. In presenza di una legge che proibisce in ogni caso il suicidio esso resta un delitto, ma la legge può cangiare, e il suicidio, restando peccato, cesserebbe di essere delitto. Voglio dire che nessuna autorità umana può costringere a vivere chi lucidamente e liberamente volesse uscire dalla vita». Tutto ciò, ovviamente, sulla base del presupposto che legge divina e legge positiva siano realtà non solo autonome ma perfino ontonome: presupposto che se per don Gennari e per Paese Sera è talmente scontato da non necessitare nemmeno un cenno, non è certamente in linea con il Magistero della Chiesa.
(10) A. ALVAREZ, Il dio selvaggio, trad. it., Rizzoli, Milano 1975, pp. 136-137.
(11) CLAUDE GUILLON, Vive la mort, in Tankonala Santé, n. 17, inverno 1975.
(12) Le Matin, 25-5-1981.
(13) C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 189.
(14) A. ALVAREZ, op. cit., p. 78.
(15) Contenuta in un long playing inciso per la Dolby System da Donatella Rettore; lo stesso long playing si apre con un brano, che dà il titolo alla raccolta, le cui uniche parole sono Kamikaze rock’n’roll suicide, e il termine suicide è ripetuto decine di volte in un modo al tempo stesso ossessivo e suadente, come se si trattasse di una cosa desiderabile.
(16) Cfr. EMILE DURKHEIM, Il suicidio. L’educazione morale, trad. it., UTET, Torino 1977, p. 268.
(17) Ibid., p. 251.
(18) Cfr. PLATONE, Fedone VI; e IDEM, Leggi IX, 873.
(19) Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, III, 8; V, 11.
(20) SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II -IIae, p. LXIV, a. 5.
(21) Ibidem.
(22) Ibid.; un compendio della dottrina morale cattolica relativa al suicidio è contenuto in ANDREA ODDONE S.J., Il rispetto della vita, in La Civiltà Cattolica, anno 98, n. 2332, 9-8-1947, pp. 289-299.
(23) A. ALVAREZ, op. cit., p. 73.
(24) C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 64.
(25) Cfr. JOSEF PIEPER, Sulla fine del tempo. Meditazioni filosofiche sulla storia, trad. it., Morcelliana, Brescia 1959, pp. 142-143.
(26) Cit. in IDEM, Sulla fortezza, trad. it., 2ª ed. riv., Morcelliana, Brescia 1965, p. 23.
(27) Ibidem.
(28) GIOVANNI PAOLO II, Discorso alle autorità, a Padova, del 12-9-1982, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 3, p. 426.
(29) Cfr. DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia. Inferno, canto XIII.
(30) MICHEL DE MONTAIGNE. Saggi, trad. it., Mondadori, Milano 1970; vol. I, pp. 450-451.
(31)
(32) Cfr. C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 74.
(33) Cfr. E. DURKHEIM, op. cit., p. 391.
(34) A. ALVAREZ, op. cit., p. 204.
(35) Cfr. PHIL KERNS, La tomba del popolo, trad. it., Uomini Nuovi, Marchirolo (Va) 1980, p. 81. Per tutto il «caso Guyana» ho avuto presente anche GIOVANNI CANTONI, L’apogeo della Rivoluzione: il suicidio della Guyana, conferenza del 9-3-1979, inedita.
(36) Cit. in MARSHALL KILDUFF e RON JAVERS, del San Francisco Chronicle, Guyana: la setta del suicidio. La vera storia del Tempio del Popolo e dell’orgia suicida, con un epilogo di Herb Caen, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1978, p. 102.
(37) Cit. ibid., pp. 130-131.
(38) Cit. in P. KERNS, op. cit., p. 40. La sottolineatura è mia. Simili idee erano enunciate di frequente da Jones: così, per esempio, egli scriveva in una lettera alla suocera, Charlotte Baldwin: «Sto realizzando il paradiso sulla Terra. Sto dimostrando che non c’è bisogno di Dio. Noi non parliamo più di Dio. Penso alla Russia e alla Cina, sono comunista, ho fondato la prima società comunista americana» (cit. in ANTONIO PALADINO (a cura di), Vi ho amati da morire, in Panorama, anno XVII, n. 713, 17-12-1979, p. 113).
(39) FRANCO DE GIORGI, Morivano intorno a me tra gli spasmi, fulminati dal cianuro, in Gente, anno XXII, n. 49, 9-12-1978, p. 6.
(40) Cfr. P. KERNS, op. cit., pp. 107 e 135; cfr. anche CORRADO INCERTI, Nel nome di Satana, in L’Europeo, anno XXXIV, n. 49, 8-12-1978, pp. 67-69.
(41) Cfr. P. KERNS, op. cit., p. 114.
(42) Cfr. M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., p. 52.
(43) Cfr. P. KERNS, op. cit., p. 114. Un saggio della «pedagogia» usata da Jones con i bambini presenti nel Tempio è data da questa lettera che il «Padre» indirizzava alla piccola Maya Ijames, di nove anni: «Non devi piangere più. Non devi lamentarti. Una vera bambina socialista dà pugni, lotta. HQ bisogno di bambini capaci di odiare» (cit. in A. PALADINO, art. cit.).
(44) Cfr. M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., p. 56.
(45) Ibid., pp. 53-55.
(46) Spesso Jones urlava: «Io sono stato Marx! Io sono stato Lenin! Io sono stato Gesù Cristo e sono qui di nuovo questa sera!» (P. KERNS, op. cit., p. 87; e M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., p. 106).
(47) Cfr. M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., pp. 61-62.
(48) Ibid., p. 143.
(49) P. KERNS, op. cit., p. 71.
(50) Cfr. IGOR SAFAREVIC, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, presentazione di Aleksandr Solzenicyn, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, p. 311.
(51) Ibid., pp. 221 ss.
(52) Ibid., p. 311.
(53) Cfr. ENRICHETTA BÜCHLI, Suicidio collettivo e cultura californiana. Sul massacro della Guyana, in Vita e Pensiero, anno LXII, n. 1, gennaio 1979, p. 43.
(54) Cfr. P. KERNS, op. cit., pp. 135-136.
(55) M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., p. 108.
(56) Ibidem.
(57) L’Espresso, anno XXIV, n. 48, del 3-12-1978, p. 7. Da una lettera del «Padre» a un ragazzo del Tempio, Mark Kitch, di dodici anni, «È bello che tu sia pronto a bere il veleno contro i capitalisti, contro la Cia, contro la bestialità del capitalismo, e per la dolcezza del socialismo» (cit. in A. PALADINO, art. cit., p. 121).
(58) Così Charles Garry, legale di Jones e noto avvocato dell’ultrasinistra – già difensore delle «pantere nere» -, ha definito, dopo l’episodio del suicidio, l’esperienza del Tempio del popolo (L’Espresso, cit., p. 13).
(59) Cfr. P. KERNS, op. cit., p. 113.
(60) Ibid., p. 143.
(61) Cit. in M. KILDUFF e R. JAVERS, op. cit., p. 8; e in P. KERNS, op. cit., pp. 151-152.
(62) Cfr. P. KERNS, op. cit., p. 151.
(63) Cfr. la Repubblica, 19-12-1978.
(64) Il Tempo, 19-12-1978.
(65) Cfr. Vita Sera, 9-2-1979.
(66) KARL MARX, Oulanem, atto I, scena III, cit. in RICHARD WURMBRAND, Mio caro diavolo. Ipotesi demonologiche su Marx e sul marxismo, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1979, p. 35.
(67) I. SAFAREVIC, op. cit., p. 375.
(68) Per una esposizione sintetica della dottrina dei catari, cfr. I. SAFAREVIC, op. cit., pp. 36 ss.; anche PAOLO BREZZI, voce Catari, in Enciclopedia Cattolica, vol. III, pp. 1087-1089.
(69) JEAN MESLIER, Zavescanie [testamento], Mosca 1954, vol. 2, p. 377, cit. in I. SAFAREVIC, op. cit., p. 140.
(70) Cit. ibid., p. 360.
(71) Ibidem.
(72) A.S. IZGOEV, L’intelligencija giovanile, in AA. VV., La svolta. Vechi. L’intelligencija russa tra il 1905 e il 17, trad. it., Jaca Book, Milano 1970, p. 107.
(73) Ibid., p. 108.
(74) Anche per Freud l’istinto di morte ha una valenza positiva; consistendo nella «tendenza della vita organica a tornare allo stato elementare da cui è stata tolta da una perturbazione esteriore». (I. SAFAREVIC, op. cit., p. 362): in questo è evidente il riflesso dell’atteggiamento gnostico nei confronti del mondo e della vita.
(75) HEBERT MARCUSE, Eros e civiltà, trad. it., Einaudi, Torino 1968, p. 246.
(76) Ibid., p. 248.
(77) Conversazione con Michel Salomon in L’Avenir de la Vie, Seghers 1981, cit. in C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 121.
(78) Può essere interessante ricordare che delle tre figlie dl Marx, solo una, Jenny, morì di morte naturale. Delle altre, Elenor si suicidò nel 1898 ingerendo acido prussico e Laura si tolse la vita col cianuro insieme al marito, il medico socialista Paul Lafargue, nel 1911. Così L’Humanité del 29 novembre 1911 salutava la scomparsa dei coniugi Lafargue: «Che bella morte! Questa fine appare fiera e magnifica com’e uno splendido tramonto del sole», (cit. in C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 161).
(79) Cfr. I. SAFAREVIC, op. cit., p. 353. Sono certamente significativi, a tale proposito, i dati sulla mortalità in URSS, il cui tasso relativo alla infanzia, per esempio, è in costante aumento ed è attualmente il doppio di quello americano; è invece in diminuzione la durata media della vita, e tale calo è particolarmente accentuato per gli uomini: la causa va ricercata soprattutto nella diffusione capillare dell’alcolismo, molto spesso unico sfogo nella giornata del «compagno Ivan» (cfr. MICHEL TATU, Russia: la via del sottosviluppo, in il Giornale nuovo, 1-11-1982).
(80) La sua lettera è riportata integralmente in il Manifesto, 9-1-1979.
(81) Cit. in NATALIA ASPESI, «Cari genitori, ecco perché oggi mi uccido», in la Repubblica, 10-1-1979.
(82) Parole pronunciate da Vittorio B., nel corso di una tavola rotonda riportata in Quotidiano dei lavoratori, 12-1- 1979.
(83) Chi parla è Dimitri, presentato come «militante della nuova sinistra», nel corso di una tavola rotonda organizzata e riportata da Il Sabato, anno II, n. 3, 20-1-1979, p. 9.
(84) il Manifesto, cit. La sottolineatura è mia.
(85) Confessione di Giorgio T., nella tavola rotonda del Quotidiano dei lavoratori, cit.
(86) Così Dimitri, in Il Sabato, cit., pp. 8-9.
(87) È ancora Vittorio B., in Quotidiano dei lavoratori, cit.
(88) Dimitri, in Il Sabato, cit., p. 9.
(89) Daniele P., in Quotidiano dei lavoratori, cit.
(90) Ibidem.
(91) Cfr. DIEGO GABUTTI, Dall’ideologia all’estasi, in il Giornale nuovo, 24-11-1982.
(92) Cfr., per un quadro introduttivo, FERDINANDO BELLONI FILIPPI e CELESTINO TESTORE, voce Buddhismo, in Enciclopedia Cattolica, vol. III, pp. 177-182.
(93) SAN TOMMASO DI AQUINO, Summa theologiae, I, q. 94, a. 1.
(94) IDEM, Summa contra Gentiles, 4, 92.
(95) Cfr. MARCEL DE CORTE, Fenomenologia dell’autodistruttore, trad. it., Borla, Torino 1967, p. 128.
(96) Cfr. BLAISE PASCAL, Pensieri, trad. it., Mondadori, Milano 1976, pp. 118-125.
(97) Cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Il secolo della guerra, della morte e del peccato, in Cristianità, anno VI, n. 37, maggio 1978.
(98) CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950), Einaudi, Torino 1962, p. 34.
(99) Ibid., p. 54.
(100) Cfr. E. DURKHEIM, op. cit., pagg. 192 e ss.
(101) Ibid., pp. 211 e 201.
(102) Ibid., pp. 257 e 251.
(103) Ibid., p. 458.
(104) Ibid., p. 445.
(105) Ibid., p. 315.
(106) Cfr. MURILLO M. GALLIEZ, Contraccezione: aborto ed eutanasia, in Cristianità, anno V, n. 24, aprile 1977. A chi fa notare la identità di logica tra aborto e suicidio, C. GUILLON risponde che «è proprio la stessa battaglia, la nostra morte ci appartiene, i nostri corpi ci appartengono!» (Vive la mort, cit.).
(107) M. DE CORTE, op. cit., p. 134.
(108) Cfr. ERIC VOÉGELIN, Il mito del mondo nuovo, Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., 2ª ed., Rusconi, Milano 1976, p. 49.
(109) Cfr. IDEM, La nuova scienza politica, trad. it., Borla, Torino 1968, p. 247.
(110) IDEM, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, trad. it., Astra, Roma 1980. p. 72: sul «divieto di fare domande», cfr. le illuminanti pagine che vi dedica lo stesso autore in Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, cit. pp. 87-94.
(111) JEAN PAUL SARTRE, L’Essere e il Nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, trad. it., Il Saggiatore, 6ª ed., Milano 1980, p. 86-114.
(112) Cit. in I. SAFAREVIC, op. cit., pp. 287-288. La sottolineatura è nel testo.
(113) Cfr. PAOLO VI, Allocuzione all’udienza generale, del 13-7-1969, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VII, p. 1013.
(114) M. DE CORTE, op. cit., p. 17; Gustave Thibon non cessa di ricordare la importanza della terra come «scuola di verità: al tempo stesso essa frena gli istinti di dissoluzione e favorisce la salute dell’anima e dei costumi; essa aiuta l’uomo ad essere sé stesso, difendendolo contro sè stesso» (G. THIBON, Ritorno al reale. Nuove diagnosi, trad. it., Volpe, Roma 1972, pp. 19-20). La carenza di prospettiva naturale si riscontra anche nell’ambito ecclesiale: è un elemento pressoché ignorato dalla recente catechesi, in contrasto con il peso che nell’insegnamento tradizionale avevano i preamboli della fede: cfr. sul punto la conferenza del card. JOSEPH RATZINGER, Trasmissione della fede e fonti della fede, in Cristianità, anno XI, n. 96, anrile 1983.
(115) G. THIBON, op. cit., p. 19.
(116) ALEKSANDR SXZENICYN, Un mondo in frantumi. Discorso di Harward, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1978, p. 20.
(117) M. DE CORTE, op. cit., p. 144.
(118) Cfr. E. VOEGELIN, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, cit., p. 64, nota 9.
(119) IDEM, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, cit., p. 113.
(120) M. DE CORTE, op. cit., p. 145.
(121) Cfr. E. VOEGELIN, op. cit., p. 118.
(122) KARL MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, cit. in FERNANW OCÁRIZ, Il marxismo ideologia della Rivoluzione, trad. it., Ares, Milano 1977, p. 78.
(123) Ibid., p. 80.
(124) Cit. in R. WURMBRAND, op. cit., p. 24.
(125) PHILIPPE ARIÉS, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1979, p. 673.
(126) Ibid., p. 16.
(127) Ibid., p. 684.
(128) NICOLA ABBAGNANO, Un divino pagliaccio, in il Giornale nuovo, 30-12-1982.
(129) Ibidem.
(130) Il Manifesto, cit.
(131) E. VOEGELIN, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, cit., p. 79.
(132) Quotidiano dei lavoratori, cit.
(133) M. DE CORTE, op. cit., p. 153.
(134) Così Bakunin e Necaev, cit. in I. SAFAREVIC, op. cit., p. 355.
(135) Tali parole, attribuite a Debord e a Sanguinetti, sono fatte proprie e condivise dagli autori della «guida al suicidio», cfr. C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 259.
(136) LUCIANO PELLICANI, Il pensiero totalitario è sempre mortale, in L’Espresso, cit., p. 11.
(137) SAN TOMMASO DI AQUINO, Summa contra Gentiles, 3, 30.
(138) Cfr. J. PIEPER, Sulla fine del tempo. Meditazioni filosofiche sulla storia, cit., p. 60.
(139) Cfr. E. BÜCHLI, art. cit., p. 43.
(140) C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 176.
(141) «Il Natale […] – scrive A. ALVAREZ (op. cit., p. 88) – in teoria è un’oasi di calore e di luce in una stagione ingrata […]; per coloro che ne sono esclusi esso accentua, come la primavera, la frattura tra il calore e la festosità pubblici e la propria gelida disperazione».
(142) GIACOMO LEOPARDI, II sabato del villaggio, in IDEM, Opere, a cura di Giuseppe De Robertis, I vol., Rizzoli, Milano 1964, p. 215.
(143) Cfr. P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it., accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 189-195.
(144) Cfr. EMANUELE SAMEK LODOVICI, Mefamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1979, p. 181.
(145) GIOVANNI PAOLO II, Omelia alla udienza giubilare, del 17-4-1983, in L’Osservatore Romano, 28-4-1983.
(146) Ibidem.
(147) Ibidem.
(148) Ibidem.
(149) I Fioretti di San Francesco, con prefazione e note di p. Luciano Canonici O.F.M., Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli (Assisi) 1977, p. 39.
(150) Cfr. Gen. 1, 25; Mc. 7, 15.
(151) Cfr. J. PIEPER, Sulla fortezza, cit., p. 25.
(152) Cfr. GIANCARLO SANSONI (a cura di), Quando il paziente è consapevole, in il Giornale, 5-2-1983.
(153) Prof. MARIO TIENGO, Anche per la sofferenza esiste una scatola nera, in il Giornale, 5-2-1983.
(154) Così JEAN PAUL SARTRE, in GAVI, SARTRE e VICTOR, On a raison de se révolter, Gallimard, Parigi 1974, p. 183.
(155) C. PAVESE, op. cit., p. 197.
(156) Ibid., p. 80.
(157) Così Paul Rubin, cit. in C. GUILLON e Y. LE BONNIEC, op. cit., p. 267.
(158) E. DURKHEIM, op. cit., p. 454.
(159) Cfr. Imitazione di Cristo, libro II, cap. XII.