Giovanni Cantoni, Cristianità n. 162 (1988)
Il messaggio del discorso pontificio dell’11 ottobre 1988: una perorazione argomentata per il presente e per il futuro dell’Europa alla luce dei principi della dottrina sociale naturale e cristiana e dell’esperienza storica.
Per una lettura integrale
Papa Giovanni Paolo II a Strasburgo: religione e libertà
Martedì 11 ottobre 1988, nel corso del suo quarto pellegrinaggio apostolico in terra di Francia, il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ha rivolto un importante discorso ai membri del Parlamento Europeo riuniti nel Palazzo d’Europa a Strasburgo (1). L’intervento ha giustamente avuto vasta eco e merita di essere letto con attenzione non soltanto per il suo oggettivo valore — legato alla rilevanza straordinaria che il tema dell’Europa ha nel Magistero del regnante Pontefice e in quello dei suoi predecessori (2) —, ma anche per mostrare a chiare lettere l’infondatezza di interpretazioni diffuse a caldo dai mass media e che sembrano avere quasi conseguito statuto di ufficialità. In sostanza, infatti, il documento viene ridotto pressoché esclusivamente alla denuncia de «l’integralismo religioso», cui ciascuno finisce per attribuire il significato che più gli aggrada e che meglio serve la sua parte, e viene indicato come segno di una svolta del pontificato verso orizzonti liberali se non addirittura liberal!
Che cosa ha realmente detto, dunque, il Santo Padre?
Prendendo in considerazione principalmente le parti storico-dottrinali dell’intervento, ha rilievo di premessa la descrizione del quadro di fondo su cui le diverse considerazioni vengono a disporsi: «Da quando, sul suolo europeo, si sono sviluppate, nell’epoca moderna, le correnti di pensiero che hanno a poco a poco eliminato Dio dalla comprensione del mondo e dell’uomo, due visioni opposte alimentano una tensione costante fra il punto di vista dei credenti e quello dei sostenitori di un umanesimo agnostico e talora anche “ateo”» (n. 7).
Al riconoscimento di questa tensione epocale fa immediatamente seguito la descrizione dei punti di vista che la provocano, partendo da quello dei credenti, i quali «pensano che l’ubbidienza a Dio è la fonte della vera libertà, che non è mai libertà arbitraria e senza scopo, ma libertà per la verità e per il bene, dal momento che queste due grandezze si situano sempre oltre la capacità degli uomini di impadronirsene completamente. Sul piano etico, questo atteggiamento di fondo si traduce nell’accettazione di principi e di norme di comportamento che si impongono alla ragione o che derivano dall’autorità della Parola di Dio, di cui l’uomo, individualmente o collettivamente, non può disporre a suo piacimento, a seconda delle mode o dei suoi mutevoli interessi» (n. 7). Dopo la descrizione del punto di vista dei credenti segue l’esposizione del punto di vista dei sostenitori del «moderno processo di liberazione» (3), il cui «atteggiamento è quello che, avendo soppresso ogni subordinazione della creatura a Dio, o a un ordine trascendente della verità e del bene, considera l’uomo in sé stesso come il principio e il fine di tutte le cose, e la società, con le sue leggi, le sue norme, le sue realizzazioni, come opera sua assolutamente sovrana. Allora l’etica ha come unico fondamento il consenso sociale, e la libertà individuale come unico freno quello che la società ritiene di dover imporre per salvaguardare quella altrui» (n. 8).
Fra ritorno all’«ordine antico» e soppressione della religione
Sbozzato, nelle sue grandi linee, questo quadro di fondo relativamente al tema di genere costituito dalla libertà umana in relazione a Dio, il Papa passa a riferirsi alla libertà civile e politica, che della prima è traduzione sul piano dei rapporti sociali. Al riguardo nota come «presso alcuni, la libertà civile e politica, conquistata a suo tempo con un rovesciamento dell’ordine antico fondato sulla fede religiosa, è ancora concepita come procedente di pari passo con l’emarginazione, addirittura con la soppressione della religione, nella quale si tende a vedere un sistema di alienazione» (n. 8): di questo atteggiamento dichiara evidentemente che non porta «una soluzione compatibile con il messaggio cristiano e con il genio dell’Europa» (n. 8 ) al problema costituito dalla descritta «tensione costante fra il punto di vista dei credenti e quello dei sostenitori di un umanesimo agnostico e talora anche “ateo”» (n. 7), dal momento che tale tensione viene espressa nella falsa alternativa «libertà o religione» e che il suo venir meno è programmaticamente identificato con la soppressione del termine «religione».
Ma «soluzione compatibile con il messaggio cristiano e con il genio dell’Europa» (n. 8) non portano neppure «alcuni credenti» che — di fronte al contrasto insanabile fra la religione e la libertà civile e politica nata da «un rovesciamento dell’ordine antico, fondato sulla fede religiosa […] [e] ancora concepita come procedente di pari passo con l’emarginazione, addirittura con la soppressione della religione» (n. 8 ) — pensano che «una vita conforme alla fede sarebbe possibile soltanto con un ritorno a quest’ordine antico, peraltro spesso idealizzato» (n. 8).
Qual è’il difetto di questa seconda ipotesi di soluzione della tensione, costituita semplicemente dal ritorno all’«ordine antico»? Il Sommo Pontefice non svolge il ragionamento in relazione a tale «ordine antico» e alla qualità della libertà civile e politica in esso vigente (4), ma — attento al presente — si limita a notare come la sua idealizzazione faccia dimenticare ad «alcuni credenti» che «nei secoli di “cristianità» è stato «spesso perso di vista» «il principio […] che regge nel modo più fondamentale la […] vita pubblica: intendo riferirmi — dice — al principio proclamato per la prima volta da Cristo, della distinzione di “ciò che è di Cesare” e di “ciò che è di Dio” (cf: Mt 22,21)» (n.9); e come l’averlo «perso di vista» ha fatto sì, per esempio, che «la cristianità latina medioevale […] non è sempre sfuggita alla tentazione integralista di escludere dalla comunità temporale quanti non professavano la vera fede» (n.10) (5), dal momento che «l’integralismo religioso» è appunto l’atteggiamento «che non distingue fra la sfera della fede e quella della vita civile» (n. 10). Perciò, idealizzare l’«ordine antico» senza tenere adeguatamente presenti le tentazioni alle quali ha talora ceduto, può significare trasformare il fatto, e non sempre il meno imperfetto, in principio, accettando la trascrizione della tensione nella non meno falsa alternativa «religione o libertà» e auspicando, se non l’eliminazione del termine «libertà», un certo suo riassorbimento nella religione, cioè — per esempio e in considerazione della struttura della Chiesa cattolica — non tanto una generica teocrazia quanto una ierocrazia. In questa prospettiva, appare chiaro perché «l’integralismo religioso, che non distingue fra la sfera della fede e quella della vita civile, oggi ancora praticato sotto altri cieli, sembra incompatibile con il genio specifico dell’Europa come è stato formato dal messaggio cristiano» (n. 10).
A questo punto della riflessione, viene da chiedersi se la tensione esistente e descritta sia semplicemente frutto di una situazione storica — verificatasi «sul suolo europeo […] nell’epoca moderna» (n. 7 ) — oppure abbia un fondamento più profondo e meno databile e, quindi, quale ne sia la soluzione ideale corretta, che si deve tentare di tradurre in pratica.
Quanto al primo punto, nel discorso si nota come «la distinzione essenziale fra la sfera dell’organizzazione del quadro esteriore della città terrena e quella dell’autonomia delle persone si illumina a partire dalla natura rispettiva della comunità politica a cui appartengono necessariamente tutti i cittadini e della comunità religiosa a cui aderiscono liberamente i credenti» (n. 9): cioè, siccome essere cittadini di uno Stato è di necessità, essere membri di una nazione è di destino, ma essere membri del corpo mistico del Signore Gesù è di libertà, anche se sollecitata e sostenuta dalla grazia, il contrasto storico è semplice trascrizione fattuale di una tensione tipica, negata come tale solo all’interno di una prospettiva di coincidenza fra la struttura religiosa e quella politica oppure di un fenomeno religioso di carattere etnico.
Sulla base di questa premessa acquista significato programmatico — come conseguenza di quanto richiamato — l’affermazione secondo cui «quando regna la libertà civile e si trova pienamente garantita la libertà religiosa, la fede può soltanto rinvigorirsi raccogliendo la sfida che le pone la non credenza, e l’ateismo può solamente riconoscere i propri limiti davanti alla sfida che gli pone la fede» (n.8). E questa affermazione va a costituire presupposto la cui traduzione positiva prevede che, «di fronte a questa diversità di punti di vista [che fonda la tensione in esame], la funzione più elevata della legge sta nel garantire allo stesso modo a tutti i cittadini il diritto di vivere in accordo con la loro coscienza e di non contraddire le norme dell’ordine morale naturale riconosciute dalla ragione» (n.8).
Condanna dei messianismi politici
Proseguendo nel suo argomentare, il Santo Padre — dopo aver richiamato la distinzione, proclamata da Cristo, fra «ciò che è di Cesare» e «ciò che è di Dio» — nota che, appunto «dopo Cristo, non è più possibile idolatrare la società come grandezza collettiva divoratrice della persona umana e del suo destino irriducibile. La società, lo Stato, il potere politico appartengono al quadro mutevole e sempre perfettibile di questo mondo. Nessun progetto di società potrà mai instaurare il Regno di Dio, cioè la perfezione escatologica, sulla terra. I messianismi politici sfociano molto spesso nelle tirannidi peggiori. Le strutture che le società si danno non hanno mai valore definitivo; né possono procurare da sé sole tutti i beni ai quali l’uomo aspira. In modo particolare, non si possono sostituire alla coscienza dell’uomo né alla sua ricerca della verità e dell’assoluto» (n. 9).
Da questo punto di vista importa ricordare che non è l’uomo per la società, ma la società per l’uomo, con un rapporto di interazione fra i due termini, sì che — per esempio — «la vita pubblica, il buon ordine dello Stato riposano sulla virtù dei cittadini, che invita a subordinare gli interessi individuali al bene comune, a darsi e a riconoscere come legge soltanto ciò che è oggettivamente giusto e buono» (n. 9). In proposito, il Sommo Pontefice nota come «già gli antichi greci avevano scoperto che non vi è democrazia senza assoggettamento di tutti alla legge, e che non vi è legge non fondata su una norma trascendente del vero e del giusto» (n. 9).
Perciò, «dire che spetta alla comunità religiosa, e non allo Stato, la gestione di “ciò che è di Dio’’, equivale a porre un limite salutare al potere degli uomini, e questo limite è quello della sfera della coscienza, dei fini ultimi, del senso ultimo dell’esistenza, dell’apertura sull’assoluto, della tensione verso un compimento mai raggiunto, che stimola gli sforzi e ispira le scelte giuste. Tutte le correnti di pensiero del nostro vecchio continente dovrebbero riflettere a quali oscure prospettive potrebbe portare l’esclusione di Dio dalla vita pubblica, di Dio come ultima istanza dell’etica e come garanzia somma contro tutti gli abusi del potere dell’uomo sull’uomo» (n. 9). Questa riflessione si rivela tanto più importante e tanto più urgente per il fatto che — se «la nostra storia europea mostra abbondantemente quanto spesso la frontiera fra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di Dio” è stata oltrepassata nei due sensi» (n. 10) — non dall’«integralismo religioso» — né, per esempio, da quello strutturale islamico (6), né da quello episodico cristiano — «ma da altrove sono venute, nel nostro tempo, le maggiori minacce, quando delle ideologie hanno assolutizzato la stessa società oppure un gruppo dominante, senza curarsi della persona umana e della sua libertà» (n. 10).
Ciò premesso, «a questo punto — dice il Papa —, mi sembra importante ricordare che l’Europa moderna ha ricavato il principio» della «distinzione essenziale fra la sfera dell’organizzazione del quadro esteriore della città terrena e quella dell’autonomia delle persone» «dall’humus del cristianesimo» (n. 9), e che la stessa «cristianità latina medioevale […] ha teoricamente elaborato, riprendendo la grande tradizione di Aristotele, la concezione naturale dello Stato» (n. 10), sulla cui base sicura si può affermare che «là dove l’uomo non si appoggia più su di una grandezza che lo trascende, rischia di abbandonarsi al potere sfrenato dell’arbitrio e degli pseudo-assoluti che lo distruggono» (n. 10).
Comunità religiosa e comunità politica: separazione o distinzione?
Dunque, se costituisce un rischio enorme non tenere conto della «distinzione essenziale fra la sfera dell’organizzazione del quadro esteriore della città terrena e quella dell’autonomia delle persone» (n. 9), cioè non distinguere fra la comunità politica e quella religiosa, rischio ancora maggiore deriva dall’assolutizzazione della comunità politica affidata al potere sfrenato dell’arbitrio — anche se, eventualmente, sostenuto dal consenso sociale — o dominata da pseudo-assoluti. Perciò, se si deve tenere accuratamente conto di tale distinzione essenziale, bisogna ugualmente e altrettanto accuratamente guardarsi dal portare tale distinzione al limite della separazione: infatti, «fra poco da due millenni — nota il Sommo Pontefice —, l’Europa offre un esempio molto significativo della fecondità culturale del cristianesimo che, di sua natura, non può essere relegato nella sfera privata. Il cristianesimo, infatti, ha una vocazione di professione pubblica e di presenza attiva in tutti i campi della vita. Devo anche sottolineare con forza che se il sostrato religioso e cristiano di questo continente dovesse essere emarginato nel suo ruolo di ispiratore etico e nella sua efficacia sociale, non sarebbe solamente negata tutta l’eredità del passato europeo, ma sarebbe gravemente compromesso anche un avvenire degno dell’uomo europeo, parlo di ogni uomo europeo, credente o non credente» (n. 11), precisa, così — fra l’altro — impedendo all’Europa di «riprendere un ruolo di faro nella civiltà mondiale» (n. 12).
E, in prospettiva, il Santo Padre auspica che — grazie anche all’opera dei credenti e alla pacifica accettazione della Chiesa e del suo Magistero — si venga a costituire un’Europa come esito «del libero associarsi di tutti i suoi popoli e della messa in comune delle molteplici ricchezze della sua diversità» (n. 4); una realtà diversa da uno di quegli «imperi del passato […], che tentavano di fondare il loro predominio sulla forza di coercizione e sulla politica di assimilazione» e che quindi «hanno tutti fallito» (n. 4); una realtà che, «dandosi sovranamente libere istituzioni, possa un giorno dispiegarsi secondo le dimensioni che a essa hanno dato la geografia e più ancora la storia» (n. 5), e che possa accogliere anche «altre nazioni», in conformità con «le aspirazioni dei popoli slavi, l’altro “polmone” della nostra stessa patria europea»: «Come potrei non auspicarlo — dice il Sommo Pontefice — dal momento che la cultura ispirata dalla fede cristiana ha profondamente segnato la storia di tutti i popoli della nostra unica Europa, greci e latini, germanici e slavi, malgrado tutte le vicissitudini e oltre i sistemi sociali e le ideologie?» (n. 5).
Perciò, siccome la Chiesa non si può «disinteressare dell’Europa, essa che si è radicata da secoli nei popoli che la compongono e che un giorno li ha portati ai fonti battesimali, popoli per i quali la fede cristiana è e resta uno degli elementi della loro identità culturale» (n. 2), il Papa conclude raccomandando che venga svolto «il compito di conservare e di sviluppare i valori umani — culturali e spirituali — che formano l’eredità dell’Europa e che costituiranno la salvaguardia migliore della sua identità, della sua libertà e del suo progresso» (n. 12), procedendo quindi — e su questa base — alla riconciliazione dell’uomo con la creazione, con i suoi simili e con sé stesso, a vantaggio dell’Europa medesima e del mondo intero.
Le tesi fondamentali
Dunque, in termini inequivoci, il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, parlando ai parlamentari europei, ha ricordato concetti fondamentali, che tento di riassumere in qualche tesi.
1. Sul suolo europeo, a partire dall’inizio dell’epoca moderna, si manifesta un grave contrasto fra i credenti e i sostenitori della specificità di tale epoca moderna, cioè della «modernità», a proposito del rapporto fra la religione e la libertà, contrasto che non può trovare soluzione in un compromesso dottrinale, sì che la convivenza fra gli eredi della Cristianità e quelli del moderno processo di liberazione — consapevoli o inconsapevoli che siano — è decisamente difficile.
2. Questo contrasto storico, quando si cala nella vita civile, deve essere composto — nel senso che ne deve essere tentata una composizione —, e però essa non sta certamente nella eliminazione dei credenti — come pensa qualcuno — né — se vi è chi lo pensa non semplicemente argumentandi gratia — nell’espulsione dei non credenti dall’Europa cristiana.
3. Tale soluzione deve piuttosto essere ricercata a partire dalla stesura di un bilancio della storia europea prima, e mondiale poi, con conseguente presa d’atto delle tragedie prodotte dalla scristianizzazione dell’Europa, non soltanto per i cristiani europei, ma per tutti gli europei, credenti e non credenti, e non solo per l’Europa, ma per il mondo intero.
4. Quindi, i credenti devono ricordare che non basta il ritorno puro e semplice all’ordine antico, a causa di storici difetti, che rivelano come non abbia resistito adeguatamente a tentazioni, per cui, in analogia con quanto si deve praticare nella vita spirituale individuale, importa riaffermare i principi e ritornare a essi, formulando propositi — cioè programmi e progetti — con essi coerenti. Perciò, se la necessità della convivenza fra credenti e non credenti si rivela come inevitabile a fronte del riconoscimento della libertà dell’atto di fede, i credenti devono fare propri l’impegno e la responsabilità della massima promozione dell’influenza pubblica del cristianesimo — una promozione evidentemente integrale quanto alla dottrina ma non meno integrale quanto ai campi di intervento —, operando nella prospettiva del coordinamento e non dell’alternativa fra la religione e la «vera libertà, che non è mai libertà arbitraria e senza scopo» e che prevede l’«accettazione di principi e di norme di comportamento che si impongono alla ragione» (n. 7), non può cioè assolutamente «contraddire le norme dell’ordine morale naturale riconosciute dalla ragione» (n. 8) stessa.
5. Infine, i sostenitori della «modernità» non devono dimenticare che il fondamento vero della libertà civile e politica e, quindi, di quella religiosa, si trova esclusivamente nelle norme dell’ordine morale naturale riconosciute dalla ragione, e non nell’eliminazione di Dio dalla comprensione del mondo e dell’uomo, come pure della società, per cui si possa teorizzare un ipotetico rapporto «tanto maggiore libertà quanto minore religione», con la conseguente «soluzione finale» all’orizzonte. Per loro si impone — dunque — la riscoperta della ragione atta a riconoscere tale ordine morale naturale e capace di valutare il beneficio a esso portato dalla Rivelazione, per esempio con la dottrina della distinzione dei due poteri (7).
Poiché non mancano — accanto ai sostenitori della «modernità» — credenti «modernizzanti», per loro vale la precisazione che l’ordine morale naturale in questione non può essere quello proposto dal moderno processo di liberazione, dal momento che appunto i suoi effetti hanno alimentato l’attuale stato di tensione e prodotto conseguenze tali da indurre la Chiesa cattolica a promuovere una nuova implantatio evangelica anche sul suolo europeo, cioè a procedere a una seconda evangelizzazione, che sarebbe chiaramente inutile se la libertà religiosa e la libertà civile e politica richiamate dal Santo Padre come feconde di un regresso dell’ateismo fossero quelle vigenti nei moderni Stati europei, dal momento che di essi è soprattutto questione nel documento in esame.
L’infondatezza di alcune interpretazioni
Se non ho letto male il discorso pontificio — del quale ho almeno trascritte pressoché tutte le parti storico-dottrinali — non vedo dove trovino fondamento le interpretazioni che ne vengono date. Infatti, se è vero che il Santo Padre stigmatizza l’integralismo religioso, non lo abbandona a ogni possibile esegesi, ma lo definisce come non distinzione fra la sfera della fede e quella della vita civile, cioè come un genus che — se ha trovato qualche storica incarnazione nel passato europeo — non è certo di facile reperimento nell’Europa contemporanea, e che, attualmente, richiede di essere ricercato piuttosto nel mondo islamico, anche se non solo in esso. Ma questa condanna dell’integralismo religioso non va certo a costituire rovesciamento della tesi secondo cui uno dei più gravi errori del nostro tempo è costituito dalla separazione fra la fede e la vita (8).
E allora? E allora, niente di più ovvio e di più consueto: non si devono confondere la sfera della fede e quella della vita — come fanno i musulmani, ma anche gli adepti della «teologia della liberazione» di stampo marxista (9) — ma neppure separarle, bensì promuovere e verificare continuamente il loro rapporto, senza il quale patiscono danno non solo i credenti ma gli stessi non credenti, non solo l’Europa ma il mondo intero, nei confronti del quale l’Europa ha esercitato un ruolo di faro che deve riprendere. Dov’è il contrasto — indicato da qualcuno (10) — con il discorso tenuto dallo stesso Sommo Pontefice a Spira, il 4 maggio 1987, in occasione del suo secondo pellegrinaggio apostolico nella Repubblica Federale di Germania (11)? Nessuno, se non si vuole chiamare contrasto quella che è semplice differenza, costituita dalla diversità dei destinatari, il popolo cattolico europeo a Spira e i parlamentari europei a Strasburgo, e se si tiene conto che entrambi gli interventi non sono trattati di diritto pubblico né civile né ecclesiastico. Ma tant’è! Infatti non è mancato chi — ascoltando a suo modo la presentazione che il card. Joseph Ratzinger ha fatto della lettera apostolica Mulieris dignitatem, il 30 settembre 1988 — ha interpretato come indizio di mutamenti all’orizzonte l’affermazione secondo cui «Il Papa non è per nulla un monarca assoluto, la cui volontà abbia valore di legge», dimenticando che, immediatamente di seguito, si dice: «Egli è la voce della Tradizione; e solo a partire da essa si fonda la sua autorità» (12). E questi sono i termini, provati ormai da quasi duemila anni: la Chiesa fondata dal Signore Gesù non è una «monarchia assoluta», ma neppure — come forse qualcuno gradirebbe — una «repubblica», bensì un’autentica «monarchia tradizionale», dove l’autorità è «limitata» dalla verità di Dio e dal servizio dei suoi servi.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del Parlamento Europeo a Strasburgo, dell’11-10-1988, in supplemento a L’Osservatore Romano, 11-10-1988, pp. XIX-XX. Tutte le citazioni senza diverso riferimento sono tratte da questo documento, del quale mi limito a indicare i paragrafi, e la cui traduzione dal francese è mia.
(2) Cfr. L’Europe unie dans l’enseignement des Papes, a cura dei monaci di Solesmes, Solesmes, Sablé sur Sarthe 1981; I Papi e l’Europa. Documenti (Pio XII – Giovanni XXIII – Paolo VI), a cura di don Pietro Conte, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1978; Il futuro dell’Europa. Atti del III Convegno sul Magistero Pontificio. Milano 12 novembre 1983, supplemento a la traccia. l’insegnamento di Giovanni Paolo II, anno V, n. 3, 15-4-1984; e JUAN VALLET DE GOYTISOLO, Europa desde la perspectiva de Juan Pablo II, in Verbo, serie XXVI, n. 257-258, luglio-agosto-settembre 1987, pp. 901-954.
(3) Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su libertà cristiana e liberazione «Libertatis conscientia», del 22-3-1986, in cui si descrive appunto il «moderno processo di liberazione» (nn. 5-19), e si denuncia il fatto che è «contagiato da errori mortali circa la condizione dell‘uomo e della sua libertà» (n. 19), quindi connotato da una «mortale ambiguità» (n. 20). Questa nozione storica richiama quella di «Rivoluzione» nel pensiero cattolico contro-rivoluzionario, per la cui esposizione sintetica cfr. PLINIO CORREA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
(4) Poiché — con ampia verosimiglianza — il palinsesto di molte tesi del discorso pontificio si può trovare negli scritti di argomento politico ed europeo raccolti nei volume del CARD. JOSEPH RATZINGER, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia (trad. it., Edizioni Paoline. Cinisello Balsamo [Milano] 1987), mi pare importante citare quanto vi si dice relativamente all’opera svolta dall’illuminismo, una delle tappe del moderno processo di liberazione, quando «cercò di affrontare […] la dimensione sociale della libertà. Giacché le tradizioni, dalle quali la ragione si era emancipata, erano state appunto anche ordini e regole inseriti nella comunità degli uomini: sulla loro tenuta si fondava il gioco d’insieme degli individui nell’organismo del corpo sociale. Esse prescrivevano i ruoli in cui l’esistenza umana poteva essere spiegata e vissuta. L’idea di fondo dell’Illuminismo era, al riguardo, molto semplice. Al posto delle regole sociali ereditate subentra l’intelligenza: la società nuova sarà una società ragionevole.
«Ma naturalmente fu chiaro al tempo stesso che non tutti erano già arrivati allo stadio della ragionevolezza. Così il monarca illuminato fa sua la signoria della ragione e considera se stesso, in tutto ciò, come organo della libertà, anche se, a tutta prima, deve promuovere i suoi fini con la costrizione. Qui si verifica una situazione paradossale. Proprio l’illuminismo ha messo da parte le antiche libertà delle molteplici forme organizzative della società antica con i loro diritti particolari e si è sentito, in questa distruzione di libertà ereditate, come l’esecutore di una migliore libertà, offerta da un’intelligenza superiore. La strana ambiguità di ogni fenomeno di libertà, che doveva più volte manifestarsi nel corso seguente della storia, si manifesta qui una prima volta con chiarezza» (pp. 176-177).
(5) Il testo in francese in cui viene espresso il giudizio storico suona: «La chrétienté latine médiévale […] n’a pas toujours échappé à la tentation intégraliste d’exclure de la communauté temporelle ceux qui ne professaient pas la vraie fai». Si tratta quasi certamente dell’eco di un passo di JACQUES MARITAIN, Umanesimo integrale (trad. it., Borla, Roma 1980), in cui il filosofo francese nega, peraltro, che questa «tentazione» abbia «mai imposto la sua forma alla cristianità medievale» (p. 148). Purtroppo la traduzione in italiano del discorso pontificio, proposta in L’Osservatore Romano, 12-10-1988, recita: «La cristianità latina medievale […] non è mai sfuggita alla tentazione integralista di escludere dalla comunità temporale coloro che non professavano la vera fede». E a tutt’oggi — che io sappia — nessuno ha segnalato che «toujours» non significa «mai», così l’errore corre di citazione in citazione.
(6) Cfr. Islam din al-dawla. L’islam religion de l’Etat, Études Arabes. Dossiers, n. 72, 1987-I, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma, con testi costituzionali di paese islamici, documenti ideologici di riferimento, bibliografia sommaria e una tavola con le caratteristiche essenziali di un regime islamico relativa a diciannove Stati contemporanei.
(7) I riferimenti del discorso agli antichi greci, alla grande tradizione di Aristotele, alla concezione naturale dello Stato, a una norma trascendente del vero e del giusto, al bene comune, alla legge come espressione di ciò che è oggettivamente giusto e buono nonché, finalmente, alle norme dell’ordine morale naturale riconosciute dalla ragione, che non è evidentemente la raison e che quindi denuncia l’ambiguità dell’illuminismo e del razionalismo (cfr. CARD. J. RATZINGER, op. cit., p. 217), mi ricordano un testo non certo à la page nella cultura dei nostri giorni, e cioè Mes idées politiques, di Charles Maurras, e in modo particolare il suo avant propos del 1937, intitolato La politique naturelle (cfr. CHARLES MAURRAS, Mes idées politiques, a cura di Pierre Chardon e con una prefazione di Pierre Gaxotte, dell’Académie Francaise, Fayard, Parigi 1968, pp. 15-83; dell’opera esiste una traduzione in italiano del 1969 per i tipi di Giovanni Volpe Editore, che purtroppo lascia gravemente a desiderare e proprio la premessa cui faccio riferimento riesce talora incomprensibile appunto per trascuratezza redazionale). E mi chiedo se non acquisti un senso imprevisto e imprevedibile il noto episodio — uno dei più cari all’agiografia maurrassiana — che riferisce come san Pio X abbia assicurato alla madre del pensatore e uomo politico francese che la sua opera avrebbe avuto esito (cfr. PIERRE BOUTANG, Maurras. La destinée et l’ouvre, Plon, Parigi 1984, p. 362). Oltre Ch. Maurras, poi, si profila Dante Alighieri…
(8) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 43; nonché GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al secondo convegno della Chiesa italiana sul tema: Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto, dell’11-4-1985, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VIII, I, pp. 989-1005; e il mio Cattolici in Italia dopo Loreto, in Cristianità, anno XIII, n. 121, maggio 1985.
(9) Cfr. il mio La «rivalutazione» della dottrina sociale della Chiesa, in Cristianità, anno XIV, n. 133, maggio 1986.
(10) Cfr. DOMENICO DEL RIO, La rivoluzione di Wojtyla. Da Strasburgo no all’integralismo, in la Repubblica, 12-10-1988.
(11) cfr. GIOVANNI PAOLO II, Omelia nella piazza antistante il duomo di Spira, del 4-5-1987, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 2, pp. 1593-1602, trad. it. con il titolo La costruzione di un’Europa cristiana, in Cristianità, anno XV, n. 146-147, giugno-luglio 1987.
(12) cfr. D. DEL RIO, art. cit.; e CARD. J. RATZINGER, La donna-custode dell’essere umano, in questo stesso numero di Cristianità.