Daniele Fazio, Cristianità n. 397 (2019)
Agostino Marchetto, Cum Petro et sub Petro. Riforme ecclesiali per la missione, ChoraBooks, Hong Kong 2019, pp. 135, € 14,55.
Mons. Agostino Marchetto, vicentino di nascita, sacerdote dal 1964, arcivescovo titolare di Astigi, nunzio apostolico, ha svolto un’intensa carriera diplomatica al servizio della Santa Sede. Nominato da Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale dei Migranti e gli Itineranti, al compimento dei settant’anni si è ritirato dall’incarico per dedicarsi in maniera quasi esclusiva agli studi sul Concilio Vaticano II (1962-1965), peraltro già iniziati in anni precedenti. Nei primi anni di attività la sua ricerca storico-teologica era soprattutto dedicata ai secoli medioevali. La svolta avvenne negli anni 1990 «[…] con passaggio alla storia contemporanea, e più concretamente al Concilio Ecumenico Vaticano II. Non ero il primo a fare questo salto e non sarò di certo l’ultimo, ma esso mi fu imposto, posso dire proprio così, dal mio Professore alla Università Lateranense Mons. Michele Maccarone [1910-1993]» (p. 98).
Papa Francesco in occasione della presentazione del volume Primato pontificio ed episcopato. Dal primo millennio al Concilio ecumenico Vaticano II. Studi in onore dell’arcivescovo Agostino Marchetto, curato da Jean Ehret ed edito dalla Libreria Editrice Vaticana, in una Lettera all’arcivescovo, del 7 ottobre 2013, ha scritto: «Una volta Le ho detto, caro Mons. Marchetto, e oggi desidero ripeterlo, che La considero il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II. So che è un dono di Dio, ma so anche che Ella lo ha fatto fruttificare» (cfr. Francesco, Mons. Agostino Marchetto, «il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II», in Cristianità, n. 371, anno XLII, gennaio-marzo 2014, p. 67). Questa ermeneutica del Concilio è proprio quella che Papa Benedetto XVI (2005-2013) ha definitivamente voluto indicare quale «ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa» nel Discorso alla Curia romana per lo scambio degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2005.
Nel presente testo, che raccoglie una sintesi di diversi interventi, l’autore ancora una volta applica questo criterio interpretativo accostando, soprattutto nei primi capitoli, il plesso teologico primato-collegialità (sinodalità) e tenendo presente da un lato la spinta riformatrice sempre presente nel corpo ecclesiale e dall’altro lato l’ottica missionaria che è la finalità cui tende la Chiesa nella storia. Nella prefazione il presule avverte che il testo vuole essere «un agile volume, di sei capitoli ma che riesca a dare una visione storica d’insieme e a far capire che la Chiesa, oltre che fedeltà, è anche continuamente legittima riforma organica e omogenea e rinnovamento, guardando la “Sitz im Leben”, cioè la situazione in cui si vive, in legittima evoluzione, tenendo in conto, alla luce del Vangelo, il corso della storia» (p. 3).
Il primo capitolo, Impronte riformatrici nella storia ecclesiale, restituisce una sintesi di un più vasto intervento che l’autore ha tenuto in occasione del convegno svoltosi all’Università Urbaniana, il 14 febbraio 2018, e che sarà integralmente pubblicato nei successivi atti. In questo ambito, mons. Marchetto si occupa di analizzare le più importanti riforme avvenute nel corso della storia della Chiesa, scorte dalla visuale che riguarda il rapporto fra Papato ed episcopato. Durante il primo millennio — e soprattutto in età carolingia — emerge la riforma pseudo-isidoriana. Con essa il ruolo del papato diventa protettivo nei confronti dell’episcopato, perché i vescovi possano svolgere — al di sopra delle ingerenze temporali — il loro ruolo di pastori della Chiesa. «Lo Ps. Isidoro con la riforma vuole proteggere e difendere i Vescovi, anche per mezzo dell’autorità del Papa» e ciò «appare dunque dedotto dai fatti storici e dai testi considerati, ma è pure in armonia con le stesse parole che il falsificatore trasmette, in cui egli svela il fine dell’opera. Infatti la coscienza che lo Ps. Isidoro trasmette ai presunti Papi delle sue decretali, circa il loro dovere di difendere i Vescovi contro gli oppressori, è manifestata spesse volte nel corpus delle false decretali e non rimane solo nel campo dell’affermazione generica di libertà di cui devono godere» (pp. 8-9).
A seguire vi è la riforma gregoriana, operata da Papa san Gregorio VII (1073-1085), che si oppose all’Impero in nome della libertas Ecclesiae. Nell’ottica del processo riformatore emerge l’idea che solo un potere centrale e una potestas piena quale quella del Pontefice possano guidare il cammino della riforma; ciò evidentemente deve trovare l’appoggio dell’episcopato nella condivisione della sollecitudine di Papa e vescovi per tutta la Chiesa. I testi pseudo-isidoriani, allora, verranno in tale contesto utilizzati, più che come impegno del Papato a preservare l’azione dei vescovi, come «mezzo e strumento efficace per la necessaria centralizzazione in vista della “riforma”» (p. 11). Il Concilio di Trento (1545-1563) punta su due pilastri per realizzare la riforma interna alla Chiesa: il ruolo del vescovo all’interno delle diocesi e quello dei parroci nelle parrocchie. In tale assise, fa notare mons. Marchetto, emerge in maniera esplicita l’unità fra l’episcopato e il Papato, quindi un’armonizzazione e non un livellamento fra primato e collegialità: «L’opera del Concilio tridentino forma dunque un’unità indivisibile […]. Gli stessi Padri conciliari avevano consegnato tutta la loro opera al Pontefice romano per l’approvazione e la conferma» (p. 13).
Con il Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870) — che ha dovuto chiudere repentinamente i lavori a causa della Presa di Roma nel 1870 — si punta all’enucleazione della funzione del Papato e tuttavia «la potestà dei Vescovi non è né eliminata né diminuita dalla potestà primaziale del Romano Pontefice perché egli interviene solo in peculiaribus adiunctis, quando lo richieda il bene della Chiesa, sia particolare che universale» (p. 15). L’autorità dei vescovi nella sua declinazione giurisdizionale, su cui il Concilio di Trento non si era espresso, viene certamente conferita dal Papa, ma ciò non nega l’episcopato in quanto istituzione direttamente divina. La riforma-rinnovamento del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), rispetto a questo argomento, riequilibra l’accento sul primato del precedente concilio. In tale contesto mons. Marchetto ribadisce energicamente, però, che il termine «rivoluzione» utilizzato nel poderoso volume — preso come obbiettivo polemico — La riforma e le riforme nella Chiesa, curato da Antonio Spadaro S.J. e Carlos Maria Galli (Queriniana, Brescia 2016), si oppone «[…] ad uno sviluppo non solo organico […] ma omogeneo. Del resto Papa Francesco applica il termine “rivoluzione” all’evento fontale del cristianesimo, il Signore Gesù e il suo Evangelo. Altrimenti si corre il rischio di precipitare in quel vortice della rottura che cattolico non è» (p. 17). Il concilio del secolo scorso, dunque, rispetto al nesso papato-sinodalità ha voluto affermare che «il Papa per agire non ha bisogno del consenso dei Vescovi, mentre il Collegio non può agire senza il consenso del Romano Pontefice, che dall’interno del Collegio stesso manifesta la comunione dei Vescovi con lui e dei Vescovi tra di loro, quindi l’unità di tutto l’episcopato e di tutta la Chiesa» (p. 21). Il vescovo, dunque, inserito nel Collegio ha altresì potestà in virtù della sua comunione gerarchica con il Papa, da cui riceve l’ufficio di capitalità della Chiesa particolare o qualsiasi altro ufficio.
Il secondo capitolo, Importanza teologica e storica dei concili nell’era moderna circa il binomio inscindibile primato-collegialità (sinodalità), offre il contributo scientifico di mons. Marchetto elaborato in occasione della mostra I Papi dei concili nell’era moderna. Arte, storia religiosità e culture, tenutasi a Roma in Campidoglio. Sostanzialmente in esso sono percorse le stesse tematiche del precedente capitolo, focalizzando però l’attenzione sui Concili della modernità e della contemporaneità, ovverosia sul Concilio di Trento, sui Concili Vaticani I e II e sul ruolo dei Romani Pontefici che li indissero e li accompagnarono. Da questo punto di vista non deve sfuggire che nel percorso della storia non si parte mai da un punto zero, come se i Concili non dovessero tener conto del precedente stato ecclesiale o venissero a «rivoluzionare» il cammino della Chiesa. Un tale errore è ravvisato dal presule proprio nell’opera della Scuola di Bologna, che con Giuseppe Alberigo (1926-2007) e i suoi studi sul Concilio Vaticano II ha interpretato l’evento come se si trattasse di «un puro inizio» (p. 35), ovvero secondo un’ermeneutica della rottura e della discontinuità. I brevi profili dei papi Paolo III (1534-1549), Giulio III (1550-1555) e Pio IV (1560-1565), legati al Concilio di Trento; quello del beato Pio IX (1846-1878), legato al Concilio Vaticano I; e quello dei papi san Giovanni XXIII (1958-1963) e san Paolo VI (1963-1978), legati al Concilio Vaticano II, si rivelano utili per far comprendere il ruolo centrale del Papato nell’ottica della riforma nella continuità della Chiesa. Per questo motivo è errato e pericoloso offrire interpretazioni, come quella secondo la quale con Giovanni XXIII sarebbe giunta la luce dopo le tenebre e con Paolo VI sarebbe giunta invece la tenebra dopo la luce, perché avrebbe «ridimensionato a tal punto la prospettiva [dello «spirito» del Concilio Vaticano II], da tradirla» (p. 36). L’ottica storica di mons. Marchetto, innanzi a queste direzioni, intende ancora una volta ribadire «la continuità della presenza della riforma e del rinnovamento dell’unico soggetto Chiesa, anche nel corso degli ultimi cinque secoli, diciamo, nell’asse portante della comunione gerarchica ecclesiale» (pp. 25-26).
Il terzo capitolo, Chiesa e Società nel Concilio Vaticano II: Jean Daniélou e Yves Congar, riporta il testo di una relazione tenuta a Siviglia, in Spagna, in cui la questione centrale — saggiata attraverso i contributi dei teologi Yves Congar O.P. (1904-1995) e Jean Daniélou S.J. (1905-1974) al Concilio Vaticano II — tratta sostanzialmente la natura della Chiesa e la sua preminente declinazione missionaria. Se, infatti, Congar è visto come impegnato nel dare la risposta al quesito fondamentale, fatto proprio anche da Papa Paolo VI, «Chiesa cosa dici di te stessa?», quindi con una riflessione ad intra, Jean Daniélou ha lavorato soprattutto a quella che poi sarebbe divenuta la Costituzione dogmatica Gaudium et Spes, dunque considerando i rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno. Naturalmente nel discorso esposto da mons. Marchetto appaiono la vivacità, il confronto e anche le spaccature che si vivevano in quegli anni nel dibattito ecclesiale. Fin da subito emerge l’idea che vi «[…] sia la tendenza di prendere del Concilio solo quanto aggrada» (p. 57). Del resto le differenti tendenze saranno evidenziate anche con la fondazione di due riviste teologiche di diverso orientamento: Concilium e Communio. In connessione a Daniélou e Congar appaiono fondamentali, nel discorso dell’autore, anche gli interventi di altri vescovi e teologi presenti al Concilio, fra cui l’allora mons. Karol Wojtyła (1920-2005), che ebbe un ruolo non di secondo piano, per esempio, nella redazione della Lumen Gentium, il teologo francese Henri De Lubac S.J. (1896-1991), che lavorò nella stessa ottica di Daniélou, e con loro il card. Léon-Joseph Suenens (1904-1996). Uno spazio particolare occupa anche l’allora professor Joseph Ratzinger, soprattutto nella ricezione postuma degli insegnamenti del Concilio e in questo caso nella comprensione dell’ottica missionaria che attraversa e anima l’assise ecclesiale. Il ricorso all’attività dei due teologi con una bozza di elementi storici rispetto agli anni di svolgimento del Concilio e in relazione alla redazione dei documenti Lumen Gentium, Gaudium et Spes, Presbyterorum ordinis, Nostra Aetate, è però in qualche modo funzionale per l’autore a ribadire, e poi successivamente a dimostrare, attraverso i cardini più importanti dei documenti del Concilio, che «la Chiesa è per sua natura missionaria ex fontali amore» (p. 61). Ciò viene evidenziato attraverso alcuni snodi importanti del discorso conciliare sulla Chiesa, sulla missione, sull’apostolato dei laici, sul ministero e la vita dei presbiteri, sulla libertà religiosa, sulle relazioni fra la Chiesa e le religioni non cristiane e sul nesso fra missione e dialogo. Se ne evince che «i testi teologici (in senso stretto) del Concilio sono profondamente impregnati dell’idea missionaria. […] rivolgersi al mondo equivale a “missione”, a dialogo e alla collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà. È qui inteso l’aggiornamento, il rinnovamento-riforma nella continuità della Tradizione […]. Dialogo e missione non sono semplicemente identici e “il mondo moderno deve restare sempre nel campo visuale se non si vuol rimanere in uno storicismo e arcaismo contrari alla Scrittura”. Ratzinger aggiunge “l’equilibrio della bilancia è delicato” fra i due poli del rinnovamento» (pp. 69-70). Al fine, allora, di sciogliere il nodo fra dialogo con il mondo moderno — che consiste non solo nella risposta alla sue domande, ma spesso anche in una reimpostazione delle risposte che il mondo moderno si è dato da sé stesso, come fatto notare da mons. Woityła — e compito missionario della Chiesa, tornano utili le parole, ispirate alla riflessione ratzingeriana, con cui l’autore chiude il capitolo: «Meno il missionario trasmette se stesso, più egli porta Cristo, e meno si creerà un dilemma tra dialogo e predicazione, più puramente essa aprirà l’accesso al dialogo decisivo, del quale tutte le altre parole non sono che una introduzione: il dialogo con il Creatore dell’umanità per la quale adorare è al tempo stesso il dovere supremo, il più alto privilegio» (p. 75).
Sempre in un’ottica specificamente missionaria si svolge il quarto capitolo, sul tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale nella prospettiva del Vaticano II, che riecheggia una riflessione legata all’ultimo Sinodo sui giovani, tenutosi lo scorso mese di ottobre in Vaticano e di cui già Papa Francesco ha pubblicato la relativa Esortazione apostolica dal titolo Christus vivit. L’intervento di mons. Marchetto è antecedente alla celebrazione sinodale ma tiene conto dell’Instrumentum laboris quale schema dei punti principali che avrebbero dovuto essere trattati. Ciò è svolto in connessione con la prospettiva aperta dal Concilio Vaticano II, per cui se ne sottolineano le affinità. Oggi come al tempo del Concilio — e ciò è valido anche per la platea giovanile — occorre che si centri la presentazione del cristianesimo sul suo nucleo essenziale e solo successivamente che si ponga questo in relazione ai problemi e alle necessità del tempo in cui si vive. In questo senso, mons. Marchetto nota delle affinità fra la prospettiva del cosiddetto Sinodo dei giovani e l’ottica del Concilio espressa principalmente nella Costituzione dogmatica Gaudium et spes, cui segue in maniera più specifica anche il riferimento al Messaggio che il Concilio ha inviato ai giovani. Se nel Vaticano II «[…] troviamo al centro la Chiesa che cerca un nuovo approccio, un nuovo linguaggio che tenga conto della Sitz im Leben della cultura» (p. 79), medesimo impegno è assunto dal Sinodo nel tentativo di riavvicinare il linguaggio della Chiesa al linguaggio dei giovani. È altresì indispensabile, come fa Gaudium et spes, considerare in merito alla cultura del nostro tempo, la medesima in cui sono immersi i giovani, che è intrisa di distanza e di indifferenza nei confronti di Dio e della religione e ciò notando anche le ricadute nel campo delle varie scienze. L’attenzione della Chiesa verso i giovani, segnatamente nel Sinodo, allora deve ricondurre questi all’esperienza della preghiera e della contemplazione perché possano riscoprire la dimensione spirituale e attraverso di essa incontrare il Signore, da cui potrà venire anche l’impegno a «instaurare un ordine politico, sociale ed economico che sempre più e meglio serva l’uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità» (p. 83). Il nucleo forte del Sinodo, in connessione con Gaudium et spes, è tuttavia segnato dalle tematiche della vocazione e del discernimento. Tutta la prima parte del documento conciliare s’impegna a illustrare l’antropologia cristiana, in relazione alla singola persona e alla comunità umana, e ciò in termini di vocazione dell’uomo nei confronti della sua alta dignità, stabilita nella creazione dal suo essere ad immagine e somiglianza con Dio. Accennando alle varie parti di Gaudium et spes, l’autore fa notare che vi è anche una giusta autonomia da considerare delle realtà umane e temporali, purché si tenga conto che la creatura «senza il creatore svanisce … Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa» (p. 85). La vocazione umana ha poi delle declinazioni specifiche su cui il Concilio ha riflettuto con molta profondità sia per quanto riguarda il sacerdozio ministeriale, sia per quanto riguarda la vita religiosa. Altra parola fondamentale del Sinodo è — come detto — «discernimento»: «prendere decisioni e orientare le proprie azioni in situazioni di incertezza e di fronte a spinte interiori contrastanti è l’ambito dell’esercizio del discernimento, termine classico della tradizione della Chiesa, che si applica ad una pluralità di situazioni. Vi è infatti un discernimento dei segni dei tempi […] un discernimento morale, o spirituale» (pp. 92). Le parole fondamentali per un buon esercizio del discernimento sono tratte dall’esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii Gaudium e sono: riconoscere, interpretare, scegliere. L’identikit di chi accompagna i giovani, in questo senso, è ben delineato: «lo sguardo amorevole, benevolente, è posto all’inizio […], poi viene la parola autorevole […] quindi la capacità di “farsi prossimo” […]. Segue la scelta di “camminare accanto” […]. Infine la testimonianza di autenticità, senza paura di andare contro i pregiudizi più diffusi» (pp. 94-95).
Gli ultimi due capitoli trattano da un versante più strettamente storico quello che mons. Marchetto definisce il «magno Sinodo Vaticano, ecumenico» (p. 45). Si tratta di una presentazione delle pagine del Diario del card. Pericle Felici — «nato a Segni il I° Agosto del 1911, ordinato presbitero il 28 ottobre 1933 e vescovo il 28 ottobre 1960, cardinale dal 29 giugno 1967, morto a Foggia il 22 marzo 1982» (p. 99) — che fu anche segretario generale del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il quinto capitolo, quindi, è dedicato a La minoranza del Vaticano II, chiarendo in primis che con il termine «minoranza» ci si riferisce a «minoranze puntuali nella loro costatabile fluttuazione e relativa mutabilità fino a portarci a dire, alla fine, che di minoranze variabili si tratta, di vari filoni di minoranza, secondo le materie in discussione, — gli schieramenti poi si creavano di volta in volta sulla base dell’argomento discusso e l’adesione di un padre conciliare poteva cambiare nel corso del dibattito, oppure nell’avvicendamento dei periodi conciliari — restando pur fermo che di una “minoranza” abbastanza ben delineata si può parlare» (p. 103). La scelta del Diario «spirituale» dell’allora mons. Felici non è casuale in quanto consente di acquisire — dato il suo ruolo di Segretario generale del Concilio — non solo una visuale completa dei movimenti interni all’assise, ma anche la visuale dei Pontefici, Giovanni XXIII e Paolo VI, che guidarono la Chiesa durante gli anni conciliari: il primo con l’indizione e l’apertura, il secondo con la conclusione e l’applicazione negli anni successivi. E ciò perché la Segreteria del Concilio era lo strumento di collegamento ufficiale (e per certi versi anche ufficioso) fra i Padri conciliari e il Pontefice, così come tra questi e i periti. Giovanni XXIII chiese a Felici infatti: «aiutiamoci a vicenda. Facciamo come nel coro: prima canta uno, e mentre questi riposa canta l’altro» (p. 104). E ciò avviene fin dalla preparazione del Concilio, in cui Giovanni XXIII esprime «[…] chiaramente la sua volontà che gli schemi preparatori, sui quali porrà delle note a commento […] siano pastorali. Significativamente Felici aggiunge: con “una chiara dottrina”. È un indice già di distinzione fra l’impostazione di maggioranza-minoranza» (p. 106). Infatti, se proprio una linea generale di divisione fra una maggioranza e una minoranza si deve segnare, essa passa dal difficile rapporto tra l’attenzione pastorale e la riaffermazione della dottrina. Se ciò ci conduce a un carattere squisitamente teologico dei dibattiti conciliari, non è neanche da trascurare la declinazione umana del confronto, che fin dal tempo della preparazione dell’evento conciliare restituisce, per esempio, una visione non idilliaca della curia romana; «risultano evidenti le sue malattie spesso rivelate, con dolore, da Felici, cioè ripetiamo, invidia, gelosia, corsa ai posti di “comando”, carrierismo insomma. […] Egli perciò scrive che la Chiesa ha bisogno di una riforma» (p. 108), i cui binari siano quelli della tradizione e della spiritualità. Ciò naturalmente sarà visibile anche nelle scelte dei presidenti delle commissioni, dei sottosegretari e degli stessi moderatori del Concilio, ragion per cui l’intervento del Segretario generale del Concilio, spesso sollecitato dai Papi, sarà quello di porre argine agli eccessi e alle scorrettezze. La posizione di Felici — che si sente ormai pienamente calato in una dimensione di servizio alla causa del Concilio a prescindere dalle sue posizioni teologiche — emerge in questa direzione: «io mi trovo a condividere nella dottrina e nella pratica alcune posizioni che è convenuto chiamare tradizionali, pur guardando con serenità — così mi sembra — a delle aperture, che possono migliorare gli spiriti e renderli più adatti alla diffusione del vero e del bene» (p. 112). Il problema fondamentale, allora, fu quello di combinare posizioni molto distanti tra di loro e a volte foriere di non poca preoccupazione non solo da parte di Felici, ma dello stesso Paolo VI che si ritrovò, ad esempio, a mandare messaggi «drastici» nei confronti di periti, come padre Congar e il teologo redentorista padre Francis Xavier Murphy (1914-2002): «il Papa è preoccupato per l’intraprendenza e l’inobbedienza di alcuni periti» (p. 114). Ciò emerge, tra le altre discussioni, soprattutto in relazione al binomio di studio caro all’arcivescovo Marchetto «primato-collegialità». Lo stesso autore commenta: «tutto questo è rivelatore soprattutto di preoccupazioni che possiamo chiamare di minoranza anche se espresse dal Papa, che pur con equilibrio si colloca nella sua responsabilità di Successore di Pietro» (p. 115). Così come le «preoccupazioni di minoranza» riescono a far sentire la loro voce in relazione alla Nota esplicativa previa alla Lumen Gentium e alla stesura ultima del capitolo III della stessa Costituzione dogmatica, da cui si può affermare che queste furono «un “trionfo del Papa e della Madonna”» (p. 116). Questa dialettica si può notare ulteriormente nello schema sulla libertà religiosa, sul matrimonio e la morale matrimoniale, sulla Divina Rivelazione, sulla condanna del comunismo e sulla riforma liturgica. Ciò naturalmente non mette in ombra la forza e l’importanza del Concilio Vaticano II in cui si intravide una fine «bella e promettente» (p. 121), nell’ottica però — possiamo ora dirlo consci degli anni postconciliari — di una faticosa e ancora problematica, nonché corretta ricezione, degli insegnamenti del Vaticano II che ancora una volta l’autore ci ricorda dover considerare «non certo nella linea della rottura, sebbene nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. E posso aggiungere che anche la minoranza ne ha avuto il merito» (p. 122).
Il sesto e ultimo capitolo, dal titolo Paolo VI visto dal diario dell’arcivescovo Pericle Felici, segretario generale del Vaticano II, tratta proprio della fisionomia e dell’impegno di Papa Montini in relazione agli anni del Concilio. Il capitolo in qualche modo contiene, scorporata, una parte già presente nella precedente sezione, facendo emergere il ruolo di Paolo VI all’interno dell’assise conciliare dopo la sua salita al soglio pontificio. Se, da un lato, può emergere dalle pagine di mons. Felici un’indole del Pontefice arrendista — «A mio parere il S.P. si preoccupa troppo e mostra aver paura» (p. 116) —, dall’altro lato sono tanti i punti in cui viene ribadita la forza e la determinazione del Pontefice su snodi importanti della dottrina cattolica. Oltre alla questione, già vista, relativa alla Lumen Gentium, il Papa non soltanto ratifica o rifiuta la presentazione delle bozze finali dei documenti, ma segue, accompagna e indirizza i lavori del Concilio e della Commissione teologica e ciò nonostante le latenti o a volte anche esplicite lamentele. «Peraltro il suo ruolo in più momenti appare decisivo, come attesta la scelta della formula papale dei documenti finali sinodali, nonostante quanto affermato finora da molti (Ottobre ‘63, alla fine)» (p. 127). I casi riportati sono certamente quelli relativi alla collegialità, che «per Paolo VI è una spina» (p. 126), ma anche quelli relativi non solo a temi dottrinali, già emersi nel precedente capitolo, ma pure in merito — diremmo — a certe manovre che periti, vescovi e qualche cardinale conducevano all’interno della Chiesa. In questo senso, emergono le annotazioni del Diario di Pericle Felici circa i disappunti papali, già menzionati, per padre Congar e per padre Murphy, su cui Paolo VI confida: «sappia che lavora contro la Chiesa» (p. 128), ma anche il disappunto e il dispiacere verso alcuni atteggiamenti e posizioni del card. Giacomo Lercaro (1891-1976), nonché per l’insubordinazione di periti come Hans Küng e mons. Pietro Parente (1891-1986). Le stesse preoccupazioni e offese subite dal Segretario del Concilio sono ricondotte a Paolo VI, che rincuorando mons. Felici espone anche il suo stato d’animo: «queste “sono le spine che ci capitano nel nostro lavoro” […] esclama a questo proposito il Papa — che capisce la situazione — e aggiunge con pena: “non mi fanno più dormire”, e non è la prima volta che così confessa la sua tensione» (p. 134). Naturalmente un tale travaglio non può che essere tipico di un’assemblea imponente e complessa come quella realizzatasi con il Concilio Vaticano II, ma che alla fine si trova controbilanciata dalla gioia per l’esito finale dello stesso, in cui la Chiesa — nonostante la notte del mondo — aveva rinnovato la sua fedeltà al Signore e ricompreso il suo profondo animo missionario.
L’opera di mons. Marchetto, per quanto agile, può rappresentare uno stimolo e un rimando a ulteriori approfondimenti di tematiche e di prospettive che riguardano la storia e la teologia della riforma conciliare. È, altresì, utile per comprendere l’ottica di fondo con cui guardare l’intera storia della Chiesa a partire dalle categorie di «riforma» e di «continuità». Da questo punto di vista il rimando e l’approfondimento non possono che essere — come sovente accade nel testo — alle stesse opere dell’arcivescovo vicentino sul Vaticano II: Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, e Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.
Daniele Fazio