Renato Cirelli, Cristianità n. 109 (1984)
Aspetti della storia religiosa, politica e sociale di una provincia italiana, per tanti versi esemplare, dalla Unità ai nostri giorni.
In prospettiva contro-rivoluzionaria
Il «caso» ferrarese
Nella storia di una nazione vi sono città o province che sembrano assumere, per specifiche caratteristiche politiche, geografiche e sociali che le contraddistinguono, un ruolo emblematico, presentando, in forme esasperate o più drammaticamente vissute, tutte le tappe fondamentali del processo che interessa, con ritmi diversi, la nazione intera.
In Italia, l’Emilia-Romagna e, fra le province che potrebbero essere prese come oggetto di studio, quella di Ferrara, sono caratterizzate, nella storia dell’ultimo secolo e mezzo, dall’avere vissuto, e vissuto «all’avanguardia», gli eventi politici e sociali che hanno profondamente modificato la mentalità e il costume del popolo italiano.
Ferrara e la sua provincia infatti, dopo 250 anni di governo pontificio – interrotto solo dalla invasione napoleonica -, sono annesse bon gré mal gré al nascente Regno d’Italia e da allora cominciano a subire intensamente le vicende che la rivoluzione economica e politica impone loro.
Ferrara vede lentamente farsi strada fra i contadini, esasperati dalla miseria e abbandonati a loro stessi in seguito alla abolizione delle libertà corporative, il socialismo ateo e violento, dalle sue prime forme di anarchismo e di ribellismo individualistico, fino allo spiegamento organizzato e articolato di un partito e di un sindacato che, nelle sue campagne, conoscono i primi successi dello sciopero nazionale.
La città è poi protagonista, nei primi vent’anni del secolo, della nascita dei socialisti «eretici» che escono dal campo internazionalistico, optando per una scelta nazionalistica e quindi interventistica, senza per questo cessare di essere rivoluzionari (1); assiste quindi, nel primo dopoguerra, al sanguinoso scontro fra questi ultimi – dai quali escono i fondatori del movimento fascistico, nato in loco particolarmente nella sua versione squadristica e di blocco agrario-proletario – e il socialismo massimalistico che stava, in polemica con il riformismo socialistico, diventando comunismo.
L’itinerario è, quindi, dall’Antico Regime alla rivoluzione liberale, e da questa a quella socialistica, passando attraverso il fascismo, cui Ferrara dà spontanea e massiccia adesione, che non viene meno neanche durante la Repubblica Sociale. Essa poi, esce dal conflitto mondiale e dalla guerra civile – che vi vede i suoi primi rilevanti e crudeli episodi – conquistata al socialcomunismo, il cui potere, a tutt’oggi, non è venuto meno, a dimostrazione di come un popolo, in altri tempi fiero e libero, una volta sottratto alla religione, possa perdere, insieme a essa, anche il gusto per le libertà sociali e civili, tanto da non avere più la forza o il coraggio di sottrarsi alla tirannide, che da decenni soffoca moralmente, psicologicamente, culturalmente ed economicamente la propria città e la propria provincia (2).
Infatti, ad onta della leggenda nera che fa di Ferrara e, più estesamente, della Romagna una terra dove, «in seguito al lungo periodo di malgoverno pontificio, l’anticlericalesimo nasce per generazione spontanea e naturale», l’adesione alle ideologie rivoluzionarie e materialistiche data, non a caso, dall’affermazione della rivoluzione liberale prima e socialistica poi.
Dall’Antico Regime al socialcomunismo
La provincia pontificia di Ferrara, nella prima metà del secolo diciannovesimo, aveva una organizzazione sociale corrispondente, in linea generale, al modello di società tradizionale che caratterizzava lo Stato Pontificio così come gli altri principati dell’Italia pre-rivoluzionaria. Si trattava di una struttura sociale articolata nei ceti della nobiltà, del clero, della borghesia e del popolo, in grande parte contadino; questi ultimi due erano, a loro volta, ordinati in modo diverso e variamente gerarchizzato.
La nobiltà ferrarese rappresentava, complessivamente, nel 1861, circa l’1,5% della popolazione e costituiva la guida politica ed economica della ripartizione territoriale all’interno dello Stato pontificio (3). La Rivoluzione del 1859 e l’annessione al Regno d’Italia – con la successiva ristrutturazione amministrativa ed economica, che aboliva i vincoli e i rapporti cosiddetti feudali – costringe l’aristocrazia ferrarese a un rapido processo di imborghesimento, che si compirà definitivamente, dal punto di vista politico, con il suffragio universale del 1911 e la eliminazione dei privilegi elettorali di censo. La accelerata democratizzazione del corpo sociale, operata nelle trincee della prima guerra mondiale (4) e la uniformità in camicia nera nel regime fascista fa il resto, così che questa classe nobile – ormai, in quanto tale, definitivamente scomparsa e svuotata delle sue funzioni – si riduce a essere una piccola élite, nominalmente aristocratica, all’interno della più vasta borghesia.
Il clero, che nello Stato Pontificio aveva grandi responsabilità nella direzione politica e amministrativa – responsabilità che si andavano ad aggiungere alla sua naturale funzione di guida spirituale e di docente del popolo cristiano – è in prima fila nel subire le leggi eversive dello Stato liberale, che colpiva duramente la libertà della Chiesa e le sue proprietà con l’esproprio di terre, di conventi, di chiese, di beni di confraternite. Tali leggi miravano a colpire la presenza pubblica cattolica, oltre che a pagare il debito statale, le spese di guerra e a soddisfare le ingordigie della borghesia rivoluzionaria.
Questa borghesia, che aveva diretto il moto locale di cospirazione per la indipendenza dallo Stato Pontificio insieme a una minoranza di nobili affiliati alla Carboneria e ad altre sette, si trova a essere praticamente, in grande parte, beneficiaria del nuovo sviluppo della politica economica liberistica dello Stato unitario, assumendo saldamente la direzione politica e sociale della provincia, grazie anche ai forti investimenti in terre, immesse sul mercato dalle confische e dal crollo dell’antico assetto fondiario.
Per quanto riguarda il mondo contadino, nella campagna ferrarese, fino alla seconda metà dell’Ottocento, non esisteva quello che normalmente si definisce un proletariato agricolo di massa.
La economia agricola assorbiva quasi tutta la popolazione lavoratrice, che si differenziava in una gerarchia verticale e in una articolazione orizzontale: «vi erano usufruttuari di terreni ceduti ad enfiteusi, affittuari, fattori, caporali, mezzadri, manzolai, cavallari, pastori, casari e boari […].
«I braccianti si dividevano in giornalieri (lavoratori indipendenti pagati a giornata), in castaldi (lavoratori obbligati abitanti sul fondo del proprietario), in vallanti (lavoratori di valle per tagli di canna ed altro pagati in ragione di lavoro ragguagliato alla superficie e alla quantità)» (5).
Per una migliore classificazione per fasce economiche si possono raggruppare queste categorie in «obbligati (mezzadri, boari, castaldi, manzolai, cavallari, ecc.), che hanno il lavoro e il pane sicuri; disobbligati (giornalieri e vallanti) le cui condizioni economiche sono meno sicure, ma non di una gravità eccessiva» (6).
In ultima analisi, si trattava di una situazione politica, economica e sociale chiara, definita e solida, pur con i suoi problemi, anche se non presentava più lo smalto e la vivacità dei secoli medioevali.
La popolazione si rivela legata alle sue tradizioni religiose e civili, e lo dimostra, come in molte altre parti d’Italia, la sua resistenza attiva e passiva alla invasione giacobina del 1796, portatrice, come altrove, non di nuova libertà dai vecchi tiranni, ma essa stessa, piuttosto, crudele dominatrice, spietata esattrice di tasse e spoliatrice di ricchezze pubbliche e private.
Nel 1859 poi, senza nessun moto o rivolta popolare ma per le conseguenze della politica estera provocate dagli esiti della seconda guerra d’Indipendenza, il governo pontificio è abbattuto e i capi rivoluzionari assumono la dittatura, e organizzano il plebiscito «spontaneo» che approva l’annessione al Regno di Sardegna con il 99% dei voti, dando vita a un singolare metodo di consultazione popolare «guidata», una sorta di proposta che non si può rifiutare, e che darà ancora buona prova ai tempi del listone fascista del 1924 e del referendum istituzionale del 1946 (7).
Il carattere liberistico della nuova politica economica incide profondamente sul tradizionale assetto della distribuzione fondiaria, sconvolgendolo a favore della parte della borghesia che aveva parteggiato e cospirato per l’unità d’Italia e che disponeva di denaro liquido per comperare i terreni resi liberi dai precedenti vincoli.
Infatti, il venire meno dei privilegi «feudali» e la espropriazione dei beni ecclesiastici favoriscono la comparsa di un tipo di proprietà fondiaria non più tradizionale, ma capitalistica, e creano il modello di moderno latifondo in cui, se vengono aboliti i privilegi dei nobili, vengono spazzati via anche gli antichi diritti della popolazione rurale, come riconosceva, in parte, anche uno studioso ferrarese di fine secolo, il liberale Pietro Niccolini (8).
Il patto colonico risalente agli Estensi, la mezzadria, viene gradualmente sostituito con l’economia diretta e con la boaria, (9) e in questa vengono operate modifiche sostanziali, quali la sostituzione della retribuzione in generi – per esempio in grano e in vino – con quella in una quota fissa in denaro, la equiparazione del prezzo del lavoro prestato dalla famiglia del boaro a quello prestato dal bracciante «obbligato», in nome di un ugualitarismo e di un livellamento in basso che umilia la prima categoria e non rende giustizia alla seconda. Infine, si produce l’abolizione dell’«insaccata», che era una specie di conto corrente tra boari e proprietari, con cui questi ultimi provvedevano alla famiglia del boaro di tutto quanto occorresse, considerandola una appendice della propria famiglia: è evidente che in una situazione di rapporti così concepiti i titoli di debito e di credito avevano ben scarso significato, esattamente come il concetto di lotta di classe (10).
Nei primi trent’anni della nuova Italia le condizioni economiche, sociali e alimentari dei contadini peggiorano spaventosamente; il frumento viene sostituito come alimento dal granoturco e ciò provoca come conseguenza un altissimo numero di casi di pellagra. A questo si aggiunge un evidente e progressivo abbassamento delle condizioni igieniche nelle case coloniche.
Ma il grande salto di qualità nel cambiamento rivoluzionario di mentalità del contadino ferrarese avviene con l’inizio, verso il 1880, delle grandi bonifiche della cosiddetta «bassa», in buona parte finanziate con capitale straniero e che proseguono per oltre un ventennio. Con queste opere, di cui non si discute la opportunità ma i metodi, le speculazioni e i disastri sociali e morali che ne derivarono, si creano le condizioni per lo sfaldamento familiare e quindi anche sociale.
Le aziende agricole di impostazione capitalistica che vengono introdotte nelle zone bonificate accelerano in modo notevole la disgregazione, sia per necessità economiche che per mentalità, della famiglia patriarcale contadina, mentre gli enormi lavori di bonifica provocano la fuga dai campi dei giovani che andavano a ingrossare la massa degli sterratori, sottraendosi all’autorità paterna e accettando, nell’anonimato del proletariato che così nasceva, una situazione di sradicamento sociale e di maggiore possibile degradazione morale (11).
Viene, pertanto, a costituirsi nelle campagne uno spirito moderno di irrequietudine e di individualismo, del quale sono responsabili anche i proprietari agrari liberali che, oltre a essere sordi alle necessità economiche, pongono pure seri ostacoli alla educazione morale dei contadini, per esempio costringendoli a lavorare la domenica. Contro questo tentativo pratico di scristianizzazione protesta, tra gli altri, fino dal 1863, don Pietro Benassi, esponente di rilievo del clero ferrarese (12).
Altro notevole contributo alla formazione del proletariato ferrarese è dato dalla immigrazione di braccianti delle province vicine, richiamati d’estate dai lavori di sterramento, e che poi si insediavano permanentemente nel territorio.
Parallelamente, negli anni immediatamente seguenti la fine del processo militare del Risorgimento, la Rivoluzione si scatena, come se volesse affrettare, per quanto possibile, tutti i suoi passaggi e recuperare gli anni e i decenni durante i quali non dalle «arpie vaticane» (13), ma da Ferrara fedele alla Contro-Riforma cattolica, era stata respinta. Infatti, oltre alle conseguenze immediate della legislazione eversiva del 1866-1867 che confiscava il patrimonio ecclesiastico e che, nella sola Ferrara, sopprimeva venti corporazioni religiose, si fanno avanti i movimenti protestantici che operano una vera e propria offensiva fondando missioni e giornali e aprendo luoghi di culto. Si tratta di una penetrazione capillare e insidiosa sventata dal clero cattolico con la contrapposizione ferma di conferenza a conferenza, di stampa a stampa e con la pubblicazione di numerosi opuscoli a carattere popolare per opera dei suoi più preparati polemisti come mons. Merighi, don Azzi, don Benassi, padre Modonesi, e don Zappoli (14). L’assalto protestantistico è respinto anche perché, alla reazione del clero, fa riscontro la profonda fede cattolica del popolo ferrarese.
Ma quello che non riesce sul piano religioso, ha maggiore successo su quello politico-sociale, come riconoscono anche autori non di parte cattolica (15), poiché, come conseguenza della nascita del proletariato agricolo, Ferrara diventa uno dei punti nevralgici della lotta di classe. Inizialmente questa viene organizzata in nome del socialismo mazziniano, la cui propaganda comincia a trovare fertile terreno fra i contadini cui non era più permessa alcuna difesa legale e presso i quali si inizia a predicare la lotta contro l’unico nemico rappresentato, in un solo fascio, dal governo, dai ricchi, dai preti, e dalla Chiesa, questa ultima indicata come roccaforte del mondo dei privilegi sociali anche nello Stato liberale.
Origine e caratteristiche dell’anticlericalismo romagnolo
Nasce in quegli anni, dunque, il famigerato anticlericalesimo emiliano e romagnolo, alimentato dal laicismo massonico dei governi, che scristianizzavano con le loro leggi e nelle scuole le nuove generazioni, dall’individualismo liberale della nuova classe proprietaria e dalla propaganda radicale, repubblicana e socialistica dei movimenti eversivi (16). Nasce e cresce con una tale velocità, favorita tra l’altro dalla sempre più grave condizione sociale, da cancellare ogni memoria storica e da riuscire a far credere oggi che questo anticlericalismo vi sia sempre stato.
E l’odio di classe, provocato dalla ingiustizia, ed esagerato dalla sovversione, non tarda a mettere le radici nel terreno «liberato» dalla dottrina sociale della Chiesa, che proprio in quegli anni, mentre cessava di essere messa in pratica, veniva puntualmente ricordata dal magistero pontificio, così che qualche disinformato o malizioso insegna che tale dottrina sociale è stata scoperta solo cent’anni fa, dimenticando di aggiungere che non era necessario scriverla prima, dal momento che era a grandi linee praticata (17).
«Alcune sommosse si verificarono nel 1868-69 per la imposta sul macinato.
«Dal 1866 al 1874 si svolgono altri scioperi di protesta contro la tassa di ricchezza mobile: e le proteste sono più intense da parte degli elementi in rischio di essere facilmente proletarizzati da un dissesto economico e da una crisi agraria» (18).
Nel 1869 scoppiano sommosse per la tassa sul macinato; nel 1871 i braccianti provocano numerosi incendi per vendetta.
Vengono poi i primi scioperi salariali fra il 1883 e il 1891, ripresi violenti nel 1897: «in questo anno degli scioperi registrati in Italia il 48% è dei soli braccianti di Ferrara» (19).
Con il nuovo secolo la lotta sociale, predicata dalla sempre più potente organizzazione socialistica, si aggraverà fino all’avvento del fascismo, che si imporra nelle campagne anche mettendosi violentemente alla testa di molte rivendicazioni sociali, tanto che il Ferrarese è uno dei luoghi chiave dove nasce il sindacalismo rivoluzionario fascistico fondato da ex sindacalisti socialisti.
Il Movimento Cattolico
Dopo l’avvenuta unità d’Italia (20), e, particolarmente, dopo la conquista di Roma nel 1870, con la quale termina solo l’aspetto militare della guerra ami-cattolica (21), i cattolici ferraresi reagiscono innanzitutto sul piano religioso, dando vita a una stampa battagliera e a un lavoro di rifondazione di confraternite e di associazioni culturali.
Impossibilitati dal non expedit a partecipare alla vita pubblica nazionale, fanno nascere non solo in città, ma in ogni centro della provincia, associazioni di carità e di beneficienza, di formazione scolastica e di mutuo soccorso.
Nonostante il disorientamento e la impreparazione politica che ovunque contraddistingue il movimento cattolico davanti al clima agitato, polemico e persecutorio del nuovo Stato liberale (22), vengono fondate la Società operaia cattolica di mutua carità e l’Opera di patronato per l’assistenza sociale, con il compito di provvedere alla istruzione religiosa e ricreativa e alle scuole serali. Le suore stimmatine organizzano convitti per ragazze abbandonate, mentre l’Opera di S. Giovanni di Dio assisteva i poveri abbandonati all’ospedale (23). Sono aperte agenzie di assicurazione contro la grandine e banche cattoliche per sottrarre i risparmiatori ferraresi alla esosità. dei banchi privati, come quelli di Senigallia e di Zamorani (24), casse rurali e unioni professionali, che avevano lo scopo di rappresentare gli interessi di categoria dei lavoratori nelle campagne senza trascinarli in un’azione avvelenata dalla lotta di classe e facendo opera di persuasione nei confronti dei datori di lavoro (25).
Un esempio di questa opera di persuasione lo troviamo in una lettera indirizzata agli «Egregi signori padroni» di Santa Maria Codifiume – oggi uno dei centri abitati più comunistizzati del Ferrarese -, dove si legge: «Non vi sorprenda che anche i coloni di Codifiume osino presentarsi a Voi, risoluti di ottenere un miglioramento alla loro condizione. È da molti anni che si vedono costretti a subire patti per loro onerosissimi; è da molti anni che fanno udire, troppo timidamente, le loro voci isolate, per ottenere che nei contratti di fitto, di mezzadria e di boaria, cessino alcuni patti, che sembrarono e sembrano loro niente conformi all’equità.
«Ora, però, ammaestrati dall’esperienza e dal consiglio dei buoni, costretti dalla urgente necessità di accondiscendere alle giuste esigenze degli operai, capirono questi coloni che nell’unione sta la forza, e si organizzarono stringendosi, uno per tutti e tutti per uno, nella Unione Professionale del Lavoro: Unione, sorta provvidenzialmente per difendere le sante ragioni di tutti coloro che traggono il loro sostentamento dal lavoro. Non dubitate di noi, o signori padroni, non temete che si voglia da noi ricorrere a mezzi violenti ed illegali. No, i mezzi propostici dal nostro statuto sono quelli soltanto consentiti dalle leggi, le norme indicate sono quelle della giustizia e della carità cristiana.
«Abbiate ognora presente, o signori padroni, che i nostri coloni sono persone animate da sani principii, veri cristiani: e per questo solo non si ascrissero finora alle leghe dei socialisti, sebbene si cerchi da più mesi di attirarveli con ingannatrici promesse. Fu provvidenza però, fu bene loro e vostro, che sorgesse, in Codifiume l’Unione Professionale; e proprio allora sorgesse, quando per avventura molti stavano per cadere alle insistenze lusinghiere e tentatrici dei socialisti».
«E sarà previdenza o provvidenza, sarà ben loro e vostro, se nella vostra saggezza ed equanimità, vorrete concedere loro i miglioramenti, discreti affatto e giusti, che vi proponiamo» (26).
Non tutti i proprietari erano senza scrupoli e abituati a opprimere a proprio vantaggio i contadini, ma da quando erano cambiate le istituzioni politiche, economiche e sociali, era gradualmente cambiata anche la mentalità dei datori di lavoro che, svincolati dalla legge, dai costumi e dalla morale cristiana, si trovano in una situazione sociale ed economica che favorisce l’egoismo e la frenesia di accaparramento, tipici frutti del liberalismo alla cui scuola erano stati educati (27), mentre, a loro volta, i lavoratori vengono spogliati dal governo delle associazioni corporative e di categoria nelle quali trovavano rappresentanza, protezione e aiuto materiale e spirituale.
Si andava costruendo, sempre più velocemente, una difficile e precaria situazione sociale che seminava il veleno dell’odio tra le categorie e allevava intere generazioni di proprietari e di lavoratori all’agnosticismo e all’ateismo militante (28), i primi corrotti dal liberalismo, gli altri dal socialismo che «voltò le armi poderose della sua temibile logica contro le dottrine e i fati che generato lo avevano», come sottolineava Stanislao Medolago Albani nella sua relazione al X Congresso cattolico tenutosi a Genova nel 1882 (29).
E Giuseppe Sacchetti descriveva così, nel XV Congresso cattolico svoltosi a Milano nel 1897, la spirale che, fra liberalismo e socialismo, avviluppava l’Italia e che oggi, sotto i nostri occhi, la sta strangolando a morte: «il socialismo è la filiazione logica del liberalismo; finché il liberalismo esisterà, il socialismo vivrà della vita sua stessa, suggendone, insaziabile parassita, i succhi vitali. Le ingiustizie politiche del liberalismo; il suo sistema economico e sociale disastroso; le sue vessazioni finanziarie e che toccano la spogliazione; la corruzione invadente ogni pubblica amministrazione; la perdita. d’ogni senso morale, spinta fino alle solenni e universali glorificazioni del delitto, in onta ad ogni codice e ad ogni pudore: e sopra tutto il bando di Dio dalla famiglia, dalla scuola, dalla beneficenza, dalle leggi, dallo Stato: ecco le origini del socialismo. E siccome queste origini sono l’essenza stessa del liberalismo; così è evidente che non perirà il socialismo, se prima la società liberalesca, cui esso è unito, per l’ombelico, non cesserà d’essere. O cesserà d’essere, esausta dal mostro che succhia il sangue; o cesserà d’essere, perché ritornata a Dio e ridivenuta cristiana. Fuori da questo bivio non c’è altra strada» (30).
Nonostante cercasse di organizzare una azione positiva sul piano sociale, tutto il movimento cattolico italiano non riesce a svilupparsi in senso completo e generale, fino a diventare una componente essenziale e determinante della vita nazionale.
Infatti, mentre da una parte esso viene fatto oggetto di una dura persecuzione da parte dei governi laicisti dell’ultimo trentennio del secolo e di continui attacchi delle sette massoniche e socialistiche (31), al suo interno l’Opera dei Congressi vive, a fasi alterne, stagioni di entusiasmo e di grandi difficoltà, provocate, queste, dai sempre più gravi contrasti fra i difensori di una linea coerente e intransigente di rispetto della dottrina sociale della Chiesa in tutte le sue conseguenze, anche politiche, e i cattolici liberali e democratici di varie sfumature, da quelle più moderate alle più estremistiche, fautori di un compromesso con la società civile che era uscita dalla rivoluzione risorgimentale. Questi contrasti si vanno approfondendo proprio a Ferrara nel XVI Congresso cattolico del 1899 (32), e di lì a qualche tempo san Pio X si vede costretto a sciogliere l’Opera dei Congressi, ormai abbondantemente inquinata dal modernismo sociale, e tutto il trentennale lavoro delle organizzazioni cattoliche è sottoposto a un nuovo e faticoso sforzo di ristrutturazione, mentre, nonostante le prese di posizione del Magistero pontificio, si andava preparando, sempre meno nascostamente, la organizzazione di un partito non confessionale, quindi non ufficialmente cattolico, che con il nome di Partito Popolare prima e di Democrazia Cristiana poi avrebbe riproposto in sede politica e sociale al popolo cattolico quel modernismo che era stato sconfitto sul piano religioso.
A Ferrara il movimento cattolico vede rallentato il lavoro di organizzazione sociale, economica e culturale che andava svolgendo, e che già aveva ricevuto una dura battuta d’arresto in seguito allo scioglimento delle associazioni cattoliche deciso dal governo Di Rudinì a causa dei tumulti milanesi del 1898 (33).
Tuttavia, qualche anno più tardi il superamento del non expedit permette ai cattolici ferraresi di presentarsi alle elezioni amministrative facendo blocco con quei conservatori che accettavano le condizioni di collaborazione con i cattolici su alcuni principi determinati (34).
La vittoria elettorale sulle sinistre, oltre a permettere di amministrare Ferrara dal 1903 al 1920, dimostra la esistenza di un consenso attorno a un programma cattolico conservatore che ancora oggi sarebbe interessante verificare, nonostante l’enorme sperpero che di esso si è fatto negli ultimi sessanta anni.
Questo elettorato cattolico si trova, infatti, dopo la prima guerra mondiale, davanti al pericolo socialcomunistico e nella imbarazzante scelta alternativa fra la classe politica e sindacale del Partito Popolare e delle leghe bianche – il cui modernismo sociale e il cui democraticismo filo-socialistico era sempre più evidente – e gli esponenti della reazione fascistica e sindacal-rivoluzionaria nazionalista, con tutte le sue caratteristiche di Rivoluzione di segno contrario e non di contrario della Rivoluzione (36). Di qui i drammatici risultati che ne seguono, particolarmente i guasti dottrinali all’interno del movimento cattolico stesso, se di esso si può ancora parlare, poiché la sua morte coincide con la nascita del Partito Popolare.
La storia di questo ultimo secolo e mezzo mette in luce a Ferrara – un esempio fra i tanti – le tattiche, i passaggi, le ritirate strategiche e gli assalti cui è ricorsa la Rivoluzione per cambiare il cuore e la mente degli italiani attraverso un vero e proprio processo quale si riscontra, più o meno con gli stessi connotati, in ogni fase rivoluzionaria (36). Con un lungo lavoro culturale che mira a mutare i costumi, la mentalità e lo stile di vita di un popolo, si giunge a fargli accettare una nuova concezione della società, frutto appunto della nuova mentalità, e a spingerlo a tradurla in pratica, istituzionalizzandola. E questo processo sarà maggiormente sofisticato, articolato e pieno di prevedibili e imprevedibili varianti quando la Rivoluzione si trova davanti una nazione cattolica con radici culturali che affondano in quasi due millenni di civiltà cristiana (37).
Ferrara, e l’Italia, aveva e ha queste caratteristiche e la Rivoluzione la strappa allo Stato Pontificio per consegnarla a quello liberale che ne sconvolge la pace religiosa e l’assetto politico, economico e sociale, sollevando la questione sociale che è, a monte, una questione morale, fino a preparare il terreno fertile sul quale attecchisce il socialismo. E il socialismo si arresta solo apparentemente davanti a quella fase napoleonica della Rivoluzione italiana che fu il fascismo (38), e poi sviluppa la propria egemonia nella sua versione più polemica e aggressiva, quella comunista, nel secondo dopoguerra.
Nonostante tutto la Rivoluzione non riesce ancora a vincere. Il popolo cattolico continua a resistere, sempre più falcidiato a ogni generazione, privato di una classe dirigente dottrinalmente preparata, provato da lungo tempo da tutte le lusinghe della Rivoluzione: giacobine, carbonare, liberali, socialiste, fasciste, comuniste e moderniste, infine costantemente tradito da chi politicamente dovrebbe dirigerlo, guidarlo e proteggerlo da quarant’anni (39).
Si impone la necessità di una nuova classe dirigente cattolica alternativa, che possa sostituire quella attuale, frutto indiretto del non expedit e frutto diretto del modernismo sociale; una classe dirigente che possa e sappia guidare i cattolici alla riconquista cristiana della società e della città, sotto la protezione della Beata Vergine delle Grazie, la cui devozione, da secoli, contraddistingue e onora i cattolici ferraresi.
Renato Cirelli
Note:
(1) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 18: «[…] per filiazione inevitabile dal liberalismo dominante comincia a svilupparsi il socialismo, […] che cura di portare in mezzo al popolo – non più protetto da istituzioni naturali e cristiane, e, per l’industrialismo e per il conseguente urbanesimo, in via di trasformazione in massa – il virus rivoluzionario, che nella sua veste liberale è destinato a colpire soltanto minoranze sociali particolarmente esposte. Ugualmente dal liberalismo, e principalmente dal suo travestimento “nazionale”, si svolge il nazionalismo rivoluzionario, alla ricerca di una missione universale-per l’Italietta nata dalla forzata fusione delle Italie pre-risorgimentali, eredi dell’impresa cattolica contro-riformistica».
(2) Georges Bernanos così descrive il popolo francese di fine secolo: «La Rivoluzione […] ha talmente avvilito questi uomini un tempo così fieri, così gelosi dei loro diritti, così pronti a pretendere ciò che era loro dovuto, che non osano nemmeno più chiedere di verificare il testo in virtù del quale li picchiano» (G. BERNANOS, La grande paura dei benpensanti, trad. it., Dell’Albero, Torino 1965, p. 104).
(3) Cfr. ROMEO SGARBANTI, Lineamenti storici del Movimento Cattolico Ferrarese, F. Cappelli, Rocca S. Casciano 1954, p. 151.
(4) Cfr. ibid., p. 151.
(5) Ibid., p. 155.
(6) Ibidem.
(7) Per quanto riguarda il referendum istituzionale del 1946, cfr. il recente studio di GIOVANNI ARTIERI, Umberto II e la crisi della Monarchia, Mondadori, Milano 1983.
(8) Cfr. PIETRO NICCOLINI, La questione agraria nella provincia di Ferrara, Bresciani, Ferrara 1907.
(9) Per un maggiore approfondimento dei sistemi di conduzione dei fondi nel Ferrarese, tipici della fine del secolo, cfr. EUGENIO RIGHINI, Gli scioperi agrari e l’economia rurale nel Ferrarese, Taddei, Ferrara 1897.
(10) Cfr. R. SGARBANTI, op. cit., p. 155.
(11) Anche lo storico comunista Giorgio Candeloro riconosce che: «[…] soprattutto bisogna tener presente il fatto che il movimento cattolico era forte specialmente nelle zone dove sussisteva una relativa stabilità di rapporti sociali, dove cioè la trasformazione capitalistica dell’agricoltura […] era stata meno spiccata, o aveva inciso meno bruscamente sulle condizioni di vita delle popolazioni» (G. CANDELORO, Il Movimento Cattolico in Italia, Editori Riuniti, 4ª ed., Roma 1982, p. 227).
(12) Cfr. DON PIETRO BENASSI, Perché lavorare la Festa? Osservazioni morali di Don Pietro Benassi intorno all’astinenza dal lavoro festivo, Taddei, Ferrara 1863; CANONICO PIETRO MERIGHI, La evangelizzazione eterodossa al tribunale della storia e del buon senso, Taddei, Ferrara 1863.
(13) GIOSUÈ CARDUCCI, Alla Città di Ferrara, in Rime e Ritmi, v. 25.
(14) Si vedano DON ANTONIO AZZI, Risposta di un parroco ad un suo parrocchiano sopra la nuova scuola protestante aperta in Ferrara, Taddei, Ferrara 1863; CANONICO PIETRO MERIGHI, La evangelizzazione eterodossa al tribunale della storia e del buon senso, Taddei, Ferrara 1863; DON P. BENASSI, Saggio di frodi e calunnie adoperati contro la Chiesa cattolica dalla propaganda protestante sotto il mentito titolo di Religione Evangelica, Taddei, Ferrara 1864.
(15) Cfr. GIOVANNI SPADOLINI, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Mondadori, Milano 1976, p. 271: «la Romagna smentisce le sue pur tenaci e dominanti tradizioni anticlericali, particolarmente nella bassa Padana, prima di Ferrara, dove le istituzioni cattoliche vigoreggiano».
(16) Come punto di arrivo della scristianizzazione della popolazione e risultato di una cinquantennale propaganda atea è sintomatico il documento della Camera del Lavoro approvato dalla lega femminile di Copparo nel 1908: «Ritenuto che le religioni sono il frutto delle fantasie esaltate di uomini primitivi ed ignoranti, incapaci di ricercare le spiegazioni dei fenomeni naturali; ritenuto che i presenti ministri di tutte le religioni sono interessati a far permanere la classe lavoratrice sotto il giogo dello sfruttamento borghese, e le donne in ispecie nel peggiore asservimento dell’anima e del fanatismo irragionevole; tutte le donne organizzate si astengono assolutamente di frequentare la chiesa, abbandonando ogni idea di religione e impegnandosi a non compiere più i riti e le cerimonie ad esse imposte dalle chiese e dalle rispettive religioni» (cit. in R. SGARBANTI, op. cit., p. 53). Da sottolineare la democratica equidistanza con cui vengono colpite tutte le religioni, allontanando i sospetti maliziosi di chi volesse scorgere nel documento un astio anticattolico. È notoria, infatti, la presenza a Copparo di masse buddiste e mussulmane!
(17) Cfr. G. CANTONI, Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens», in Cristianità, anno IX, n. 78-79, ottobre-novembre 1981.
(18) R. SGARBANTI, op. cit., p. 159.
(19) Ibid., p. 160.
(20) Per una storia generale di Ferrara fino al periodo risorgimentale compreso, cfr. l’opera di GUIDO ANGELO FACCHINI, Storia di Ferrara, S.T.E.R., Rovigo 1959.
(21) Cfr. G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., p. 10: «Dice infatti Leone XIII che “la rapina della civile sovranità fu compiuta per abbattere a poco a poco la stessa spirituale potestà del Capo della Chiesa” […], e, quindi tutta la sedicente epopea risorgimentale non è altro che una mossa del più generale e più “vasto complotto che certi uomini hanno ordito per annientare […] il cristianesimo” […]: l’unità dunque un semplice pretesto dell’errore».
(22) «Ricordi regalistici, persecuzioni di intere classi dirigenti e novità della struttura politica da combattere, fecero sì che l’opposizione cattolica fosse religiosa e sociale, ma politicamente sprovveduta» (G. CANTONI, op. cit., p. 17).
(23) Cfr. R. SGARBANTI, op. cit., p. 20.
(24) Cfr. ibid., p. 30.
(25) Cfr. ibid., p. 41.
(26) Cit. ibid., pp. 44-45.
(27) Cfr. ANTONIO GAMBASIN, Il Movimento Sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904), Università Gregoriana, Roma 1958, p. 15: «la scristianizzazione della società nella seconda metà dell’800 “quindi” andava man mano accentuandosi con la diffusione nel popolo delle ideologie e dei principi del liberalismo e con l’estendersi dei movimenti rivoluzionari».
(28) G. SPADOLINI, op. cit., p. 243, citando e compendiando il discorso del conte Stanislao Medolago Albani al X Congresso cattolico di Genova, scrive: «Primo a confessare la sua sconfitta dovrà essere “il liberalismo sociale”, che “sciolse la compagine sociale”, disarticolò i corpi intermedi, trasformò il mondo in un campo di lotta dove “i forti e gli abili superano i deboli e i vinti”».
(29) Cfr. ibid., p. 242.
(30) Cit. in GABRIELE DE ROSA, Il Movimento Cattolico in Italia dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Bari 1976, p. 165.
(31) Un esempio fra tanti illustra come fosse invivibile l’atmosfera politica per i cattolici a quei tempi; è quanto successe al III Congresso cattolico di Bologna nel 1876, che fu impedito a causa dell’assalto che i massoni diedero alla chiesa della SS. Trinità, luogo della riunione. Chiamato in causa, il prefetto proibì il convegno per motivi di ordine pubblico, contrariamente a quanto fece qualche tempo prima per un congresso socialista. Ma Spadolini osserva che l’oligarchia di governo, per la logica del Risorgimento, aveva più motivo di temere i cattolici dei socialisti. Cfr. G. SPADOLINI, op. cit., p. 106.
(32) Cfr. G. DE ROSA, op. cit., p. 199.
(33) A Ferrara furono sciolti per ordine del governo i comitati parrocchiali e i circoli di azione cattolica. In tutta Italia il provvedimento colpì 4 comitati regionali, 70 comitati diocesani, 2600 comitati parrocchiali, 600 sezioni giovani, 5 circoli universitari, 20 circoli di gioventù cattolica, 400 varie altre associazioni cattoliche. Cfr. G. CANDELORO, op. cit., p. 262; G. SPADOLINI, op. cit., p. 407.
(34) Cfr. MARCO INVERNIZZI, L’Unione Elettorale Cattolica Italiana, in Cristianità, anno VIII, n. 67, novembre 1980. Nelle elezioni del 1906 il cattolico ferrarese Chiozzi fu eletto deputato a Portomaggiore battendo il candidato socialista Enrico Ferri.
(35) «Contro-rivoluzione non [è] assolutamente una rivoluzione contraria, ma il contrario della rivoluzione» (JOSEPH DE MAISTRE, Considérations sur la France, cap. X, 3, in Oeuvres complètes, Vitte, Lione- Parigi 1924, tomo I, pag. 157).
(36) Per tutta la problematica inerente al processo rivoluzionario, si rimanda a P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit.
(37) Per l’argomento della conquista socialcomunistica dell’Italia cattolica e per il problema democristiano, si veda G. CANTONI, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980.
(38) Cfr. IDEM, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., pp. 22-28.
(39) Cfr. IDEM, La «democrazia compiuta» ovvero L’Italia rossa grazie alla setta democristiana, in Cristianità, anno X, n. 85, maggio 1982; e IDEM, Utopia «democratica» e Democrazia Cristiana, ibid., anno X, n. 91, novembre 1982.