Giovanni Cantoni, Cristianità n. 109 (1984)
Il «trattino» tra «lib» e «lab»
«[…] affermiamo che esiste una parentela diretta tra la rivoluzione francese e quella russa: di più, che l’una e l’altra costituiscono una unica e medesima rivoluzione.
«Questa filiazione, questa continuità che ci porta dal giacobinismo al boscevismo, è così evidente, è a tale punto nella logica dei fatti, che potrebbe non avere bisogno di dimostrazione. Ma vi sono molte brave persone – liberali, […] borghesi, tutti avversari più o meno saldi del bolscevismo – che protestano quando si enuncia davanti a loro ciò che a loro sembra una bestemmia. In apparenza il bolscevismo è certamente la negazione stessa del liberalismo. Questo è una dottrina essenzialmente individualistica e borghese, quello una dottrina essenzialmente collettivistica e proletaria. Ma la opposizione delle idee, anche la più assoluta, non esclude per nulla la filiazione dei fatti. Le idee, le idee politiche e sociali, contengono in germe i loro contrari, soprattutto quando si fondano su una falsa concezione dell’uomo. Ebbene, una concezione dell’uomo è falsa quando lo separa da Dio, quando nega la caduta originale, quando assegna all’uomo, come fine, la felicità terrena. Il materialismo disorganizza la società. Il liberalismo doveva condurre allo statalismo di cui la rivoluzione russa è la realizzazione estrema. Così i contrari si generano l’un l’altro, e la società, discentrata da un errore intellettuale, passa dalla anarchia alla tirannia, muore di una libertà di cui aveva creduto vivere.
«Ecco perché, da quando ci si azzarda ad applicare alla vita politica e sociale una falsa concezione dell’uomo, si giunge inevitabilmente a errori mortali, a rivoluzioni sanguinose» (1).
Questa puntuale osservazione di Gonzague de Reynold sulle «proteste delle brave persone» quando si illustra il legame di filiazione tra il liberalismo e il socialcomunismo, passando attraverso il giacobinismo, mi è tornata in mente incontrando, su un organo di stampa consuetamente letto da quelle che si possono sociologicamente qualificare appunto come «brave persone», «liberali» e «borghesi», questo giudizio sull’«incorruttibile» Robespierre: «Aveva l’ingenuità del genio e il fanatismo del visionario e seppe guidare la miscela diabolica di queste virtù, e di questi mali verso un evento utopico. Dobbiamo alla sua follia lucida e dritta come una spada se quell’utopia è divenuta in parte realtà. E che non si parli dell’“orrore del Terrore”, prezzo ripugnante ma minimo per la posta in gioco, che era un’umanità nuova, slegata dai vincoli della superstizione e dell’ignoranza ma non da quelli della libertà e della virtus.
«Forse era pazzo; ma di quella pazzia cui bisogna rendere omaggio.
«Ormai smascherato come robespierrista – conclude l’estensore dell’articolo – posso ben rivolgere un pensiero all’unico che gli seppe stare accanto e che è passato alla storia con la bella ma insufficiente definizione di “arcangelo della morte”, quel Saint-Just che a 27 anni, e in solo 20 mesi, bruciò intero il suo destino di visionario e di uomo d’azione aggiungendo alla follia lucida di Robespierre la giovanile valanga d’impeto e di furore eroico» (2).
Se non esistesse il legame teorico illustrato tra liberalismo e socialcomunismo, basterebbe il brano citato per provare, almeno, la esistenza di chi opera per la liaison tra i due termini – autentico trait d’union tra lib e lab -, nella prospettiva della transizione dall’uno all’altro, e quindi dell’inveramento storico del loro collegamento ideologico.
Stando così le cose, come può un cattolico controrivoluzionario preferire il «mondo liberale» a quello «socialcomunistico» e non assumere piuttosto una posizione di equidistanza praticamente terzaforzistica? Il giornalista citato dice il vero quando afferma che, grazie a Robespierre, cioè grazie alla Rivoluzione francese, «l’utopia è divenuta in parte realtà».
Ebbene, il cosiddetto «mondo liberale» è preferibile, difendibile e amabile proprio per quella parte per la quale «l’utopia» non si è ancora realizzata: non notava forse Papa Pio XI, negli anni Trenta del nostro secolo, che il capitalismo non era «il solo ordinamento economico vigente in ogni luogo», dal momento che «un’altra forma vi è che novera ancora grande moltitudine di persone, importante per numero e potere, quale, ad esempio, la classe degli agricoltori, in cui la maggior parte del genere umano si procura con probo e onesto lavoro quanto è necessario alla vita» (3)? D’altra parte, il difetto principale del «mondo socialcomunistico» consiste precisamente nella sua tendenzialmente completa perfezione utopistica, cioè irrealistica e, quindi, contro natura, in quanto tentativo realizzato di «applicare alla vita politica e sociale una falsa concezione dell’uomo», e «una concezione dell’uomo è falsa quando lo separa da Dio, quando nega la caduta originale, quando assegna all’uomo, come fine, la felicità terrena».
Giovanni Cantoni
Note:
(1) GONZAGUE DE REYNOLD, L’Europe tragique, Spes, Parigi 1934, pp. 41-42.
(2) GIORDANO BRUNO GUERRI, Un Robespierre senza Robespierre, in il Giornale, 26-4-1984. Provocato a fare qualche concessione al determinismo o al fatalismo onomastico – nomen omen -, dal momento che l’attenzione al «Giordano Bruno» è sollecitata anche dalla evocazione di un inequivoco «furore eroico», segnalo che l’articolo nasce come recensione di NORMAN HAMPSON, Robespierre l’incorruttibile?, trad. it., Bompiani, Milano 1984.