Juan Vallet de Goytisolo, Cristianità n. 153-154 (1988)
Dal pensiero del barone di Montesquieu e di Jean-Jacques Rousseau e da osservazioni di autorevoli cultori di scienze sociali, elementi per la critica di uno dei maggiori miti della «civiltà moderna»
Nell’esame di un accademico di Spagna
La democrazia moderna alla luce dei suoi classici
Charles de Secondat, barone di Montesquieu, scriveva ne Lo spirito delle leggi che il principio delle democrazie — ciò che costituisce la loro molla — è la virtù, una virtù civica o politica consistente ne «l’amor di patria, amore cioè dell’eguaglianza» (1), nell’amore a «le leggi del […] paese» e nell’agire «per amore di esse» (2). E questo «amore delle leggi e della patria […], richiedendo una continua preferenza dell’interesse pubblico al proprio, dà tutte le virtù particolari: le quali anzi non sono altro che questa preferenza» (3); inoltre, siccome «in esse [nelle democrazie] il governo viene affidato ad ogni cittadino», «ora il governo rassomiglia a tutte le altre cose in questo mondo: per conservarlo bisogna amarlo» (4).
Questo amore non si dà quando «entra l’ambizione nei cuori pronti a riceverla, e l’avidità in tutti»: «i desideri mutano d’oggetto: ciò che una volta si amava, non lo si ama più; si era liberi con le leggi, lo si vuole essere contro di esse [oggi più semplicemente si cambiano]. Ogni cittadino pare uno schiavo fuggito dalla casa del padrone. Ciò che prima era massima, ora lo si chiama rigore; ciò che era regola, impaccio; ciò che era riguardo, timore. […]. Prima i beni dei singoli formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico diventa patrimonio dei singoli [tradotto in termini attuali, ciascuno vuole ricevere più prestazioni sociali e contribuire meno con i tributi]. La repubblica è un corpo morto, la cui forza è costituita soltanto dal potere di alcuni cittadini e dalla licenza di tutti» (5).
Insomma, questa virtù dà la preferenza agli interessi generali rispetto a quelli particolari di ciascuno: «I politici greci, che vivevano in un governo popolare, riconoscevano nella virtù l’unica forza capace di sostenerlo. I politici d’oggi ci parlano solo di manifatture, di commercio, di finanze, di ricchezze, perfino di lusso» (6).
Senza questa virtù il barone di Montesquieu non ritiene possibile la democrazia, e fa alcuni esempi (7).
Quattordici anni dopo la pubblicazione, nei 1748, de Lo spirito delle leggi, veniva edito, nel 1762, Il contratto sociale o principi di diritto politico di Jean-Jacques Rousseau, considerato il padre della democrazia moderna.
Ebbene, anche il ginevrino riconosceva che «se si prende il termine nella sua rigorosa accezione, non è mai esistita una vera democrazia, né mai esisterà. È contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. Non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici» (8). Questo governo, per essere vivibile, richiede, a suo giudizio, «in primo luogo, uno Stato molto piccolo, in cui al popolo sia facile riunirsi, ed ogni cittadino possa facilmente conoscere tutti gli altri; in secondo luogo, una grande semplicità di costumi […]; inoltre, una grande eguaglianza di condizioni e di fortune, senza di che l’eguaglianza non riuscirebbe a sussistere a lungo nei diritti e nell’autorità; infine, poco o niente lusso; perché il lusso […] corrompe allo stesso tempo il ricco e il povero, il primo col possesso e l’altro con la cupidigia; vende la patria alla mollezza e alla vanità; toglie allo Stato tutti i suoi cittadini per asservirli gli uni agli altri, e tutti alla considerazione reciproca. […]
«Aggiungiamo che non c’è governo così soggetto alle guerre civili e alle agitazioni intestine come quello democratico o popolare, perché non ve n’è alcuno che tenda così fortemente e continuamente a cambiare di forma […].
«Se ci fosse un popolo di dèi, si governerebbe democraticamente. Ma un governo così perfetto non è fatto per gli uomini» (9).
E, quanto alla cosiddetta democrazia rappresentativa, Jean-Jacques Rousseau la respinge recisamente: «La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa, o è un’altra; non c’è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere i suoi rappresentanti; ma solo i suoi commissari; non possono concludere niente in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge. Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere.
«L’idea dei rappresentanti è moderna: essa ci deriva dal governo feudale, da questo iniquo e assurdo governo, nel quale la specie umana è degradata e il nome d’uomo è disonorato» (10).
Spiegando il criterio del barone di Montesquieu, lo scrittore marxista Louis Althusser afferma ironicamente che «Montesquieu non crede nella Repubblica, e per una semplice ragione: il tempo delle Repubbliche è passato. Le Repubbliche reggono soltanto in Stati piccoli. Siamo nell’era degli Imperi, medi e grandi. Le Repubbliche si conservano solamente nella virtù e nella frugalità, nella mediocrità generale, presa nel suo senso originale, che consiste nell’accontentarsi di poco per essere felici. Siamo in un tempo di lusso e di commercio. La virtù è diventata tanto pesante da portare che sarebbe il caso di disperare circa i suoi effetti se non li si potesse conseguire con regole più leggere. Per tutte queste ragioni, la Repubblica retrocede nelle lontananze della storia: la Grecia, Roma. Indubbiamente per questo è così bella. […]
«Questo angelismo politico fa della democrazia […] un regime eccezionale, e quasi la sintesi di tutte le esigenze della politica» (11).
Tuttavia è certo che oggi la parola democrazia non solo è di moda in tutto il mondo ma, dopo la seconda guerra mondiale, porta inoltre implicita una qualificazione che la impone alle menti come espressione dell’unico sistema politico accettabile per la civiltà moderna ed esclusivamente conforme alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Così si è creata — come mostra Louis Salleron — una sorta di «legittimità internazionale» e si è imposta all’opinione pubblica mondiale l’adesione a essa, come se si trattasse di un autentico dogma della fede che sta alla base della cosiddetta religione democratica o democrazia religiosa (12).
Il carisma di legittimità che tale parola conferisce ai regimi ai quali viene applicata come aggettivo qualificativo, fa sì che venga usata come distintivo e come talismano non soltanto dalle democrazie liberali, che con intento restrittivo sono qualificate come formali, ma anche da quelle che si autodefiniscono democrazie materiali, cioè dai regimi socialisti dei paesi dietro la cortina di ferro (13).
Ma queste sono o non sono democrazie secondo la qualificazione che, per la loro natura e per il loro principio, aveva determinato il barone di Montesquieu? Le sono secondo il giudizio di Jean-Jacques Rousseau? Potrebbero sostenerlo — sulla base di tali criteri — certi paesi, escludendo forse — quanto alla natura — la Svizzera come confederazione di repubbliche — alcuni cantoni della quale conservano anche il principio —, la Repubblica di San Marino e forse qualche altro minuscolo Stato?
Anzitutto, secondo il criterio enunciato da Jean-Jacques Rousseau neppure queste sarebbero vere democrazie, dal momento che, a suo giudizio, — come abbiamo visto — la sovranità non può essere rappresentata e non sono ammissibili «fazioni, […] associazioni parziali», anche se «una di queste associazioni [oggi le chiamiamo partiti politici] è così grande da prevalere su tutte le altre [oggi la chiamiamo partito di maggioranza assoluta]» (14).
E se il barone di Montesquieu toglieva la qualifica di governo democratico, in quanto corrotto, e negava fosse libero quello in cui il popolo «vuol fare ogni cosa da sé, deliberare al posto del senato, eseguire al posto dei magistrati, ed esautorare tutti i giudici» (15), che direbbe oggi dei partiti politici maggioritari che pretendono di fare altrettanto?
I sistemi osservati negli Stati che attualmente si autoqualificano come democrazie formali o materiali, invocanti la sovranità popolare, possono essere ridotti genericamente a tre: l’elezione o acclamazione di un capo carismatico, che è consacrato in modo plebiscitario e che consulta il popolo periodicamente; l’esercizio, guidato e diretto da un partito unico, che si autoproclama rappresentativo dell’autentica volontà popolare; e quello basato sull’elezione di rappresentanti fra quelli proposti dai diversi partiti politici, che competono fra loro per vantare temporaneamente la rappresentanza popolare.
In ognuno di questi casi, in queste cosiddette democrazie governano sempre oligarchie. E quanto ha dimostrato Gonzalo Fernandez de la Mora, seguendo in modo particolare Roberto Michels, nella sua opera La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (16), e Joseph A. Schumpeter in Capitalismo, Socialismo, Democrazia (17), sottolineando l’esistenza di quella che appunto Roberto Michels chiama «legge ferrea dell’oligarchia» e osservando che essa assurge a esigenza assoluta nelle democrazie, nelle quali la massa «sente la necessità di essere guidata, ed è incapace di agire quando le manca un’iniziativa esterna e superiore» (18).
Il primo sistema è chiaramente respinto da quanti attualmente gestiscono il monopolio dell’uso del termine democrazia e lo concedono oppure lo rifiutano nei casi in cui si discute a proposito di questa qualifica a un determinato regime. Non si concede credibilità a nessun referendum che non sia convocato, organizzato e verificato da quanti sono previamente riconosciuti come governi democratici. Questo fatto costituisce il riconoscimento della forza di suggestione della propaganda diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, e la dipendenza del risultato da chi convoca tali referendum, da come li presenta, dall’organizzazione della propaganda e anche da come usa i computer.
Né il barone di Montesquieu né Jean-Jacques Rousseau riconoscerebbero come democrazie quelle qualificate come democrazie di diritto oppure di fatto con partito unico. Se si parte dal giudizio rousseauiano secondo cui la volontà espressa dalla maggioranza non corrisponde alla volontà generale se in essa prevale un interesse privato — dal momento che la volontà generale si identifica sempre con il bene pubblico —, tanto meno si potrà ammettere che questa possa essere monopolizzata da quanti, servendosi del sistema nervoso costituito dal partito unico, mantengono nel popolo con la forza questa pretesa volontà generale, anche se risulta sostenuta in modo schiacciante e plebiscitario. Chiaramente queste democrazie popolari non somigliano per nulla, nelle loro caratteristiche, al «popolo di dèi» che Jean-Jacques Rousseau ha indicato come paradigma della democrazia pura. Esattamente al contrario, sono accompagnate da apparati polizieschi e repressivi, si circondano di cortine di ferro e praticano il totalitarismo di Stato più assoluto, fino a oggi conosciuto, con il suo arcipelago GULag!
Infine, nel terzo sistema, quello in cui i partiti politici sono mediatori fra il popolo e i suoi rappresentanti e governanti, in realtà — come ha pure scritto Gonzalo Fernandez de la Mora — «la sovranità popolare si esercita optando fra oligarchie» (19). Diverse oligarchie si disputano l’occupazione del potere attraverso il suffragio universale. Ogni partito indica i suoi candidati e la scelta fra loro in liste chiuse. Si votano tutti oppure nessuno. In parlamento, il portavoce di ogni partito parla per tutti e, al momento di votare, impera la disciplina di partito. Si può dire che i deputati non sono mandatari dei loro elettori né della nazione, ma del proprio partito politico.
Inoltre, i sistemi elettorali predominanti tendono a ridurre il numero dei partiti con possibilità di assumere il potere o di partecipare a esso. Il voto utile, il voto dettato dalla paura, il voto contrario predominano ampiamente sul voto di piena adesione. Anche se parte del programma non piace, è maggiormente sgradito quello dell’avversario che potrebbe imporsi. Ma anche questi voti determinano in modo dogmatico, attraverso un’ulteriore finzione, il sostegno della cosiddetta «volontà popolare» a tutto il programma del partito trionfante. Dove finisce la democrazia partecipativa oppure quella autenticamente rappresentativa? Una finzione si sovrappone a un’altra in un castello di finzioni, che si basa sulla finzione dell’aliénation totale alla volonté générale!
La selezione dei partiti con possibilità di governare o di partecipare al governo viene predeterminata dal denaro di cui dispone ciascuno di essi. Per questa ragione, le multinazionali economiche o politiche — le internazionali comunista, socialista, democristiana, liberale, conservatrice, con le loro potenti fondazioni di sostegno — hanno un peso sempre maggiore nell’aiuto ai partiti con possibilità di trionfo in ogni paese. Il marketing, la propaganda attraverso gli strumenti più sofisticati, il sostegno di radio, stampa e televisione, costano somme ingenti, e richiedono, perché tale sostegno sia più efficace, un’infrastruttura che deve superare quanto appare come organizzazione di ogni partito.
Le possibilità di scelta da parte del popolo sono molto esigue; e il suo giudizio risulta piuttosto turbato che orientato dalla propaganda. Il barone di Montesquieu segnalava che il popolo «sceglie in maniera ammirevole» quando decide «in base a circostanze che non può ignorare e a fatti controllabili dai sensi» (20). Ma oggi fra quanto dovrebbe conoscere direttamente — con una immediatezza realizzabile soltanto in una piccola repubblica — e la sua opinione si interpone la propaganda. Le tecniche psicologiche sperimentate nella propaganda commerciale — tesa a trasformare ogni uomo in consumatore del prodotto che si cerca di vendere — sono state trasferite alla propaganda politica.
Jacques Ellul ha fatto notare che la propaganda politica applica all’opinione pubblica la stessa illusione creata dalla propaganda commerciale nella massa dei consumatori (21). In questo non vi è differenza fra un regime dittatoriale e un regime democratico. Si proclama l’onnipotenza di questa opinione e talora la si prepara, la si eccita, le si fa chiedere quanto si vuole imporre a essa. L’universo politico è un universo reale soltanto in rapporto a una neorealtà fittizia sovrapposta; è un universo psicologico creato a forza di slogan e di immagini in bianco e nero, di parole chiave — «popolo», «razza», «proletariato», «lavoro», «collaborazione», «dialogo», «fascismo», «democrazia», «libertà», «capitalismo» — che aprono o chiudono la via all’accettazione di qualsiasi suggerimento, che fanno vivere l’uomo in un universo particolare con la sua logica e la sua coerenza e che lo rendono sempre più incapace di arrivare a cogliere da solo il mondo reale. Si tratta di un universo mentale in cui tutto si riduce a immagini oppure tutto è immagine. Si ingigantiscono, si riducono oppure si trasformano non solo alcuni fatti, ma tutti nel loro insieme; in realtà, nei mass media of communication le immagini verbali oppure visive compongono tutto il mondo in cui vive l’uomo moderno.
Riferendosi alla nuova galassia audiovisiva ed elettronica produttrice della «esteriorizzazione dei sensi», creatrice di quello che «un biologo alquanto romantico, Pierre Teilhard de Chardin», chiama «noosfera», cioè «un cervello tecnologico mondiale», Herbert Marshall McLuhan dice che, «invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza»: «così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica», conosceremo una fase «appropriata ad un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto» (22).
Come nelle tribù guidate dallo stregone, le conoscenze non si ottengono nella realtà naturale ma nei momenti in cui si entra in comunione magica, fantastica o subreale, che ora si cerca di provocare attraverso i mezzi audiovisivi, cinematografici oppure elettronici.
Dunque, tutta la politica attuale si basa su miti come quello del contratto sociale, oppure su dogmi come quello della sovranità popolare, trasferita — contro l’opinione del suo formulatore — alla maggioranza parlamentare, che in realtà rappresenta soltanto il partito dominante.
Se la scienza moderna ha progredito partendo da teorie o da ipotesi scientifiche usate come impalcature, con il sostegno delle quali avanza sperimentalmente, finché non esauriscono la loro forza nel dare impulso al progresso e appena si sono esaurite vengono abbandonate, perché.la nostra praxis politica continua ad appoggiarsi su alcuni miti, sui quali è evidente che quanto si costruisce nella maggior parte dei paesi finisce per trasformarsi in torre di Babele oppure in arcipelago GULag?
Forse accade perché da questi miti traggono vantaggio le oligarchie che si spartiscono e si disputano il mondo e dalle quali sono dipendenti gran parte di quelle che governano i diversi paesi, con le loro coorti di professionisti di questo tipo di politica.
Il principio edonistico della sicurezza di un determinato livello di benessere senza responsabilità — incompatibile con la virtù civica delle democrazie prese in esame dal barone di Montesquieu — che oggi è predominante, è spinto da queste oligarchie, che così impongono quel nuovo dispotismo previsto da Alexis de Tocqueville (23), che è stato descritto da Aldous Huxley come letteratura futuristica (24) e che è già vissuto nel «paradiso» di un «nuovo totalitarismo» (25).
Contrariamente a quanto crede Louis Althusser, ha quindi avuto ragione il barone di Montesquieu. La vera democrazia. oggi ancora più che al suo tempo, non esiste affatto e può esistere difficilmente benché le oligarchie che reggono, alternativamente oppure monopolisticamente, i diversi governi, lo facciano credere al popolo che, allo scopo, è trasportato in un mondo irreale attraverso la propaganda.
Juan Vallet de Gojtisolo
Note:
(1) CHARLES DE SECONDAT, barone di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Avvertenza dell’Autore, trad. it.. 2a ed. aggiornata, UTET, Torino 1965, vol. I, p. 47. Sul pensiero di Charles de Secondat, cfr. il mio Montesquieu: leyes, gobiernos y poderes, Civitas, Madrid 1986.
(2) CH. DE SECONDAT, op. cit., ibidem.
(3) Ibid., parte prima, libro quarto, capo V, pp. 104-105.
(4) Ibid., p. 105.
(5) Ibid., parte prima, libro terzo, capo III, p. 86.
(6) Ibid., pp. 85-86.
(7) Cfr. ibid., pp. 85-87.
(8) JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Il contratto sociale o principi di
diritto politico, libro III, capitolo IV, in IDEM, Scritti politici, trad. it., UTET, Torino 1970, p. 776.
(9) Ibid., pp. 776-777.
(10) Ibid., libro III, capitolo XV, pp. 801-802.
(11) LOUIS ALTHUSSER, Montesquieu. La Politique et l’Histoire, Presses Universitaires de France, Parigi 1959, cap. IV, I, pp. 59-60.
(12) Cfr. LOUIS SALLERON, La réligion démocratique, in Itineraires, n. 74, giugno 1963, pp. 62 ss. L’espressione data, per lo meno, da CHARLES MAURRAS, La démocratie religieuse, Nouvelle Librairie Nationale, Parigi 1921.
(13) Cfr. L. SALLERON, art. cit., pp. 66 ss., che attribuisce l’ampia estensione di questa qualificazione al trionfo degli Alleati nella seconda guerra mondiale, che ha conglobato i regimi politici dei vincitori, quello imposto ai paesi vinti e quelli adottati dai popoli usciti dal regime coloniale.
(14) J.-J. ROUSSEAU, op. cit., libro II, capitolo III, p. 743.
(15) CH. DE SECONDAT, op. cit., parte prima, libro ottavo, capo II, p. 209.
(16) Cfr. ROBERTO MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, trad. it. della 2a ed. tedesca riveduta e accresciuta (Alfred Kröner Verlag, Stoccarda 1925), il Mulino, Bologna 1966.
(17) Cfr. JOSEPH A. SCHUMPETER, Capitalismo, Socialismo, Democrazia, trad. it., 2a ed., Comunità, Milano 1964.
(18) GONZALO FERNÁNDEZ DE LA MORA, La partitocracia, IEP, Madrid 1977, cap. II, pp. 27 ss.
(19) Ibid., p. 49.
(20) CH. DE SECONDAT, op. cit., parte prima, libro secondo, capo II, p. 68.
(21) Cfr. JACQUES ELLUL, L’illusion politique. Essai, nuova ed. riveduta e ampliata, Laffont, Parigi 1977, capitolo III, pp. 137-187.
(22) HERBERT MARSHALL MC LUHAN, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, trad. it., Armando, Roma 1981, pp. 59-60.
(23) Cfr. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, libro secondo, parte quarta, capitolo sesto, in IDEM, Scritti politici, trad. it., UTET, Torino 1968, vol. secondo, pp. 810-813.
(24) Cfr. ALDOUS HUXLEY, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, trad. it., Mondadori, Milano 1971.
(25) Cfr., sul «paradiso svedese», ROLAND HUNTFORD, Le
noveau totalitarisme, trad. francese, Fayard, Parigi 1975, soprattutto cap. XV, pp. 241-251.