Giovanni Cantoni, Cristianità n. 112-113 (1984)
La versione «riformistica» della «dittatura del proletariato» per la transizione al comunismo di una nazione occidentale e cristiana, che oppone resistenza passiva.
Suggerita dal congresso socialistico di Verona
La via italiana all’«autogestione»
Venuto meno l’effimero politico che ha caratterizzato il trionfo funebre di Enrico Berlinguer, appare con una chiarezza meridiana, oltre l’effimero stesso, che la nostra nazione – ma una proiezione mondiale del giudizio sarebbe tutt’altro che difficile – è sostanzialmente retta da un regime in cui le differenze tra le forze politiche ufficialmente concorrenti sono semplicemente funzionali, di volta in volta, alla conquista del consenso oppure al disorientamento del dissenso.
In altre parole, la nostra nazione è organizzata in uno Stato retto da un partito unico, da una unica setta, che riesce ad accreditare come diversità quelle che, a ben vedere, sono sue pure e semplici articolazioni; e a fare accettare come lotta politica scontri di corrente, quando non semplicemente personali, dal momento che, in ultima analisi e istanza, «non ci sono discrepanze sul cosa fare e su come farlo; ma solo su chi debba farlo» (1).
Questa sintetica diagnosi – che mi pare di avere già verificato a proposito delle risultanze del XVI congresso della Democrazia Cristiana (2) – merita certamente – come ho detto – di essere presentata anche a proposito della situazione mondiale, dove forse tollera le maggiori semplificazioni.
In questa occasione, credo pero sia di particolare importanza osservare con attenzione il quadro politico nazionale, per mettere in risalto soprattutto il «cosa fare» e il «come farlo», abbandonando un momento l’attenzione su «chi debba farlo».
Dove reperire informazioni adeguate sull’argomento? Credo che fonte privilegiata sia, senza ombra di dubbio, il recente congresso del Partito Socialista Italiano, celebrato a Verona dall’11 al 14 maggio 1984. Quale la ragione di questo giudizio relativo al carattere privilegiato della assise socialistica? Perché, con ogni evidenza, i potenti di questo mondo hanno sostenuto e sostengono il Partito Socialista, indipendentemente dal consenso popolare che a esso arride; quindi, è la guida designata del processo rivoluzionario nel nostro paese, anche dopo i tutt’altro che entusiasmanti risultati elettorali del 17 e del 24 giugno 1984 (3).
Perciò, se qualcuno non si è lasciato distrarre dagli applausi all’on. Craxi oppure ingannare dai fischi all’on. Berlinguer, e ha trovato la forza di penetrare nelle pieghe di molti interventi congressuali o paracongressuali, ha certamente incontrato risposte non insignificanti circa il «cosa fare» e il «come farlo».
La «società bloccata»: scolarizzazione di massa e mobilità sociale
Parto dal «cosa fare» e, soprattutto, dal giudizio che ne costituisce la premessa. Lo ricavo dall’importante intervento dell’on. Valdo Spini, vicesegretario del partito, che rileva come «la mobilità sociale risulta in Italia piuttosto scarsa.
«Il sistema tende infatti a riprodursi in una “società bloccata”, nel senso che la scolarizzazione di massa ha per il momento fatto sentire pochi effetti in termini di mobilità sociale».
Infatti, «nonostante la riqualificazione dell’apparato produttivo, […] un vero e proprio “collo di bottiglia” nel mercato del lavoro, attraverso cui deve passare l’immissione dei più scolarizzati, in particolare i diplomati, fa sì che pesantissime si facciano sentire le inequità nell’inserimento al lavoro, nel quale trovano ampio spazio i meccanismi di cooptazione delle parentele, delle conoscenze, delle clientele che limitano la mobilità sociale». Quindi, conclude sul punto l’autorevole esponente socialista, «un socialismo moderno non può e non deve accettare una società bloccata», e deve operare per «sbloccare la società italiana» (4).
Passo a decifrare la nuova formula «società bloccata», che credo si possa così esplicitare: nonostante la scolarizzazione di massa, il «popolo» non si lascia ridurre a «massa» (5) e il processo di atomizzazione della società, la sua «soluzione», se incompleta, non favorisce, ostacola anzi, la sua «coagulazione», cioè la ricostruzione artificiale della società stessa che, di contro, tende a riprodursi organicamente secondo modalità che tengono presenti parentele, amicizie, conoscenze, rapporti umani e sociali che privilegiano rispetto alla «qualificazione» derivante dalla scolarizzazione statalistica di massa. Quindi, nella prospettiva della Rivoluzione oggi – il «socialismo moderno» – si deve procedere alla eliminazione di ogni residuo coagulo organico, sia svalutandolo attraverso la definizione di «rapporto clientelare», sia procedendo a una lotta contro di esso alla radice, in statu nascenti.
Se lo scopo del processo è chiaro – dal momento che consiste con ogni evidenza nella atomizzazione del popolo, cioè del corpo sociale considerato nella sua organicità, e nella sua trasformazione in massa, per favorire una sua ricostruzione tecnocratica, connotata da pratiche di ingegneria sociale -, ci si deve ora chiedere quali sono i mezzi e i metodi indicati per produrre quanto è identificato con il termine «mobilità sociale».
Assolutamente senza la pretesa di esaurire il quadro, mi limiterò ad affiancare al «cosa fare» qualche elemento che illumini il «come farlo», nonché la sorgente mitologia verisimilmente destinata a coprire la intera operazione.
Dunque, nelle tesi per il 43° congresso del Partito Socialista, sotto il titolo Per la valorizzazione del capitale umano, si può leggere di un «sistema formativo allargato», «che non si identifica più con la scuola e con l’università, ma pervade l’intera società (società educante)», e che si richiama, per la sua realizzazione, a tre princìpi: «a) Educazione per la libertà», che «implica una scelta per una scuola laica che preveda cioè al suo interno, come fatto formativo, il pluralismo dei valori, delle ideologie, delle credenze, in contrapposizione ad ogni ipotesi sia di sovietizzazione che di libanesizzazione delle strutture scolastiche»; «b) Educazione per l’uguaglianza» e, quindi, «c) Educazione per lo sviluppo». «Le scelte programmatiche dei socialisti per la formazione – prosegue il documento – si articolano in cinque punti: […] «a) L’istruzione di base va riformata così:
«– primo ciclo di educazione infantile da 3 a 4 anni;
«– due successivi cicli di istruzione elementare, con inizio anticipato ai cinque anni, da strutturare per aree disciplinari con progressiva specializzazione degli insegnanti, introduzione dell’insegnamento di una lingua straniera e principii di informatica;
«[…]
«– prolungamento dell’orario scolastico in tutta la fascia dell’obbligo […];
«– specializzazione accurata del personale.
«b) Scuola secondaria superiore e formazione professionale vanno ricomposte in un alveo unitario: al centro un nucleo centrale comune con un biennio iniziale che estenda l’obbligo scolastico dagli attuali otto a dieci anni», e così via fino alla proposizione secondo cui «i socialisti ritengono necessario provvedere al più presto al riordino degli organi collegiali di base (classe e istituto) onde rialimentare un’esperienza che ha fornito un contributo positivo alla democraticità della gestione della scuola ed al suo miglior funzionamento» (6).
Se le parole hanno un senso, poiché la scolarizzazione di massa non ha prodotto – o ha prodotto in misura insufficiente – la auspicata «mobilità sociale», tale scolarizzazione va resa più incisiva. Allo scopo si prevede un suo inizio anticipato, una sua estensione quantitativa, una moltiplicazione dei riferimenti pedagogico-autoritativi, facendo del momento pluralistico nelle istituzioni e non delle istituzioni un elemento formativo e non semplicemente organizzativo, cioè proponendo un relativismo coatto, e preparando un mondo caratterizzato da «un’estrema precarietà di tutte le funzioni professionali, e un’estrema mobilità da posto di lavoro a posto di lavoro, e da mestiere a mestiere»; e da «una modularizzazione del lavoro (lavoro plurimo) che permettesse a tutti (giovani e adulti) di integrare prestazioni lavorative meno realizzanti (ma anche per questo ben retribuite) con prestazioni lavorative più realizzanti, e più congrue alle competenze conseguite nei processi formativi».
«Centrale nella vita lavorativa la formazione lo sarà anche nella vita sociale in genere, e ciò perché l’ampliamento del tempo libero, la straordinaria diffusione dei mezzi di comunicazione, ed in particolare di quelli personalizzati (informatica distribuita, telematica), la crescita delle occasioni. di consumo ed anche, in qualche misura, di creazione, di cultura e di conoscenza, porranno ogni cittadino nella necessità di un apprendimento continuativo, condizione per una sua partecipazione attiva alle relazioni sociali» (7).
Pressione fiscale e precarietà sociale
Se quanto ho descritto dice riferimento al plesso educazione-lavoro, non mancano spunti che lasciano intravedere un’altra modalità di estensione della mobilità e della precarietà sociali, per esempio quando si dichiara che «i socialisti hanno da tempo individuato nel patrimonio immobiliare il cespite su cui applicare il nuovo tributo locale» (8); quando si indica «tra gli altri obiettivi prioritari di politica tributaria […] un ulteriore allargamento della base imponibile legale» (9); quando si denunciano «aree di evasione vergognose» e «fasce molto vaste soprattutto nel lavoro autonomo che resistono ai loro doveri verso la collettività» (10); quando si incita il «capo» in questi termini: «Apri le banche, penetra nelle officine, metti sulla bilancia i redditi e […] intacca la ricchezza enorme dei trafficanti e imponi la legge patrimoniale» (11); quando si propone di «allargare la base imponibile» (12); quando si sentenzia che «occorre elevare la pressione fiscale» (13); quando si sollecita il ministro Visentini «ad introdurre il reato di evasione, come reato generale, accanto a quelli relativi alle singole infrazioni fiscali» (14); quando si dichiara che «per raggiungere l’obiettivo di una politica fiscale più giusta, bisogna operare nel campo del cosiddetto “reddito da lavoro autonomo” secondo una logica che punti», tra l’altro, «ad intervenire a monte dell’attività produttiva», nonché «ad inserire meccanismi automatici di prelievo» (15); quando, infine, si definisce l’aggressione di cui ho descritto i termini, come «l’obiettivo esaltante di tutto il mondo del lavoro» (16).
«Una società giusta, una democrazia governante»
Dopo qualche spunto sul «come fare» in specie, per proseguire in tema di «cosa fare», che consiste nello spappolamento del corpo sociale per renderlo atto e prono alla ricostruzione rivoluzionaria, vengo alla mitologia del «come farlo», che mi pare possa essere individuata nella formula «democrazia governante».
Lo slogan «una società giusta, una democrazia governante» ha accompagnato in epigrafe ogni pagina del quotidiano socialistico dedicata alle cronache e agli interventi congressuali. Nel corso del congresso stesso, poi, i riferimenti a tale slogan sono stati numerosi: inversamente proporzionali, per non dire assenti, le definizioni, come nel caso di ogni «parola-talismano» che si rispetti (17)! Quanti italiani, infatti, sentendo oppure distrattamente leggendo la formula «democrazia governante» non la danno, ovviamente e semplicemente, come equivalente a «democrazia funzionante» oppure, più gergalmente, a «democrazia connotata dal carattere della governabilità»?
Comincio a fare stato di qualche riferimento: «la democrazia governante è una necessità dello sviluppo sociale»: ci assicura Giuseppe Tamburrano (18); «una società più giusta e […] una democrazia realmente governante» sono autorevolmente auspicate da Bettino Craxi (19); Claudio Signorile ci svela che «la democrazia governante» è «la base» di «un contratto sociale che sostituisca quello in crisi» (20); Mario Zagari sostiene che «il problema di una democrazia governante si pone in termini più urgenti ecc.» (21); «Sono necessarie riforme – insiste il segretario del partito – per accrescere il grado di governabilità del nostro sistema secondo l’idea di una democrazia che governa. L’idea di una “democrazia governante” esprime il più alto ed il più sincero dei propositi democratici» (22).
Poiché, con ogni evidenza, le affermazioni non sono spiegazioni, quali necessiterebbe un termine che di fatto irrompe nel già lussureggiante orto del gergo politico nazionale, credo si imponga una indagine un poco più accurata. Dall’ormai classico Democrazia e definizioni del più noto politologo italiano, Giovanni Sartori (23), sono condotto a chi ha sviluppato la distinzione tra «democrazia governante» e «democrazia governata», facendo di questi ultimi gli elementi di una nuova classificazione, e cioè a Georges Burdeau. Nella evidente impossibilità di fare stato, almeno in questa occasione, dei volumi VI e VII del suo ponderoso Traité de Science Politique (24), mi affido a una interpretazione autentica del pensiero in essi racchiuso, fornita dall’articolo Democrazia redatto dallo stesso Burdeau per la Enciclopedia del Novecento (25).
La «democrazia governata»
«La democrazia governata – dice dunque Georges Burdeau –, forma prima della democrazia rappresentativa, è un regime in cui il popolo è incontestabilmente sovrano, giacché i governanti promanano da lui e inoltre esso è signore dell’opera compiuta dalle istituzioni dello Stato. Solo che la maniera in cui viene chiamato a costituirsi – mediante il suffragio – e quella in cui i meccanismi costituzionali fanno emergere la sua volontà – mediante un compromesso tra le tendenze reali – fanno sì che il popolo sia il supporto di un insieme di valori oggettivamente determinati e indifferenti agli impulsi della folla come alle fantasie individuali. La molla morale di questa democrazia, costruita razionalmente perché nata non da una rivolta degli umili, ma dalla speculazione degli scrittori politici, è il civismo, la più eroica delle virtù; la sua molla politica è il cittadino, vale a dire un tipo d’uomo prodotto esclusivamente dalla ragione e dalla cultura. Ne risulta che, in un tale sistema, è il cittadino che governa, mentre gli uomini reali – con le loro personali predilezioni, i loro bisogni. i loro interessi e le loro ambizioni – sono governati. Ma questo regime è democrazia governata in misura anche maggiore a causa dell’indipendenza di cui godono in esso i governanti. Certo, a termini di legge, le loro decisioni debbono ispirarsi ai desiderata popolari. Ma di fatto essi sono indipendenti, perché sono stati investiti del potere non già per essere i portavoce di una classe o di una tendenza sociale determinata, ma per dire ciò che la nazione vuole nella sua unità e indivisibilità. Il mandato che ricevono è la testimonianza di una fiducia che li libera e non già di un sospetto che li paralizzerebbe». Di questo modello o paradigma politico si può dire che, «dal momento in cui gli uomini l’introdussero, timidamente, nelle istituzioni, la sua fisionomia è rimasta sostanzialmente immutata per più di un secolo. La mancanza del mandato imperativo, che di questa fisionomia è il tratto essenziale, non è forse sopravvissuta fino ai nostri giorni? […].
«A livello di attuazione pratica la democrazia governata è stata realizzata mediante una particolare tecnica di formazione delle decisioni statali: la tecnica del “governo deliberativo”. Con ciò bisogna intendere non soltanto che ogni decisione deve essere stata sottoposta a discussione, ma anche che essa deve la propria autorità appunto all’esistenza di questa discussione. Il governo deliberativo ha per scopo di evitare l’effetto brutale della legge del numero, pur consentendo di ascrivere al popolo la soluzione che, alla fine, sarà prevalente».
«Far dipendere ogni decisione dall’esito di un dibattito – prosegue Burdeau –, da cui appunto essa deriverà la propria forza, non solo significa affermare in linea di principio l’eccellenza della discussione, ma presupporre anche che è sempre possibile giungere a una decisione. Ora, tale possibilità implica che si escludano dal dibattito le questioni su cui non è pensabile alcuna intesa. Perché il dibattito possa aver luogo occorre che sia accettato un linguaggio comune, vale a dire che per tacita convenzione un certo numero di princìpi fondamentali sia considerato fuori discussione. È per tutto ciò che la democrazia governata e il regime deliberativo, che ne è la formula di governo, si confanno perfettamente alla filosofia liberale. Su di un piano politico il liberalismo vieta al potere qualsiasi pretesa di rifare il mondo: esso non lo autorizza che a gestire la società esistente e soltanto nella misura in cui non sia in grado di provvedervi la libera iniziativa individuale. È chiaro che i governi non potrebbero attenersi a una funzione così limitata qualora si ammettesse che il popolo può esigere una trasformazione dell’ordine sociale esistente al fine di correggere le ingiustizie sociali. Il principio per cui il suffragio esprime soltanto delle volontà di cittadini risponde a questa considerazione. Ne consegue che sono argomento di discussione soltanto opinioni esenti da qualsiasi istanza di classe. La deliberazione è possibile perché non concerne ciò che è essenziale nella vita quotidiana dell’individuo. La gestione della società esistente non coinvolge i valori fondamentali cui si rifanno le ideologie; essa non mette in discussione le convinzioni su cui sarebbe impossibile transigere. Ciò spiega come mai il regime della discussione si confaccia alla modestia di questa attività di gestione: esso provvede ai bisogni di una società considerata omogenea dal punto di vista politico. Il regime della discussione non implica sconvolgimenti delle strutture economiche e non coinvolge il destino dell’uomo nella sua totalità. Esso si colloca a livello dei metodi, delle tecniche, delle procedure, in una parola di tutto ciò di cui è possibile discutere per la ragione appunto che non tocca l’essenziale. La democrazia governata è inseparabile dalle modeste finalità che il liberalismo assegna al potere. […]
«Sul piano delle tecniche di governo, la democrazia governata ha trovato il suo strumento più appropriato nel regime parlamentare. Certo, si potrebbe osservare che quest’ultimo sopravvive oggi nel contesto di numerose democrazie governanti. Ma in effetti ciò che vi permane è la lettera, non lo spirito del parlamentarismo. La comparsa del regime parlamentare ebbe luogo al punto d’incontro di due linee evolutive: da un lato quella che segnava l’accrescersi del prestigio dell’organo della rappresentanza nazionale, il Parlamento, e dall’altro quella che vedeva l’indebolimento del potere regio. Al punto d’intersezione tra la curva ascendente del potere parlamentare e la curva discendente dell’autorità monarchica, i due poteri risultavano equivalenti […]. L’essenza del parlamentarismo sta appunto in questo dualismo del potere, che, senza escludere la volontà del popolo, permette di decantarne le esigenze. E a ciò si deve se il regime parlamentare è stato il mezzo per adattare il liberalismo alla democrazia. Tuttavia non si è trattato che di un regime di transizione. […] [Infatti,] malgrado la sopravvivenza dei meccanismi del parlamentarismo – scioglimento o voto di fiducia – è un regime di assemblea quello che […] si instaura, che è poi quello voluto dalla logica della democrazia governante».
La «democrazia governante»
Dopo avere così, per sommi capi, ma non senza felici tratti, descritto il riferimento costituito dalla «democrazia governata», il politologo francese si avvicina all’oggetto del nostro interesse: «Avendo escluso dai propri mezzi di sostegno il soccorso delle ideologie consolatorie, rifiutando l’appoggio delle risorse emotive delle masse, non facendo appello che al suo valore razionale per definire l’interesse di una collettività unificata in quanto astratta, il governo deliberativo non è potuto sopravvivere alla smentita che i fatti hanno dato al suo ottimismo. Esso aveva fidato sulla ragione e sul progresso di cui questa sarebbe immancabilmente promotrice. Agli occhi del popolo, la sua legittimità si dissolse quando la volontà popolare, nutrita dei disinganni e delle aspirazioni degli individui reali, cessò di riconoscersi in norme e decisioni risultanti da procedure il cui vero scopo era di tenerli lontani. L’avvento politico del popolo reale, per il fatto stesso che esso rendeva impraticabili le sottigliezze del regime della discussione, impose un nuovo modo di intendere la democrazia, secondo il quale il popolo non ha più bisogno né di chi interceda per lui né di mentori: la democrazia governante.
«Ciò che distingue la democrazia governante dalla democrazia governata non sono le differenze di organizzazione costituzionale o per lo meno queste non svolgono che un ruolo secondario, e neppure contrastanti tecniche di governo, ma, fondamentalmente, il fatto che nei due regimi la volontà popolare non è la stessa. Essa differisce a un tempo per la sua origine, per la sua sostanza e per il suo modo di manifestarsi. La sua origine è il popolo degli uomini “situati”, realtà sociologica e non entità artificiosamente costruita per preservare l’unità nazionale. La sua sostanza è data dalle esigenze derivanti dal disagio delle situazioni individuali e non da un compromesso tra le aspirazioni degli uomini e i limiti che ad esse imporrebbero gli obblighi di un ordine sociale ostile al loro esplicarsi. La sua manifestazione è quella che le dà direttamente il popolo e non risulta da decisioni discusse, meditate ed elaborate da organismi che parlano in suo nome. Con la democrazia governante la volontà risiede nel popolo e vi resta. Mentre con la democrazia governata tutto ciò che era legge era considerato senza riserve volontà del popolo, ma non ogni volontà del popolo era legge, la democrazia governante eleva a legge la vox populi. Ciò che essa vuole importa poco; basta che voglia.
«Costruita su un siffatto fondamento, la democrazia governante tende naturalmente all’instaurazione della democrazia sociale. Pur non essendo essa stessa la democrazia sociale, ne è per lo meno lo strumento. In effetti, dato che è la maggioranza che comanda e che, all’epoca in cui questa formula ebbe origine, la maggioranza la impose proprio perché constatava l’impotenza della sola libertà politica a emanciparla da tutte le forme di oppressione economica e sociale, è inevitabile che la parte meno favorita del gruppo nazionale cerchi di utilizzare il potere per trasformare la società. Trasformazione che sarà possibile soltanto quando il popolo avrà instaurato il proprio controllo su tutti i centri decisionali. Ed è così che alla democrazia governata, che era una garanzia delle libertà già acquisite, si oppone la democrazia governante, che è piuttosto un processo di liberazione.
«Ed è perciò che quest’ultima è, nella sua essenza, un regime di lotta. Regime di lotta innanzi tutto sul piano sociale, perché ripudia il mito dell’omogeneità nazionale per considerare soltanto ciò che per essa è l’unica realtà: il conflitto delle classi. Il motore della politica è il conflitto permanente tra i difensori dell’ordine costituito e l’immagine di un futuro desiderabile: cioè quello di una società giusta. Ma regime di lotta essa è anche sul piano politico, perché questa visione di un avvenire migliore suscita poteri di fatto che si pretendono qualificati a realizzarlo. Contro questi, altri poteri di fatto si organizzano per la resistenza, talché tutta l’energia politica viene assorbita da tali forze che si costituiscono a livello della collettività. Il potere statale non è più protagonista: esso è soltanto la posta in giuoco. La sua autorità non gli appartiene in proprio: è solo quella che i partiti sono disposti a consentirgli, ed essi se ne appropriano là dove essa maggiormente si manifesta: nelle fabbriche, nei campi e nelle piazze. È qui infatti che bisogna conquistarla per imporla poi ai poteri pubblici. Ne deriva che la democrazia governante è infine un regime di lotta anche a livello delle stesse istituzioni costituzionali. Tutti i meccanismi creati per dar corpo alla democrazia governata vedono il loro funzionamento alterato dall’energia nuova che li utilizza. La rappresentanza non è più uno strumento destinato a designare i più saggi, ma un mezzo per sapere chi sono i più numerosi. I parlamenti non sono più le sedi dove si confrontano le opinioni perché ne emerga una decisione accettabile per tutti, ma arene in cui si affrontano forze costituitesi già al di fuori. La separazione dei poteri, concepita per garantire all’esecutivo la libertà indispensabile al suo compito, degenera in una gerarchia in cui un’assemblea onnipotente subordina a sé un governo da essa nominato e revocato a discrezione. Le stesse procedure vengono stravolte quando rischiano di ritardare la soddisfazione delle rivendicazioni maggioritarie. Certo, la democrazia governante non si ritrova intatta nella pratica che ad essa si richiama, più di quanto si ritrovi la democrazia governata. La vastità stessa di ciò che il popolo vuole, condanna quest’ultimo a non poterlo fare in prima persona Di conseguenza riappaiono coloro che intercedono per lui. L’identificazione di governanti e governati è ricollocata in una prospettiva lontana. Ma almeno è questa la prospettiva che guida il sistema, come del resto ne spiega le difficoltà di funzionamento» (26).
«Il fascino della democrazia»
Dalla classificazione proposta da Georges Burdeau – e che ho ampiamente riportata, proprio per la sua particolare efficacia e perspicuità – emergono elementi del quadro storico nel quale viviamo, quindi già realizzati, e precisamente questo «già accaduto» e «già realizzato» acuisce l’interesse per quanto non è ancora storicamente verificabile. Comunque, se ne ricava una nozione di democrazia assolutamente indeterminata, non paradigmatica, in transizione dalla versione «governata» a quella «governante», cioè chiaramente orientata verso la eliminazione della distinzione tra società e Stato attraverso la distruzione di quest’ultimo e la «lotta continua» dichiarata a ogni e qualsiasi sua reincarnazione, per altro ritenuta inevitabile nel giudizio che riconosce la «maledetta naturalità» del riproporsi della dicotomia tra governanti e governati, espressione esistenziale della oggettività della legge e dell’autorità, e della loro fonte esterna all’uomo. Ma si tratta semplicemente di spunti, che in questa occasione importa anzitutto descrivere e identificare. E da questo punto di vista rileva particolarmente una notazione dello studioso francese, che afferma: «Il fascino della democrazia sta proprio nel suo non esser mai pienamente realizzata. E non si tratta di uno slogan: si è voluta la democrazia nello Stato, e si è avuta la democrazia politica; la si è voluta nei rapporti economici, ed è stata la democrazia sociale; la si è voluta nell’impresa, ed ecco l’obiettivo della democrazia industriale; la si vuole ora nella scuola, nella famiglia, nell’esercito e addirittura, come testimoniano recenti incidenti, nelle prigioni! Tale progressione, lungi dall’essere una degenerazione patologica dell’idea democratica, ne rivela l’essenza» (27).
Strategia e tattica della «transizione» socialistica
Lo slogan «una società giusta, una democrazia governante» acquista quindi, alla luce della illustrazione scientifica fornita da Georges Burdeau – nella quale trovano posto entrambi i termini – caratteri programmatici, che tento ora di inserire nel panorama fornito dalla situazione italiana.
Dunque, la Rivoluzione in Italia – caso rilevante del sistema «Rivoluzione in Occidente» – ha dovuto rinunciare all’uso prevalente dei metodi violenti, e ha operato per anni attraverso una sorta di Kulturkampf, di ideazione gramsciana, consistente nella inoculazione nella cultura della nazione di germi di sovvertimento. Anche questo procedimento si è però rivelato non risolutivo, anche se, evidentemente, molto proficuo. Perciò, oltre il dilemma costituito dalla violenza da una parte e dalla corruzione culturale dall’altra, si è immaginata una ulteriore modalità, consistente nell’indurre il corpo sociale a farsi violenza da se e ad autocorrompersi, ad autodemolirsi. La operazione si fonda sulla estrapolazione del metodo democratico dal campo politico – dove, in una versione assolutamente bene definita e limitata, ha una sua liceità, anche se non titolo di privilegio -, e sulla sua surrettizia applicazione nei più diversi settori della società, sotto specie di decentramento e di autonomia (28). Senza ombra di dubbio si tratta di quanto già corre in altri paesi e nel corpo di altre nazioni con il nome di «autogestione» (29), e che in Italia – dove la pubblica opinione è abbastanza informata su quanto accade in Jugoslavia e in Francia – viene presentato con il nome di «democrazia governante». La speranza latente in chi si fa promotore della manovra è che il corpo sociale – per sottrarsi all’interventismo e al dirigismo statalistico – si lasci indurre a proteggersi da queste minacce, operanti o imminenti, applicando a sé stesso e di propria iniziativa procedimenti letali, in quanto assolutamente estranei e nocivi alle singole espressioni della sua vita e della sua realtà. Così, per esempio, si spera e si tenta di indurre incauti non alla difesa politica della scuola privata cattolicamente orientata, ma alla politicizzazione di ogni scuola, nella quale, attraverso il gioco della maggioranza e della minoranza, si garantirebbe, dal punto di vista organizzativo e culturale, l’esercizio del diritto primario dei genitori alla educazione dei figli. In altre parole, e più drammaticamente, avendo la Rivoluzione giudicato imprudente – sulla base di precise esperienze storiche – tentare la schiavizzazione brutale dell’uomo occidentale e cristiano, e non essendo riuscita a conseguire risultato identico attraverso un metodico processo di avvelenamento culturale, cioè insieme intellettuale e morale, opera per indurlo al suicidio, sotto specie di autonomia e di affrancamento, cioè nella prospettiva di liberarsi dalla morte con cui lo minaccia!
La manovra in questione non comporta assolutamente l’abbandono da parte della Rivoluzione delle posizioni di potere statuale conquistate o delle pratiche di influenza culturale. La «democrazia governante» si situa senza difficoltà all’interno del più vasto processo rivoluzionario: «Tra la società capitalistica e la società comunista – nota Karl Marx nella Critica del programma di Gotha – vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione» (30). Dal commento a questo testo marxiano, Lenin ricava tre nozioni di democrazia: «La società capitalistica non ci offre dunque che una democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la sola minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione verso il comunismo istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una democrazia veramente completa; e quanto più sarà completa, tanto più rapidamente diventerà superflua e si estinguerà da sé» (31). Queste tre «democrazie» stanno fra loro in un rapporto dinamico, configurano cioè una democrazia in mutazione che, lasciatasi alle spalle le proprie versioni limitate ed empiriche, quindi storiche e tradizionali – «alla svizzera» o, almeno, alla «anglosassone» -, inaugura un regime democratico di fatto ancora largamente limitato, ma privo di freni reali dal punto cli vista dei principi: si tratta della «democrazia governata» liberale, secondo la tipologia di Burdeau; della «democrazia per i soli ricchi, per la sola minoranza», secondo Lenin. Da questo momento inizia la marcia verso «una democrazia per il popolo, per la maggioranza»: è la «democrazia governante», destinata a estinguersi anch’essa e, quindi, a produrre a fortiori la estinzione dello Stato. «Nel regime capitalistico […] lo Stato […] [è] una macchina speciale per la repressione di una classe da parte di un’altra e per di più della maggioranza da parte della minoranza. […]
«In seguito, nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la repressione è ancora necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di sfruttati contro la minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la macchina speciale di repressione, lo “Stato” è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio», e la repressione «è compatibile con una democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale di repressione» (32). Dunque, a chiare lettere, «democrazia per l’immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla democrazia, per gli sfruttatori, per gli oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo» (33).
Verso una società «totalmente istituzionalizzata» e una «democrazia di massa»
In questi «anni di transizione e di trasformazione» (34), la teoria scientifica esposta da Burdeau e la teoria rivoluzionaria di Lenin, mediate da Marx, permettono di identificare correttamente nel sistema che combina l’appello al rafforzamento delle istituzioni, alla «Grande Riforma», con l’incitamento alla ipertrofia della democrazia, al suo illimitato debordare – che si traduce nella perfezione del democratismo -, la versione «riformistica» della «dittatura del proletariato», sic et simpliciter impraticabile in Occidente: viviamo in una fase di transizione verso il comunismo, e il socialismo si caratterizza sempre più per la convivenza di elementi di comunismo con i poteri dello Stato «borghese», per schiacciare a tenaglia ogni resistenza sopravvivente, provocando tra l’altro, attraverso la pratica della «democrazia governante», una sorta di autopersecuzione del corpo sociale e così riducendo la «necessità» della persecuzione da parte dello Stato, con cui i perseguitati sono indotti a collaborare.
«L’aggiornamento dei nostri istituti – sentenzia il segretario socialista – è una necessità universalmente riconosciuta. Società ed istituti vivono ormai a due velocità diverse. Ci si scontrerà, se non interverranno modifiche. Io sono convinto che una società moderna deve essere totalmente istituzionalizzata; e oggi vediamo invece una larga parte della vita del paese svolgersi fuori delle istituzioni o addirittura contro le istituzioni» (35): e da questa «azione [di istituzionalizzazione,] che deve essere tenace, graduale, democratica, pluralista, possono scaturire cambiamenti e trasformazioni, che risulterebbero, esse sì, nel lungo periodo, nella piena attuazione dei loro effetti, concretamente rivoluzionarie» (36).
Scendendo dalle atmosfere rarefatte – ma non troppo! – della strategia e venendo alla tattica, cioè, tra l’altro, alla pratica partitica, la prospettiva che coordina manovra socialistica e manovra comunistica, come momenti di una unica marcia rivoluzionaria, trova solo conferme. «Il nostro impegno – garantisce l’on. Craxi – è diretto a consolidare il ruolo di questa maggioranza di centrosinistra» (37), ma «la prospettiva dell’alternanza delle forze di governo si rende evanescente, senza la necessaria spinta ideale possibile solo nella dialettica democratica compiuta» (38): «Di qui la necessità […] di tener aperto il confronto, sulle idee e sulle cose: in modo che […] gestendo con lealtà, prudenza e fermezza […] l’alleanza di oggi, [si] possa lasciare aperta la strada a quelle di domani» (39), nella direzione di «una nuova e consapevole democrazia di massa» (40). Il tutto, – concludo – al coperto di una modesta bordata di fischi congressuali, che pare abbia sortito l’effetto desiderato di tranquillizzare l’intera classe dirigente italiana, e non solo quella politica, anche se non sembra riuscita a ostacolare seriamente il diffondersi del sospetto e della diffidenza in una parte sempre più estesa del corpo sociale.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) INDRO MONTANELLI, Sindrome da Chigi, in il Giornale, 30-5-1984.
(2) Cfr. il mio Dopo il XVI congresso: Democrazia Cristiana e processo di trasformazione socialistica, in Cristianità, anno XII, n. 107-108, marzo-aprile 1984.
(3) Cfr. 17 e 24 giugno 1984. Le cifre del «rifiuto» e il «voto integrale», in questo stesso numero di Cristianità.
(4) VALDO SPINI, Intervento congressuale, in Avanti!, 13/14-5-1984.
(5) Per una corretta nozione di «popolo» e di «massa», cfr. PIO XII, Radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero, del 24-12-1944, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VI, pp. 238-240.
(6) PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, tesi per il 43° congresso, in Avanti!, 20-3-1984.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) BETTINO CRAXI, Relazione al 43° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, ibid., 12-5-1984.
(11) ALBERTO JACOMETTI, Intervento congressuale, ibid., 13/14-5-1984.
(12) ENRICO MANCA, Intervento congressuale, ibidem.
(13) GIORGIO RUFFOLO, Intervento congressuale, ibid., 15-5-1984.
(14) FRANCESCO FORTE, Intervento congressuale, ibid., 13/14-5-1984.
(15) DOMENICO SUSI, Intervento congressuale, ibid., 15-5-1984.
(16) Ibidem.
(17) Per la nozione di «parola-talismano», cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, trad. it., Edizione de L’Alfiere, Napoli 1970, pp. 40-49.
(18) GIUSEPPE TAMBURRANO, Intervento congressuale, in Avanti!, 16-5-1984.
(19) B. CRAXI, Conclusioni al 43° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, ibid., 15-5-1984.
(20) CLAUDIO SIGNORILE, Intervento congressuale, ibidem.
(21) MARIO ZAGARI, Intervento congressuale, ibid., 13/14-5-1984:
(22) B. CRAXI, Relazione al 43° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, cit.
(23) Cfr. GIOVANNI SARTORI, Democrazia e definizioni, 4ª ed., il Mulino, Bologna 1979, pp. 60-79.
(24) Cfr. GEORGES BURDEAU, Traité de Science Politique, Librairie générale de Droit et de Jurisprudence, Parigi 1956-1957, voll. VI e VII.
(25) Cfr. IDEM, articolo Democrazia, in Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, vol. II, pp. 49-69.
(26) Ibid., pp. 59-61.
(27) Ibid., p. 51.
(28) Cfr. EMILIO SERRANO VILLAFAÑE, La democracia, ¿legitimadora del derecho?, in Verbo, serie XXIII, n. 223-224, marzo-aprile 1984, pp. 407-426, che cita, tra altre, una tesi di José Ortega y Gasset secondo cui «ogni interpretazione democratica di un ordine vitale che non sia diritto pubblico genera le più grandi stranezze e si traduce fatalmente in populismo»; nonché una affermazione di Carlos Sánchez del Rio, che sostiene che «la democrazia è una forma conveniente di organizzazione politica dello Stato. E la sua efficacia si limita a questo ambito esclusivo. Le altre istituzioni che non costituiscono propriamente lo Stato devono strutturarsi secondo la loro natura».
(29) Cfr. P. CORRÊA DE OLIVEIRA, II socialismo autogestionario: rispetto al comunismo, una barriera o una testa di ponte!, in Cristianità, anno X, n. 82-83, febbraio-marzo 1982.
(30) Citato in VLADIMIR I. LENIN, Stato e Rivoluzione in IDEM, Opere scelte in sei volumi, trad. it., Editori Riuniti-Edizioni Progress, s.l. e s.d., vo1 IV, p. 297.
(31) Ibid., pp. 299-300.
(32) Ibid., p. 300.
(33) Ibid., p. 299.
(34) B. CRAXI, Relazione al 43° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, cit.
(35) Citato da FRANCO CUOMO, Parola d’ordine: riformare. Intervista con il presidente del Consiglio Craxi, in Fiera, anno II, n. 9-10, luglio-agosto 1984, p. 6.
(36) B. CRAXI, Relazione al 43° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, cit.
(37) Ibidem.
(38) PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, tesi per il 43° congresso, cit.
(39) G. RUFFOLO, Intervento congressuale, cit.
(40) RINO FORMICA, Intervento congressuale, in Avanti!, 15-5-1984.