Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 151 (1987)
Sei cittadini albanesi, rifugiati nell’ambasciata italiana di Tirana, attendono che venga loro concesso asilo politico, mentre il governo e i mezzi di comunicazione coprono con un rigoroso silenzio una pratica diplomatica che non conclude.
A due anni dalla sua esplosione
Il caso dei fratelli Popa e la tragedia albanese
A quasi due anni dal suo inizio, il 12 dicembre 1985, il caso dei fratelli Popa è ancora dolorosamente aperto. Da circa ventiquattro mesi, infatti, sei cittadini albanesi sono rinchiusi all’interno dell’ambasciata italiana a Tirana per sfuggire all’arresto da parte della polizia politica comunista. Durante questo periodo la situazione dentro la sede diplomatica è andata sempre peggiorando: la reclusione in uno spazio ristretto, il rigoroso razionamento dei viveri imposto dal governo di Tirana, le cattive condizioni di salute — da notizie di stampa si è appreso della malattia del più anziano dei fratelli, Achille, e del relativo rifiuto delle autorità di permettere l’ingresso di un medico nell’ambasciata — accompagnano la vita quotidiana dei sei rifugiati.
Nell’imminenza del triste secondo anniversario dell’inizio del caso, intendo rievocare brevemente i termini della vicenda, affinché l’opinione pubblica italiana non dimentichi, ma consideri questo dramma come una ferita per la coscienza di ogni cattolico e di ogni amante della libertà, una lesione che ci si deve sforzare di sanare con la preghiera e con l’impegno personale concesso al cittadino, cioè con la pressione su chi detiene il potere e con l’opera propagandistica relativa sia al caso in sé che al quadro tragico in cui si inserisce.
Come si è potuto verificare un caso come quello dei Popa? Per darsene ragione occorre risalire all’attuale condizione di vita concreta del popolo albanese; per comprendere «da che cosa» i fratelli Popa hanno tentato di fuggire, si deve premettere qualche sommario cenno sulla storia della nazione balcanica dopo la seconda guerra mondiale.
L’avvento del regime socialcomunista
L’Albania cade sotto il dominio socialcomunista nel 1944, quando le formazioni partigiane marxiste prevalgono su quelle nazionaliste, che pure hanno avuto la parte di maggior rilievo nel corso della resistenza contro l’occupazione nazionalsocialista. Il regime instaurato da Enver Hoxha — un ex insegnante di formazione marxista e di cultura francese — rivela immediatamente un rigoroso carattere ideologico. Perseguendo un modello di socialcomunismo marxista-leninista puro, il governo albanese prende le distanze dal regime vigente nella vicina Jugoslavia, quando Tito, nel 1948, rompe formalmente con l’Unione Sovietica; si lega allo Stato sovietico, guidato da Stalin, pur essendone il paese lontano geograficamente; rompe anche con l’Unione Sovietica dopo il XXII congresso del Partito Comunista dell’URSS e l’inizio della cosiddetta «destalinizzazione»: negli anni Sessanta incrementa i propri rapporti con la Repubblica Popolare Cinese — altro Stato teso alla realizzazione del comunismo puro — ma se ne allontana al momento in cui prende corpo il ralliement cino-statunitense dell’era Nixon; infine, con la nuova Costituzione del 1976 — che rifiuta per principio ogni aiuto finanziario straniero — sancisce il proprio isolamento nella costruzione del socialismo (1).
Un totalitarismo assoluto
Sul piano interno si può dire che — dal 1944 a oggi — lo Stato comunista impone alla nazione albanese un totalitarismo assoluto, che invade ogni sfera della vita sociale, perseguitando ogni sopravvivenza o emergenza di opposizione (2), controllando ogni strumento di comunicazione sociale, restringendo ogni spazio di libertà ai cittadini mediante un ordinamento giuridico vessatorio e un apparato repressivo onnipotente, incarnato principalmente dalla polizia politica, la famigerata Sigurimi (3). In campo economico il regime instaura e pratica il più rigido collettivismo. Ma il settore in cui il governo — a lungo personalmente guidato da Enver Hoxha — ferisce maggiormente la nazione e in cui, forse, esplicita con maggiore chiarezza i suoi connotati, è quello religioso.
La persecuzione religiosa
Nel 1945 — secondo i dati dell’ultimo censimento rilevante anche l’appartenenza religiosa dei cittadini — l’Albania conta una popolazione per il 72% musulmana e per il 28% cristiana, quest’ultima per il 18% ortodossa e per il 10% cattolica (4). Fin da subito, contro i credenti e contro le diverse strutture ecclesiastiche il regime conduce — in nome dell’ateismo marxista — una lotta implacabile e brutale, le cui linee ideologiche fondamentali sono adeguatamente espresse in proposizioni tratte da un articolo comparso sull’organo ufficiale del comitato centrale del Partito del Lavoro — il partito comunista albanese — nel novembre del 1986, quindi dopo la morte di Enver Hoxha e l’avvento al potere di Ramiz Alia: «Un’azione di massa, realizzando la libera volontà del popolo, ha distrutto i luoghi di culto, il clero, i riti religiosi organizzati e molti usi selvaggi. Con questo atto rivoluzionario la nostra società ha fatto un grande passo in avanti, dal punto di vista qualitativo, il nostro popolo è stato liberato da un gran peso materiale e spirituale […]. Con tutto ciò, è vero che anche oggi permangono nella nostra vita espressioni e residui di pregiudizi e pratiche religiose […]. Tali espressioni sono ancora così significative, nocive e pericolose da meritare che il Partito lotti contro di esse. La rinascita della fede in Unione Sovietica e negli altri paesi dominati dal revisionismo deriva dal fatto che le forze dominanti hanno tradito il marxismo-leninismo […] Nella coscienza albanese si richiede un’ulteriore azione purificatrice dalle permanenze religiose. Molti momenti cruciali della vita sono ancora impregnati di sentimenti religiosi, come ad esempio le tradizioni che accompagnano il momento della morte […]. Per cancellare questa concezione occorre sfrondare le tradizioni e il folklore popolare» (5).
La distruzione delle gerarchie religiose con l’uccisione o l’incarcerazione di vescovi e di sacerdoti, l’annientamento degli ordini religiosi, lo smantellamento dei luoghi di culto, l’eliminazione dell’infrastruttura formativa religiosa, la proibizione legale dell’apostolato — la legislazione punisce anche con la morte la propaganda religiosa, assimilata a quella «fascista, antidemocratica, […] guerrafondaia o antisocialista» (6) — e perfino degli atti di culto — equiparati a propaganda — nonché infine, la proclamazione ufficiale — unico caso al mondo — dell’ateismo dello Stato, scandiscono le tappe della spietata lotta contro la Chiesa cattolica, alla quale i fratelli Popa appartengono. Di questa inaudita persecuzione contro la religione sono trapelati in Occidente soltanto gli episodi più clamorosi e gravi, avvenuti soprattutto durante la fase iniziata nel 1967, contemporaneamente alla Rivoluzione Culturale cinese. In conclusione, da un quadro della società così terribile come quello descritto si capisce chiaramente quale debba essere il vissuto quotidiano del cittadino albanese o, peggio, quello del dissenziente, e come la fuga si presenti come una soluzione più che comprensibile.
Il regime contro i fratelli Popa
Venendo al caso dei fratelli Popa, a cosa si deve il particolare interessamento del regime socialcomunista albanese nei loro confronti? Da quanto si è potuto sapere dalle scarne cronache relative all’episodio della loro fuga, sul capo dei Popa pende l’accusa di attività contrarie al regime nonché di spionaggio. In realtà, pare che il governo di Tirana li perseguiti e li abbia condannati al soggiorno obbligato — cioè, in una realtà come quella albanese, al campo di concentramento — in quanto figli di un collaboratore con le autorità durante l’occupazione dell’Albania da parte dell’Italia dal 1938 al 1943; inoltre, sembra, anche a causa dell’esistenza di un settimo fratello, di nome Roland, fuggito dal paese nel 1945 e oggi residente in Canada. Le simpatie politiche del padre, Moisi Popa — un farmacista di Durazzo morto da diversi anni —, e il fatto che il settimo fratello sia fuggito in un paese occidentale sono quindi ritenuti motivi sufficienti dal governo socialcomunista per colpire i sei — quattro donne e due uomini, tra i quaranta e i sessant’anni d’età — con un provvedimento come il confino!
Il comportamento del governo italiano
Come ha risposto l’Italia — scelta come destinazione della fuga dai fratelli Popa, probabilmente per la sua vicinanza geografica, ma forse anche per i loro legami culturali e famigliari con il nostro paese — al grido di libertà proveniente da oltre Adriatico?
A tutt’oggi, l’Italia ufficiale si è limitata ad accogliere i fuggiaschi nei locali dell’ambasciata nella capitale albanese e a protestare per le misure di polizia prese contro la sede diplomatica di Tirana, ma non ha concesso ai fratelli Popa l’asilo politico, non ha cioè preso l’unico provvedimento che può aprir loro la strada della libertà. Si è parlato e si parla di trattative in corso, ma su di esse il silenzio del ministero degli Esteri — di cui è titolare oggi, come al momento dei fatti, l’on. Giulio Andreotti — resta impenetrabile. Si dice che vi siano difficoltà di carattere diplomatico per la concessione dell’asilo — in conformità con la convenzione internazionale del 1951 relativa ai profughi dai paesi a regime socialcomunista — dal momento che manca ai Popa l’attraversamento materiale della frontiera con l’Italia. Pur comprendendo che il riserbo — in determinati casi — possa essere utile all’azione diplomatica, è però lecito chiedersi se ne sia opportuna una versione così rigorosa anche di fronte a dichiarazioni e ad atti palesemente ostili da parte del governo di Tirana, nonché in presenza di domande di chiarimento sui fatti avanzate dalla pubblica opinione. Per esempio, a tutt’oggi il ministero degli Esteri italiano non ha ancora voluto rivelare i nomi di tutti i fratelli, tanto che i due che ho citato sono ricavati da dichiarazioni della diplomazia albanese. Questo perdurante silenzio potrebbe ingenerare nell’opinione pubblica nazionale e internazionale equivoci o dubbi sulla effettiva volontà del governo di Roma di giungere — com’è doveroso — a una soluzione del caso favorevole ai sei fratelli albanesi. Inoltre, si presta a legittimare lo scarso interesse mostrato dai principali mezzi di informazione italiani a proposito della vicenda.
Il «silenzio stampa» in Italia
Infatti, il silenzio giornalistico è uno degli aspetti più sconcertanti del caso, anche perché rivela un atteggiamento che non è stato adottato in occasione di episodi analoghi, anche recenti, relativi a profughi dall’Est europeo, come, per esempio, a proposito dei Filipov (7). Riguardo ai fratelli Popa, dal 12 dicembre 1985 viene rispettato un reale «silenzio stampa», non si sa da chi richiesto. Per la televisione di Stato, per le reti private, per le grandi catene di stampa sia quotidiana che periodica sembra che il fatto non sia accaduto. L’unica eccezione è costituita da il Giornale di Milano che, per la penna di Eugenio Melani, ha per primo dato la notizia (8), ha seguito lo sviluppo dei fatti e ha dimostrato un chiaro e caloroso sostegno alle ragioni dei Popa, non limitandosi soltanto a informare, ma facendo pressioni nei confronti del ministero degli Esteri, delle rappresentanze albanesi in Italia e dando spazio alle reazioni degli ambienti della Resistenza anticomunista del paese balcanico. Negli ultimi mesi, però, anche il Giornale ha rispettata la consegna del silenzio, motivandolo dichiaratamente con sollecitazioni in tal senso provenienti dalla Farnesina, secondo cui Tirana considererebbe provocazione qualunque pubblicità data all’argomento (9).
Né ambienti considerati dalla pubblica opinione come anticomunisti né quelli cattolici — pur così solleciti, in tante altre occasioni, nella denuncia di violazioni di diritti umani — hanno dato il dovuto risalto alla tragedia dei Popa.
Le iniziative della CIRPO-Italia e di Alleanza Cattolica
Le uniche iniziative di carattere organico e continuativo sono state promosse dalla CIRPO-Italia, la Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati, e da Alleanza Cattolica, in stretta collaborazione con i profughi albanesi del movimento d‘opinione Albanians for Human Rights. In numerose occasioni — per esempio con presidi davanti alle prefetture di molte città italiane nel gennaio del 1986 — le due associazioni hanno dato vita a una campagna di sostegno alle ragioni dei Popa e di denuncia della tragedia del popolo albanese che fa da quadro di fondo al loro caso, nell’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica perché faccia pressioni sulle autorità in vista della concessione dell’asilo politico. La campagna di solidarietà — nonostante l’esiguità dei mezzi messi in opera dai due gruppi — ha avuto eco ed effetto, come si è potuto rilevare nel caso della interrogazione parlamentare del 7 agosto 1986, sottoscritta da quarantatrè deputati di diversi partiti, e di numerose mozioni di solidarietà e di richiesta di concessione dell’asilo politico approvate da consigli regionali e comunali in diverse parti d’Italia. In campo culturale e religioso le manifestazioni organizzate dalla CIRPO-Italia e da Alleanza Cattolica hanno registrato un notevole interesse soprattutto presso le comunità di origine albanese esistenti nell’Italia Meridionale; a Palermo, a Lecce e a Potenza sono stati celebrati riti religiosi propiziatori; a Lecce, con l’incoraggiamento del vescovo, S.E. mons. Michele Mincuzzi, è stato fondato il Comitato per i Diritti Umani in Albania, che si sta diffondendo su tutto il territorio nazionale (10).
Il più recente episodio dell’ininterrotta attività di sostegno ai fratelli Popa messa in opera dalla CIRPO-Italia è costituito dalla consegna di una lettera di richiesta di interessamento nelle mani dell’on. Alessandro Duce, segretario della Commissione Affari Esteri della Camera, nel corso di una sua conferenza tenuta in provincia di Piacenza il 5 ottobre 1987 (11).
Quale esito per la vicenda?
Quali sono, al momento, le prospettive di soluzione del caso? Per quanto riguarda la trattativa diplomatica, la spessa cortina di silenzio che la circonda non consente di formulare previsioni. Solo ci si deve augurare che l’Italia — il maggior partner commerciale dell’Albania dell’area non comunista — voglia servirsi anche di possibili pressioni economiche per ottenere una soluzione positiva. È certo che la situazione — già priva di sbocchi visibili — potrebbe ulteriormente peggiorare qualora dovesse venir meno ai fratelli Popa anche lo scarso sostegno a tutt’oggi prestato loro in Italia. Ed è ugualmente certo — e straordinariamente rilevante — che anche una positiva soluzione della loro vicenda non risolverebbe il caso costituito dalla gran parte del popolo albanese, caso che rimane tragicamente aperto e bisognoso di chi se ne interessi con dedizione, intelligenza e costanza.
A confortare e a confermare i sei fratelli albanesi nella loro difficile situazione — aggravata dall’età e dalla malattia — e con loro tutto il tenace popolo balcanico sottoposto da anni alla drammatica prova costituita dal regime socialcomunista, vale certo — con l’impegno propagandistico cui facevo prima riferimento — la prospettiva di fede e di solidarietà della Chiesa offerta dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II domenica 27 aprile 1986, in un indirizzo alla comunità albanese residente a Roma: «Io credo profondamente, insieme con voi, che Cristo vive, come vive in noi qui a Roma, nella vostra comunità albanese romana, vive anche nei nostri martoriati fratelli della vostra patria. Vive Lui, vive la Chiesa. Non si può uccidere Cristo! […] E così non si può uccidere la Chiesa. Non si può uccidere l’uomo nella forza della fede viva, della fede in Cristo […]. Dobbiamo gridare a Cristo, così come gridavano gli Apostoli. Dobbiamo gridare insieme. Io lo faccio davanti al mondo perché il mondo deve capire questa sofferenza, deve capire questa ingiustizia» (12).
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) Su un episodio particolare della storia albanese dopo la seconda guerra mondiale, cioè sul tentativo angloamericano — purtroppo fatto maliziosamente fallire — di destabilizzare il regime socialcomunista di Tirana mediante l’infiltrazione di guerriglieri reclutati fra i profughi anticomunisti, cfr. il mio Albania 1949-1953: la liberazione sabotata, in Cristianità, anno XIV, n. 133, maggio 1986.
(2) I prigionieri politici attualmente sarebbero circa quarantamila: cfr. DOMINIQUE CLERC, L’Albanie, l’oubliée du monde occidental, in L’impact suisse, n. 210, gennaio 1986.
(3) Sulla violazione dei diritti umani in Albania, cfr. il rapporto di AMNESTY INTERNATIONAL, Albania, Amnesty International Publications, Roma 1984.
(4) Cfr. Dati statistici e situazione giuridica delle religioni in Albania, in L’Altra Europa, anno X, n. 3 (201), maggio-giugno 1985, p. 132.
(5) Cit. in JANICE A. BROUN, La situazione dei cristiani in Albania, ibid., anno XII, n. 2 (212), marzo-aprile 1987, p. 119. Questo pregevole e documentato studio di una giornalista inglese è importante non soltanto sotto il profilo informativo, ma anche perché periodizza la storia della persecuzione antireligiosa in Albania, mettendone in luce le diverse tattiche a seconda della religione combattuta di volta in volta. Cfr. anche HEINZ GSTREIN, Albania, progressi della fede, ibid., anno X. n. 3 (201), cit., pp. 135-140.
(6) Cfr. Dati statistici e situazione giuridica delle religioni in Albania, cit. n. 133.
(7) Cfr. Corriere della Sera, 18-2-1986.
(8) Cfr. il Giornale 20-12-1985.
(9) Il silenzio è stato rotto dallo stesso Eugenio Melani in un breve articolo comparso su il Giornale del 20 ottobre 1987: non vengono forniti elementi informativi nuovi, ma si conferma l’esistenza di trattative fra il governo italiano e quello albanese e si ribadisce l’atteggiamento della diplomazia italiana, come pure la linea de il Giornale stesso. Successivamente hanno parlato del caso anche Panorama (anno XXV, n. 1126, 15-11-1987) e L’Espresso (anno XXXIII, n. 45, 15-11-1987).
(10) Per la cronaca, cfr. al titolo Albania la rubrica La buona battaglia, in Cristianità, anno XIV, n. 129-130, gennaio-febbraio1986; n. 131, marzo 1986; n. 133, maggio 1986; n. 134-135, giugno-luglio 1986; n. 136-137, agosto-settembre 1986; n. 139-140, novembre-dicembre 1986; anno XV, n. 141, gennaio 1987; n. 142, febbraio 1987; n. 143, marzo 1987; n. 144-145, aprile-maggio 1987; n. 146-147, giugno-luglio 1987, e in questo stesso fascicolo. Cfr. anche ZEF MARGJINAJ, Testimonianza sull’Albania, intervista a cura di Marco Invernizzi, ibid., anno XIV, n. 133, cit.
(11) Cfr. Il Nuovo Giornale, 31-10-1987. L’on. Alessandro Duce, tre giorni dopo, ha informato — per bocca del suo segretario — la CIRPO-Italia di aver trasmesso la lettera all’on. Giulio Andreotti e di aver avuto assicurazione da questi — accompagnata da raccomandazioni a pazientare e a non creare intralci rompendo il silenzio sul caso — del procedere di negoziati e della imminente costituzione di una commissione italo-albanese allo scopo.
(12) GIOVANNI PAOLO II, Indirizzo a una comunità di profughi albanesi in Roma, del 27-4-1986, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IX, I, p. 1172; cfr. il testo completo anche in Cristianità, anno XIV, n. 133, cit.