Renato Cirelli, Cristianità n. 148-150 (1987)
Nora Beloff, Tito fuori dalla leggenda. Fine di un mito, Reverdito, Trento 1987, pp. 304, L. 20.000
La storia ufficiale scritta dai vincitori della seconda guerra mondiale, oltre a coprire molte verità scomode, ha lasciato un retaggio di veri e propri miti, che hanno ben poco a che fare con la realtà delle cose, ma che continuano a essere mantenuti in vita e in attività nell’opinione pubblica, in quanto sono chiaramente funzionali alle ideologie allora vincitrici e ancor oggi dominanti nel mondo. Ogni tanto, però, qualcuno rompe il sortilegio, suscitando l’evidente fastidio e l’imbarazzo della storiografia ufficiale. A questa categoria appartiene certamente la giornalista inglese Nora Beloff che — dopo essere stata quotata collaboratrice di The Observer e di The Economist e corrispondente in varie capitali europee, e dopo aver iniziato la sua carriera nel dipartimento francese del servizio diplomatico britannico — nel 1977 si è ritirata dal giornalismo attivo e — già nota in Inghilterra per aver spesso sfidato le autorità in tema di politica internazionale — si è dedicata alla saggistica storiografica. Di questo nuovo impegno è frutto Tito fuori dalla leggenda. Fine di un mito, la cui pubblicazione nel 1985 è costata all’autrice l’espulsione dalla Jugoslavia.
Facile profeta, nella Prefazione del febbraio del 1985 (pp. 5-8), Nora Be- loff afferma, a proposito del suo studio, che «è molto probabile che esso darà fastidio a coloro (anche se non a tutti) che in Gran Bretagna contano al ministero degli Esteri, a quello del Commonwealth, a Washington al dipartimento di Stato e a Parigi al Quai d’Orsay» (p. 8), dopo aver chiarito che, se esso «è nato per un’esigenza di chiarificare […] i veri aspetti della storia del regime comunista jugoslavo», «in parte costituisce [anche] una “penitenza” per avere troppo a lungo condiviso i punti di vista titoisti sulla Jugoslavia» e «un risarcimento dovuto quale giornalista che per molti anni ha operato in Jugoslavia, alle molte vittime della repressione poliziesca jugoslava» (p. 7).
Nell’ampia Introduzione (pp. 9-23) appare subito evidente che l’autrice ama la Jugoslavia, ne conosce la storia e di essa si serve per illuminare molti degli attuali problemi dell’area, «la cui soluzione in gran parte dipende da un gruppo di personalità dell’Occidente che si definiscono “amici della Jugoslavia”» (p. 9). Si tratta di un gruppo finanziario costituito da una quindicina di paesi capitalisti, ispirato dall’ex ambasciatore americano a Belgrado Lawrence Eaglenburger, che negli ultimi anni ha salvato la Jugoslavia dalla bancarotta economica facendola sostenere con miliardi di dollari da banche e da governi occidentali, senza però chiedere nulla in cambio a vantaggio dei popoli jugoslavi esposti all’inflazione, alla disoccupazione e alla mancanza di diritti umani, che caratterizza il totalitarismo ateo e comunista in ogni sua versione. Questa disponibilità occidentale verso il regime di Belgrado — che accomuna le sinistre progressiste a vari gruppi «conservatori» europei nonché a circoli della «destra» repubblicana americana — viene ufficialmente giustificato sulla base di sette miti — I sette miti del titoismo è appunto il titolo dell’introduzione —, che l’autrice prende in esame nella sua opera, relativi a Tito e alla Jugoslavia comunista, trattandone nei sette capitoli in cui si articola.
Il primo capitolo, Patriota dell’ultima ora, è dedicato al personaggio Josip Broz, noto con lo pseudonimo di Tito (pp. 25-53). Figura certamente di spicco — come riconoscono unanimemente amici e nemici — non ha però nulla a che fare con la leggenda del patriota che ha servito la sua terra per tutta la vita con la rivoluzione socialista, preservandola dalla disgregazione interna e difendendola dall’invasione straniera. Nato il 25 maggio 1892 a Kumrovec, in Croazia, da genitori cattolici piccoli proprietari terrieri, durante la prima guerra mondiale combatte nell’esercito dell’Impero austro-ungarico meritando una medaglia al valore. Ferito e fatto prigioniero sul fronte russo, rifiuta di arruolarsi nell’esercito serbo riorganizzato soprattutto dai russi. Nel 1917, quando scoppia la Rivoluzione sovietica, si aggrega ai bolscevichi e partecipa alla guerra civile, alla fine della quale torna in Jugoslavia. Arruolato e stipendiato dal Comintern, entra nel partito comunista segnalandosi come organizzatore sindacale e divenendo un rivoluzionario di professione. Più volte incarcerato, esce sempre abbastanza bene dai processi cui viene sottoposto, imparando così quanto sia pericolosa, per chi detiene il potere, una magistratura garante anche dei diritti degli oppositori politici. Dopo il 1934 si dà alla clandestinità e opera per ricostituire le fila del partito comunista e per distruggere lo Stato monarchico, facendo leva sui regionalismi. Muovendosi molto spesso fra la Jugoslavia e Mosca porta il suo contributo alle purghe staliniane con il tradimento di molti comunisti del suo paese e quando vi torna definitivamente è ormai padrone del partito, del quale diventa segretario nel 1939. E la sua ubbidienza alla dirigenza sovietica è assoluta anche quando, con il patto Molotov-Ribbentrop, comunismo e nazionalsocialismo diventano alleati, sì che Tito dirige la propaganda contro i capitalisti francesi e inglesi, e ordina di considerare i tedeschi come nemici solo quando invadono l’Unione Sovietica nel giugno del 1941, non al momento dell’invasione della Jugoslavia due mesi prima.
All’esame del «patriottismo» di Josip Broz segue — nel secondo capitolo — quello de La leggenda della liberazione (pp. 55-83) riassumibile ne «la convinzione che la Jugoslavia, diversamente dal resto dell’Europa occupata dagli eserciti dell’Asse, si sia liberata da sé e grazie unicamente alla propria guerra di resistenza», convinzione che costituisce «parte integrante della professione di fede titoista» (p. 55). Tito, infatti, si serve della sconfitta dello Stato jugoslavo e del caos che ne segue per imporre il regime social-comunista, e la manovra gli riesce con il determinante aiuto occidentale. Crollata la Jugoslavia sotto i colpi dei nazionalsocialisti, mentre è ancora vigente il patto russo-germanico egli rifiuta «il principio di una rivoluzione in due tempi (prima l’alleanza con la borghesia, quindi la dittatura del proletariato)» (p. 67), ordina operazioni contro i cetnici e contro gli ustascia, e denuncia ai tedeschi gli ufficiali monarchici che si rifugiano sui monti per combattere l’invasore: in un’istruzione alle cellule comuniste si legge che «i tedeschi […] finiranno per andarsene, mentre gli uomini di Ravna Gora resteranno ed è con loro che dovremo fare i conti» (ibidem). Mentre i comunisti aspettano ordini da Stalin, il colonnello Draza Mihailovic guida ufficiali, soldati e civili patrioti a organizzare una resistenza armata contro i tedeschi sulle montagne della Serbia, appunto nella regione di Ravna Gora, a sud-ovest di Belgrado. Inizia così la guerra civile fra comunisti e anticomunisti, una lotta che prevale su quella contro l’invasore nazionalsocialista che, dal canto suo, considera la minaccia armata degli anticomunisti molto più reale e più pericolosa di quella comunista. L’offerta avanzata da Tito di collaborare con i tedeschi, sulla quale vi sono oggi prove inconfutabili, dimostra la sua paura molto concreta di una vittoria dei cetnici. In un documento del marzo del 1943, Tito ordina di «non intraprendere azioni contro i tedeschi, poiché ciò non sarebbe utile agli interessi delle nostre attuali operazioni»; e poi: «Il nostro compito principale […] è quello di distruggere i cetnici di Draza Mihailovic e il loro apparato amministrativo, che costituisce il pericolo più grave per l’ulteriore sviluppo della lotta popolare di liberazione» (p. 81). Adolf Hitler respinge però le proposte di collaborazione e fa scatenare un’offensiva che quasi annienta le forze partigiane. Appunto in questo periodo del 1943 giunge, paracadutata, la prima missione ufficiale inglese, perché Winston Churchill ha deciso di sostenere Tito, da questo momento — quindi — non più solo, ma alleato degli occidentali, che gli inviano armi per combattere i suoi «principali» nemici, cioè gli jugoslavi anticomunisti, e così vincere la guerra civile.
Come Churchill fu ingannato è il titolo del terzo capitolo (pp. 85-132). In esso si espone in che modo, se Tito e i partigiani comunisti non sono alleati degli occidentali e fratelli nella stessa lotta, questo viene però fatto credere al governo inglese. Mentre il personale dell’Intelligence Service dell’ufficio jugoslavo è filocomunista e boicotta i rapporti che possono favorire i cetnici anticomunisti, figure come James Klugmann — membro del partito comunista inglese e ufficiale di Stato Maggiore incaricato del traffico di materiale con la Jugoslavia — nonché il suo superiore Basil Davidson, sono determinanti nella decisione del governo inglese di abbandonare i partigiani anticomunisti e di abbracciare la causa di Tito. Così il governo inglese fa in modo che, dopo la resa del 1943, le divisioni italiane siano disarmate dai partigiani di Tito e non da quelli di Draza Mihailovic; cerca di spingere re Pietro a sconfessare i suoi seguaci e, su richiesta dello stesso Tito, gli impedisce di tornare in patria. E il capo comunista, mentre viene riconosciuto ufficialmente dagli Alleati, risparmia le proprie truppe contro i tedeschi per poterle usare contro gli angloamericani nel caso sbarchino nei Balcani; chiama in aiuto i sovietici e grazie a loro sbaraglia gli anticomunisti; si impadronisce di Belgrado e dà inizio a stragi e ad atrocità. Decine di migliaia di anticomunisti prendono la strada dell’Austria per raggiungere gli Alleati, ma molto spesso vengono consegnati agli uomini di Tito. Alla fine del 1944 Draza Mihailovic invia all’Occidente un ultimo disperato messaggio: «I partigiani hanno instaurato un regime di terrore. I migliori esponenti della comunità e delle famiglie di vecchio insediamento vengono uccisi indiscriminatamente. Si stanno creando campi di concentramento che vengono riempiti col fior fiore del popolo serbo. La gente, sperando solo di sopravvivere, fugge in montagna come animali, è esposta al freddo e alla fame. Vi supplichiamo di mandare una delegazione nel paese per informare gli Alleati della tragica situazione. È un appello urgente; domani potrebbe essere troppo tardi. Aiutateci a uscire da questo inferno»
(p. 120). Ma quando tutto termina, ogni resistenza è annientata e i comunisti dominano ormai la Jugoslavia intera.
Alla fine della guerra l’atteggiamento di Tito si rivela chiaramente: il 1945 è, infatti, un anno caratterizzato da spaventosi massacri di jugoslavi colpevoli, di volta in volta, di essere anticomunisti o cattolici, borghesi o semplicemente croati oppure di nazionalità diversa da quella serba, come accade, per esempio, agli italiani della Dalmazia e della Venezia Giulia. Decine di migliaia di persone sono rinchiuse in campo di concentramento, la Chiesa cattolica è perseguitata e S.E. mons. Aloijzie Stepinac, arcivescovo di Zagabria e poi cardinale, è incarcerato e sottoposto a un processo farsa. Il totalitarismo socialcomunista viene imposto ovunque con il terrore, e contemporaneamente il governo jugoslavo appoggia i comunisti greci impegnati in una feroce guerra civile. Ciononostante, quando nel 1948 Belgrado rompe con Mosca — o meglio, quando Stalin rompe con Tito, e Rottura e riconciliazione con Mosca è appunto il titolo del quarto capitolo, che tratta di questi avvenimenti (pp. 133-164) —, gli Stati Uniti finanziano il primo di una lunga serie di prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, senza i quali il governo guidato da Tito soccomberebbe e gli permettono di entrare in possesso di trenta milioni di dollari-oro depositati in America dal governo monarchico.
In Occidente si esalta Tito come amico coraggioso e prezioso, e a Londra Winston Churchill lo accoglie con euforico entusiasmo, mentre il Daily Express commenta: «Il signor Eden […] non inviterebbe mai in Gran Bretagna, né ospiterebbe né adulerebbe un famigerato persecutore di ebrei. I nostri leader dimostrano una soave indifferenza solo quando è in pericolo la cristianità» (p. 157). In Occidente, ancora, ci si guarda bene dal chiedere a Tito, anche nel suo maggior momento di difficoltà, in cambio degli enormi aiuti economici, non solo una presa di distanza dal comunismo, ma neppure la scarcerazione di qualche innocente.
Nel 1980, quando Tito muore, il mondo dei politici occidentali si inchina alla sua memoria e gli rende omaggio come a un combattente per la libertà e a un grande statista, che con lungimiranza ha condotto la Jugoslavia fuori dal blocco comunista e l’ha resa una nazione fiera della sua indipendenza e dell’equidistanza fra 1’Occidente e l’Oriente, nonché uno dei paesi guida del «Movimento dei non allineati». Ma si tratta di un «Non allineato» contro l’occidente, come Nora Beloff prova nel quinto capitolo così intitolato (pp. 165-197).
Infatti, se la Jugoslavia non è membro del COMECON, fa però parte di «23 delle 33 commissioni speciali del blocco orientale» (p. 190), e il suo partner commerciale più importante è l’Unione Sovietica, mentre una delle prime voci dell’esportazione jugoslava è costituita dal traffico di armi con i paesi del Terzo Mondo. Inoltre, anche se la Jugoslavia non è membro del Patto di Varsavia, nel 1956 Tito appoggia l’invasione sovietica dell’Ungheria affermando: «Naturalmente […] se ciò significava salvare il socialismo in Ungheria, allora, compagni, anche se siamo contro ogni interferenza, possiamo dire che l’intervento era necessario» (p. 172). Lo stesso Tito sostiene senza riserve l’Egitto di Gamal Abdel Nasser nella guerra contro Israele del 1967, permettendo all’aviazione dell’URSS di sorvolare il territorio jugoslavo, e nella guerra del Kippur del 1973, quando rende possibile il grande ponte aereo sovietico per soccorrere l’Egitto. Fornisce assistenza tecnica all’Unione Sovietica che sostiene militarmente il regime marxista in Etiopia e aiuta con ogni mezzo l’organizzazione per la Liberazione della Palestina e la Libia di Muhammar Gheddafi, nonché le guerriglie socialcomuniste in America Latina. Negli anni Settanta, Tito spiega che, «formalmente, non siamo membri del patto di Varsavia. Ma se la causa del socialismo, del comunismo, della classe lavoratrice fosse messa in pericolo sapremmo da che parte stare. Noi continuiamo ad avere fini in comune con l’Unione Sovietica» (p. 183). Su questa base e con questo scopo, dunque, Tito è uno dei principali animatori del «Movimento dei non allineati», nato ufficialmente per organizzare in un gruppo di Stati equidistante dai blocchi militari americano e sovietico le ex colonie che, dopo la seconda guerra mondiale, sono diventate indipendenti e numericamente maggioritarie in seno all’ONU; in realtà, tale organizzazione opera al fine di indirizzare i paesi del Terzo Mondo verso una politica filosovietica e antiamericana, annullando, per esempio, le reazioni all’invasione dell’Afghanistan e così confermando la tesi di A. Golytsin — un disertore sovietico del KGB — secondo cui — nella sintesi di Nora Beloff —, «dopo la rottura iniziale di Tito con Stalin nel 1948, tutte le controversie successive tra i due stati e i due partiti comunisti altro non sarebbero state che parte di una campagna di disinformazione» (p. 192).
Una delle principali ragioni per cui i politici occidentali nel 1945 decidono di sostenere il governo socialcomunista di Tito, è la convinzione che solo un regime monopartitico — evidentemente di sinistra! — può salvare l’unità jugoslava dopo il bagno di sangue fra le etnie che si è verificato nel corso della guerra. E questa sembra essere la prospettiva con la quale i socialcomunisti si accingono a governare dopo il conflitto, sulla base dello slogan adottato nel 1943 come piattaforma politica e che promette «fratellanza e unità». Ma i fatti presentati nel sesto capitolo, Né fratellanza né unità (pp. 199- 229), stanno a provare esattamente il contrario. In considerazione della composizione etnica e religiosa della Jugoslavia è imposto un regime federativo, ma — secondo Tito — per federazione non si deve intendere un governo autonomo dei singoli popoli ma un sistema in cui — invece di applicare un totalitarismo centrale — si organizzano altrettanti totalitarismi quante sono le regioni in cui viene suddiviso il paese. Secondo Nora Beloff, «l’intenzione dei titoisti sembra sia stata non tanto quella di mettere armonia tra i diversi gruppi, quanto quella di assicurarsi che gli antagonismi servissero — come nel passato — a rafforzare il loro regime», sì che uno degli espedienti di maggior successo consiste nel «deviare la rabbia e la frustrazione dirette contro di loro e a farle convergere sulle discordie etniche e intercomunali» (p. 210). Vengono svolte anche manovre intese ad attizzare maggiori contrasti fra le diverse religioni, come la politica filoislamica in Bosnia condotta in chiave anticristiana, ma ne derivano effetti non graditi al governo di Belgrado come, nel caso, il risveglio del fondamentalismo islamico, oggi — insieme ai contrasti etnici — fonte di seri interrogativi sulla possibile sopravvivenza della Jugoslavia come Stato unitario.
Nora Beloff, prima di concludere la sua indagine, nel settimo capitolo tratta dell’ultimo mito, cioè de L’autogestione, ovvero l’araba fenice (pp. 231- 261). Il sistema autogestionario è pensato dai teorici jugoslavi come terza via fra il capitalismo privato e quello di Stato, ma — secondo l’antropologo Andrej Simic — «l’errore fondamentale del concetto autogestionario è stato quello di voler collegare l’autogestione a una etica del lavoro inesistente. Kardelj e i suoi discepoli credevano che l’uomo, essendo stato alienato dai frutti del suo lavoro, avrebbe potuto riconciliarsi con la vita se i mezzi di produzione non fossero più stati nelle mani degli sfruttatori capitalisti. Se fosse stato educato con la Bibbia e non col Capitale di Marx, avrebbe saputo che l’uomo lavora (“con il sudore della fronte”) per vivere, e non vive per lavorare. Politici fanatici, artisti creativi e professionisti di talento possono sentirsi appagati dal loro lavoro, ma la massima parte delle persone comuni si interessa poco a ciò che produce e, come esseri umani, si occupa maggiormente di ciò che avviene fuori della fabbrica e al di fuori delle ore di lavoro» (p. 253). E l’applicazione del sistema irrealistico non manca di produrre inflazione galoppante, mercato nero, speculazione sfrenata, corruzione diffusa e lavoro nero, il tutto ai danni di quegli stessi lavoratori nell’interesse dei quali il sistema è presuntamente attuato.
«La mendacità è l’anima immortale del comunismo. Il divario tra realtà e apparenza è ormai talmente enorme che la bugia è diventata un modo di vita naturale e normale» (p. 281): queste parole del filosofo polacco Leszek Kolakovski — studioso del marxismo-leninismo di fama internazionale — costituiscono il riassunto delle Conclusioni — che precedono le Note, la Bibliografia scelta e un utile Indice dei nomi (pp. 285-303) — significativamente intitolate Il trionfo dell’ipocrisia (pp. 263-284). E l’ipocrisia in questione è soprattutto quella dei governanti occidentali e dei banchieri internazionali, che sostengono e finanziano il regime socialcomunista jugoslavo, impedendone il crollo sotto il peso del disastro economico e a causa della rabbia delle infelici popolazioni, che però non devono assolutamente essere abbandonate, ma che «meritano un trattamento diverso da parte dell’occidente, dopo che quest’ultimo per oltre quarant’anni ha sostenuto e ha sovvenzionato i loro repressori» (p. 284).
Renato Cirelli