Massimo Introvigne, Cristianità n. 115 (1984)
L’atteggiamento del mondo cattolico di fronte al mondo «moderno» e alla sua specificità: il pluralismo dottrinale e morale. I diversi aspetti della «modernità»: i fatti, le esigenze e le teorie. Il modernismo come compromissione con le teorie «moderne» e non solo con i fatti e con le esigenze. Le discutibili tesi della «modernità cattolica» e la polemica contro le pretese insufficienze e parzialità del pensiero cattolico contro-rivoluzionario dei secoli XIX e XX. Le conseguenze politiche delle scelte modernistiche e di «modernità cattolica».
Alla radice delle polemiche attorno a san Pio X
Modernismo e «modernità»
Cristianità ha già avuto occasione di esporre aspetti della polemica sul modernismo originata da un articolo apparso su un numero di luglio del 1984 de La Civiltà Cattolica nel quale, recensendo il secondo volume della biografia del cardinale Andrea Ferrari pubblicata da Carlo Snider, l’avvocato nella causa di beatificazione dell’arcivescovo milanese, padre Bartolomeo Sorge ha proposto, non solo fra le righe, una paradossale rivalutazione della eresia modernistica (1). Il modernismo, secondo padre Sorge, sarebbe «il ritorno, sotto forma e nome nuovi, dell’antico problema […] di realizzare il necessario “aggiornamento” della Chiesa nella fedeltà ai principi immutabili del Vangelo» contrapposto alla «visione pessimistica, essenzialmente difensiva» di san Pio X (2). Come si ricorderà, dopo un articolo malizioso de L’Espresso, dove Sandro Magister suggeriva l’ipotesi che l’attacco del direttore de La Civiltà Cattolica a san Pio X coprisse, come in una metafora, un implicito attacco a Giovanni Paolo II, lo scritto di padre Sorge ha provocato le repliche, talora singolarmente puntuali, di vari esponenti del mondo cattolico italiano. Sembra, in particolare, meritevole di essere condivisa – sul punto specifico – la conclusione di Rocco Buttiglione secondo cui la «riabilitazione del modernismo e la “damnatio memoriae” della reazione antimodernista», in corso peraltro da parecchi anni, sono preoccupanti non solo perché il modernismo «in prima approssimazione implica un cedimento al protestantesimo, ma in ultima analisi porta alla dissoluzione del Cristianesimo ed alla sua sostituzione con una diversa religione che sostanzialmente coincide nella premessa e nei risultati con l’umanitarismo laico e con il deismo massonico», ma anche perché «una perfetta coerenza lega questa interpretazione della storia della Chiesa ad una serie di posizioni concrete, fino alla legittimazione dell’aborto ed al rifiuto di qualunque forma di presenza pubblica dei cristiani nella società». Vi è da augurarsi che l’articolo di padre Sorge abbia davvero reso molti cattolici consapevoli che «il neomodernismo oggi, come il modernismo ieri, è una minaccia gravissima alla sopravvivenza stessa del Cristianesimo» (3). In questo caso la polemica – oportet ut scandala eveniant – avrà avuto una sua salutare utilità.
A qualche settimana di distanza dal dibattito vale la pena di approfondire uno degli aspetti del problema; rimasto forse in ombra, che sembra di grande rilevanza culturale, cioè il rapporto tra modernismo, ortodossia cattolica e «modernità». La letteratura sui rapporti tra Chiesa cattolica e mondo «moderno» è sterminata; non sempre, tuttavia, ci si preoccupa di chiarire che cosa esattamente si intenda per «modernità». Sembra che in questa letteratura «modernità» non significhi sempre la stessa cosa; di qui – spesso – una serie di equivoci. Può forse contribuire a chiarire il problema proporre un modello di analisi che distingua, in quanto comunemente viene chiamato «modernità» o «moderno», tre diversi livelli, che corrispondono rispettivamente ai fatti, alle esigenze e alle teorie.
A prima vista, può sembrare che il fatto «modernità» comprenda una serie immensa di dati non omogenei, dal progresso scientifico alla rivoluzione industriale e alla democrazia moderna. In realtà, se si esamina da vicino il dibattito all’interno della Chiesa, ci si avvede come la «modernità» come fatto indichi essenzialmente un elemento, che a sua volta rimanda a molti altri, e cioè il pluralismo dottrinale, che distingue qualitativamente la società «moderna» da quelle che la hanno preceduta. Il mondo «moderno» è quello dove non vi è più, intorno ai valori fondamentali religiosi e morali, quella unità della grande maggioranza dei consociati che, nonostante la presenza costante di frange eretiche e di minoranze, caratterizzava la civiltà cristiana medioevale. Le società occidentali «moderne» sono ufficialmente divise dalla pseudo-Riforma protestantica in poi sulla religione, e dalla Rivoluzione francese in poi anche sui valori essenziali che devono ispirare la politica. Gli stessi dati economici «moderni» e la «questione sociale», che certamente è sempre stata a cuore ai cattolici, derivano in ultima analisi dal pluralismo dottrinale: è proprio il venire meno del consenso sui valori morali a cui anche l’economia deve obbedire, con il crollo finale del sistema delle corporazioni, a determinare la crisi dei rapporti economico-sociali di cui la rivoluzione industriale è la occasione.
Il fatto del pluralismo dottrinale, con le sue conseguenze sociali, economiche e politiche, determina una serie di esigenze nuove e caratteristiche del mondo «moderno». La presenza di minoranze e maggioranze, portatrici di ideali e di valori sostanzialmente diversi tra loro, pongono – per esempio – una serie di gravi interrogativi sulla tolleranza e sulla garanzia delle libertà individuali. La disarticolazione sociale che segue alla separazione della economia dalla morale – proprio in quanto non vi è più una morale da tutti condivisa – fa insorgere le drammatiche esigenze della cosiddetta «questione sociale».
Da ultimo, per «modernità» si intende anche una teoria, quell’insieme di dottrine filosofiche e politiche che, assumendo il fatto del pluralismo dottrinale come modello ideale, proclamano relativisticamente che non esiste una verità oggettiva, ma che tutto non è che opinione mutevole, sottoposta alle leggi della storia. Negata la verità, diventa poi agevole negare le singole verità: non esistono verità religiose, e la conseguenza più rigorosa è l’ateismo, ma vi è posto anche per un vago «sentimento religioso»; non esistono verità morali, valori oggettivi, che si impongano a tutti; non esiste una politica «giusta», ma la politica è soltanto l’arte del possibile o il frutto della potenza del più forte, e così via.
La distinzione dei tre livelli del «moderno» sembra particolarmente utile per identificare i diversi atteggiamenti nei confronti della «modernità» che dividono i cattolici da almeno due secoli e che sono riemersi nella recente polemica. Oggi si cerca di riabilitare il modernismo presentandolo come attento al fatto «moderno» e alle sue esigenze, nei cui confronti la Chiesa sarebbe rimasta insensibile e sorda. Per poco che si conosca la letteratura e lo sviluppo storico del modernismo non è difficile invece constatare come la caratteristica più evidente di questo movimento sia il cedimento sistematico alla teoria relativistica della «modernità», a cui vengono subordinate la religione, confinata in un sentimentalismo più o meno vago, e la stessa figura di Cristo, ridotta attraverso una esegesi razionalistica nell’ambito di un profetismo puramente umano (4). Giacché la negazione dell’idea di verità porta a negare tutte le verità, e quindi a tutte le eresie, con grande precisione san Pio X può definire il modernismo «sintesi di tutte le eresie». Il campo «neomodernista» – neologismo ormai definitivamente consacrato – oggi definisce precisamente coloro che fanno proprie le teorie della «modernità» e ne propongono improbabili connubi con la dottrina cattolica.
Nelle polemiche sul modernismo viene in genere identificata, per farla oggetto di unanime biasimo, una seconda posizione – variamente definita «reazionaria» o «integrista» -, che critica, giustamente, la teoria della «modernità», ma ingiustamente si rifiuta di prendere in considerazione il fatto «moderno» e le relative esigenze, offrendo così nelle sue elaborazioni un cristianesimo «vecchio», fermo alle categorie pre-moderne e quindi fatalmente perdente sul piano culturale nella sua polemica contro il relativismo. Questa posizione è esistita, e forse esiste, nella Chiesa: è l’«archeologismo» (5), che immagina possibile un semplice e quasi meccanico ritorno all’epoca pre-moderna. È tuttavia caricaturale ascrivere all’«archeologismo» sia san Pio X, sia i rappresentanti della scuola cattolica controrivoluzionaria dei secoli XIX e XX. Già Joseph de Maistre, infatti, ammoniva che «questa rivoluzione non può finire con un ritorno all’antico stato di cose, che sembra impossibile, ma con la rettificazione dello stato in cui siamo caduti» (6), e dalla scuola contro-rivoluzionaria nacquero sia l’attenzione ai nuovi problemi posti dalla crisi filosofica, con la successiva rinascita del tomismo, sia il primo esame della «questione sociale». La posizione contro-rivoluzionaria pone certamente l’accento in modo tutto particolare sulla critica radicale delle teorie della «modernità»; ma nel contempo prende in considerazione i nuovi fatti e si sforza di trovare una convincente risposta cattolica alle esigenze.
Più recentemente è emersa in campo cattolico una nuova posizione, che qualcuno ha chiamato della «modernità cattolica» (7). È una interpretazione del «moderno» che si ritrova in autori di diverse tendenze, dal filosofo uruguayano Alberto Methol Ferré al gesuita francese Gustave Martelet. Quest’ultimo, nella prima parte del suo recente Deux mille ans d’Eglise en question, discute a lungo l’aggressione secolaristica della «modernità» e i suoi rapporti con la crisi nella Chiesa (8). Questi autori criticano con diversa intensità – talora con notevole intensità – il modernismo, la posizione neomodernistica e il cedimento dei cattolici alle teorie relativistiche della «modernità». Padre Martelet descrive la «modernità», evidentemente come insieme di teorie, nelle sue caratteristiche di «abbandono sistematico dell’infinito da parte del finito» e di «divieto di ogni apertura alla Trascendenza» (9); indica la catena di orrori storici a cui dà origine e ne denuncia la continuata, insidiosa penetrazione nella teologia cattolica attraverso Küng, Schillebeeckx, la svolta razionalistica della esegesi e la dottrina soggiacente a molte «comunità di base» sudamericane ed europee. In genere, tuttavia, questi autori aggiungono che del prevalere storico della «modernità» come teoria anti-cristiana sarebbe in parte responsabile la stessa Chiesa, che per secoli avrebbe trascurato di portare adeguata attenzione ai fatti e alle esigenze del «moderno». La Chiesa – scrive padre Martelet – «coinvolta nella polemica e rinchiusa da questa in cliché di cui ci si sarebbe dovuti liberare, mette il catenaccio alle porte e gli scuri alle finestre, mentre si sarebbero dovute rivedere le fondamenta» (10). In conclusione si dice, in genere, che è necessaria da parte della Chiesa una risposta convincente alla sfida della «modernità», che non scivoli nell’accettazione modernistica delle teorie, ma che prenda adeguatamente in considerazione i fatti e le esigenze.
La posizione della «modernità cattolica» presenta qualche giudizio discutibile sul piano della fattualità storica: la Chiesa ottocentesca era assai meno «chiusa» ai fatti e alle esigenze «moderne» di quanto oggi si ritiene, e troppo spesso anche autori che avversano il modernismo rimangono prigionieri della presentazione modernistica o neomodernistica, del tutto falsa e caricaturale, della scuola contro-rivoluzionaria e degli «integristi» raccolti intorno a san Pio X. Tuttavia, al di là dei problemi fattuali e storici, l’interrogativo di fondo a cui deve rispondere questa posizione – che può giocare un ruolo positivo nella critica dell’attuale neomodernismo e che sembra influenzare in Italia vasti movimenti ecclesiali – è di natura dottrinale: qual è il giudizio sul fatto essenziale che costituisce la «modernità», cioè sul pluralismo dottrinale? Stabilito che si deve prendere in considerazione la «modernità» come fatto e non rifiutarsi di vederlo, come fa un certo «archeologismo», quale valutazione se ne darà? Il pluralismo dottrinale è un bene o è un male? Non sarebbe sufficiente rispondere, come spesso si fa, che in ogni caso il pluralismo dottrinale è un dato non più reversibile ed è impossibile ritornare alla «società cristiana».
Questa risposta confonde, ancora una volta, il piano dei fatti con quello della teoria. A prescindere da ogni questione di fatto sulla guaribilità o meno della malattia, il quesito è di dottrina: se si tratti effettivamente di una malattia ovvero di una forma eminente della salute. La concupiscenza, per esempio, è in un certo senso una malattia inguaribile, ma questo non la trasforma in salute; Giovanni Paolo II ha mostrato in modo efficace come l’immoralismo moderno muova appunto da un richiamo alla natura empirica dell’uomo, dove trova post peccatum la concupiscenza, che si affretta a proclamare «naturale» e buona (11). La domanda a cui la posizione della «modernità cattolica» deve rispondere è proprio se il pluralismo dottrinale sia un dato buono o cattivo.
Il problema, nella sua radice ultima, riguarda la natura dell’errore. «Pluralismo dottrinale» significa che nella stessa società gruppi diversi sono portatori di giudizi e di valori contrapposti e inconciliabili a proposito delle opzioni fondamentali e delle risposte ai quesiti ultimi sulla origine e sul destino dell’uomo (12). Per chiunque non sia relativista è impossibile che due posizioni contrapposte siano entrambe vere, o ugualmente vere; in una di esse deve insinuarsi in una qualche misura l’errore. Se è vero che la radice oggettiva e ultima dell’errore – a prescindere dal diverso problema della buona fede di chi se ne fa portatore – è il peccato (13) sembra difficile sfuggire alla conclusione che una società caratterizzata da pluralismo e divisioni sulle opzioni di fondo è, al tempo stesso, caratterizzata da una rilevante presenza sociale del peccato.
Nella posizione della «modernità cattolica» il nodo rimane da sciogliere, e pesa su parecchie posizioni. «Chiudere le finestre» e ignorare il fatto della «modernità», con le esigenze che ne derivano, è certamente grave, e conduce a una sostanziale sterilità culturale e politica. D’altro canto, trasformare il fatto in un ideale e proclamare senz’altro che il pluralismo dottrinale corrisponde alle esigenze autentiche della libertà dell’uomo significherebbe in realtà scivolare nuovamente nel cedimento alle teorie della «modernità» e al loro relativismo, aprendo la strada a una serie di equivoci sul piano culturale e politico. Di itinerari di questo genere non mancano esempi anche recenti.
Nel settembre del 1984, in un convegno a Firenze, la Democrazia Cristiana – presenti i suoi massimi dirigenti – ha ricordato la figura di Nicola Pistelli, un giovane deputato che fu tra i fondatori della corrente della «Base», morto nel 1964 in un incidente stradale quando era fra i più promettenti teorici del partito. Secondo uno dei relatori al convegno, il professore Giorgio Campanini, Nicola Pistelli si convinse negli anni a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta che i cattolici «dovevano liberarsi da arcaiche concezioni riconducibili ad espressioni quali “Stato cristiano”, “società cristiana” e accettare francamente, pur se non acriticamente l’“idea di modernità”, con tutto ciò che essa comporta in politica». In pratica, questa accettazione – secondo un altro relatore al convegno di Firenze, il professore Enrico De Mita – si traduceva in una visione dello Stato come «punto di incontro di valutazioni culturali diverse, elemento unificante, espressione di un’etica comune, fondata soprattutto sulla razionalità», fino a individuare poi – come conseguenza della premessa culturale – due «temi di fondo» per il futuro: «il centro-sinistra come ipotesi di sviluppo della democrazia nel paese e il rapporto col PCI, una questione che interessa lo Stato italiano e le prospettive della sua evoluzione» (14).
Certo, lo Stato «razionalista» di Nicola Pistelli sembra avere poco in comune con le aspirazioni dei giovani cattolici che ricercano una «modernità» senza modernismo. Si tratta, tuttavia, di una conseguenza a cui potrebbero essere difficile sfuggire, finché si inclina a un giudizio positivo sul fatto del pluralismo. Anche all’interno del gruppo di coloro che non hanno alcuna intenzione di riabilitare il modernismo rimane dunque un interrogativo importante e aperto sulla «modernità». Dalla risposta a questo interrogativo dipende molto dell’avvenire del mondo cattolico italiano.
Massimo Introvigne
Note:
(1) Cfr. MARCO INVERNIZZI, Apologia del modernismo e denigrazione di san Pio X, in Cristianità, anno XII, n. 114, ottobre 1984.
(2) BARTOLOMEO SORGE S.J., I difficili rapporti tra Pio X e il card. Andrea Carlo Ferrari, in La Civiltà Cattolica, anno 135, n. 3217, 7-7-1984, p. 45.
(3) Rocco BUTTIGLIONE, Modernismo, eresia di moda che cavalca il Concilio, in Il Sabato, anno VII, n. 35, 1-9-1984.
(4) Sul punto rimane fondamentale lo studio di RAMON GARCÍA DE HARO, Historia teologica del modernismo, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1972.
(5) La espressione traduce nella versione italiana corrente della enciclica Mediator Dei di Pio XII la formula «nimium restituendae […] antiquitatis studium»: cfr. PIO XII, Enciclica Mediator Dei, del 20-11-1947, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IX, p. 559; e Indice, p. 441.
(6) JOSEPH DE MAISTRE, Correspondance, vol. III, in IDEM, Oeuvres complètes, Vitte et Perrussell, Lione 1885, tomo XI, p. 352.
(7) La espressione «modernità cattolica», che risale ad Augusto Del Noce, è stata usata in particolare da ALBERTO METHOL FERRÉ nel suo Il Risorgimento Cattolico Latinoamericano, CSEO, Bologna 1983.
(8) GUSTAVE MARTELET, Deux mille ans d’Eglise en question, Cerf, Paris 1984. Il volume è stato pubblicato con il sottotitolo Crise de la foi, crise du pretre come primo tomo di un’annunciata Théologie du sacerdoce.
(9) Ibid., pp. 127-128.
(10) Ibid., p. 136. Nel citato Il Risorgimento Cattolico Latino-americano di Methol Ferré, dove pure vengono criticate le «teologie della secolarizzazione» neomodernistiche, il giudizio sulla Chiesa del secolo XIX e in particolare sulla scuola contro-rivoluzionaria viene scarsamente approfondito e sostanzialmente ripreso dalla storiografia filo-modernistica, di cui si accettano espressioni estreme come la tesi secondo cui de Maistre e i suoi discepoli «per odio alla Rivoluzione Francese, coinvolgevano in un rifiuto globale tutti i prodotti della civilizzazione e della storia, non sapevano esaltare Dio e la Verità rivelata senza umiliare e ridurre al nulla la natura e la vita umana» (p. 265, riprendendo un testo di Lamanna). Si tratta di un giudizio che, nel più benevolo dei casi, si può attribuire a disinformazione, ma che spinge poi l’autore a ricercare come precursori della «modernità cattolica» figure come Buchez e Gioberti, in cui è difficile non riconoscere un cedimento alla «modernità» come teoria. Cfr. pure, nella stessa prospettiva, A. METHOL FERRÉ, Un segno per il destino del mondo. I cinque anni di pontificato di Giovanni Paolo II, in Synesis, anno I, n. 1, aprile 1983, pp. 21-28.
(11) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla udienza generale, del 29-10-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, pp. 1011-1016.
(12) Sul punto cfr. CARLOS CARDONA, Metafisica de la opción intelectual, 2ª ed., Rialp, Madrid, 1973.
(13) Per una buona sintesi di questa problematica cfr. LUCAS GARCÍA BORREGUERO, La radice dell’errore, in Cristianità, anno IV, n. 16, marzo-aprile 1976.
(14) Cfr. GUIDO BOSSA, Indicò ai cattolici nuove vie in politica, in Avvenire, 15-9-1984.