Alcune affermazioni poco note — ma purtroppo non isolate — gettano una luce inquietante su un uomo consacrato come «campione della pace» da prestigiose istituzioni internazionali.
«Flash» su un protagonista del dramma sudafricano
L’altra faccia di Desmond Tutu
Secondo notizie diffuse dalla stampa, l’alto esponente della Chiesa anglicana in Sudafrica Desmond Mpilo Tutu — premio Nobel per la pace nell’anno 1984 e dal 1986 arcivescovo di Citià del Capo — sarebbe stato invitato in Italia per prendere parte a una manifestazione pubblica relativa ai problemi che travagliano l’Africa Australe (1).
In Occidente la figura dell’ecclesiastico anglicano ha ormai raggiunto un elevato grado di popolarità, grazie soprattutto ai numerosi viaggi da lui compiuti sia in Europa che negli Stati Uniti per promuovere e per perorare la causa del boicottaggio economico ai danni della Repubblica Sudafricana, viaggi che hanno avuto vasta eco presso i mezzi di informazione di massa. A conferire credibilità e autorevolezza alle opinioni espresse da Desmond Tutu alla stampa occidentale e, anzitutto, ad attirare l’attenzione sulle sue prese di posizione, hanno certamente contribuito, e in modo rilevante, la sua alta dignità ecclesiastica nonché il fatto che gli sia stato conferito — come ho già ricordato — il prestigioso premio Nobel per la pace e gli siano stati concessi altri numerosi riconoscimenti dello stesso genere come, per esempio, il premio Martin Luther King per la non violenza.
Sulla base di questi elementi l’arcivescovo anglicano è stato presentato all’opinione pubblica — internazionale in genere e italiana in specie — come una delle voci più equilibrate e più significative fra quante si sono in diverso modo espresse a proposito della delicatissima problematica relativa all’Africa Australe e alla sua situazione religiosa, politica, economica, sociale e culturale. Non suscita quindi meraviglia apprendere dalla stampa come un’evidenza che «Desmond Tutu non è certo un estremista» (2).
Stando così le cose — comunque, ma soprattutto in previsione della sua annunciata visita in Italia — pare doveroso, per amore alla verità e per completezza di informazione, rendere edotta l’opinione pubblica del nostro paese a proposito di alcune dichiarazioni dell’ecclesiastico anglicano in contrasto palese con l’immagine che a tutt’oggi ne è stata presentata, nel fondato timore che la lacunosa informazione non venga adeguatamente corretta e integrata dai mass media.
Un amante della pace?
Desmond Mpilo Tutu — Mpilo significa «sano» nella lingua dell’etnia a cui egli appartiene — nasce il 7 ottobre 1931 a Klerksdorp, nel Transvaal (3). Suo padre era insegnante elementare, mentre sua madre contribuiva al sostentamento della famiglia lavorando come cuoca in un istituto per ciechi a Johannesburg, città nella quale i Tutu si trasferiscono due anni dopo la nascita di Desmond.
Nel 1945, all’età di quattordici anni, Desmond Tutu contrae la tubercolosi e deve trascorrere venti mesi di degenza a Sophiatown, in un ospedale tenuto dai Padri della Comunità della Risurrezione, una istituzione della Chiesa anglicana. Qui egli conosce padre Trevor Huddleston, la cui influenza è decisiva per lo sviluppo della personalità del futuro arcivescovo sudafricano. Infatti, padre Huddleston è uno dei primi e più ferventi fautori dell’imposizione di sanzioni economiche al Sudafrica in quegli anni. In suo onore Desmond Tutu chiama appunto Trevor il figlio avuto dalla moglie Leah, sposata — dopo avere rinunciato agli studi di medicina — intorno alla metà degli anni Cinquanta.
Nel 1957 il giovane Tutu chiede di essere ammesso al sacerdozio nella Chiesa anglicana: la sua richiesta viene accolta dal vescovo Ambrose Reeves, che in seguito divenne presidente del British Anti-Apartheid Movement. Ordinato nel 1961, l’anno seguente Desmond Tutu va a studiare in Inghilterra, presso il King’s College di Londra, dove rimane per cinque anni.
Nel 1975 è il primo nero a essere nominato decano della cattedrale di Johannesburg; l’anno successivo diventa vescovo del Lesotho, ma nel 1977 opta per la carica di segretario generale del Consiglio delle Chiese Sudafricane. Al 1979 risale il suo primo viaggio in Europa per perorare la causa del boicottaggio economico del Sudafrica.
Nel 1984 — quando viene insignito del premio Nobel per la pace — la commissione della fondazione svedese motiva la propria scelta affermando, fra l’altro, che l’assegnazione voleva costituire «un rinnovato riconoscimento del coraggio e dell’eroismo mostrati dai neri sudafricani nella loro […] pacifica […] lotta contro l’apartheid» (4).
Sull’argomento, Desmond Tutu ha, da parte sua, dichiarato: «Sono un amante della pace, ma potrei arrivare a un punto in cui, d’accordo con la tradizione della Chiesa, di fronte a due mali — un sistema repressivo come il nazismo e la possibilità di abbatterlo — direi allora che è venuto il tempo nel quale è giustificabile abbattere un sistema ingiusto con la violenza» (5).
Per comprendere appieno la portata di tali dichiarazioni — sia di quella della commissione incaricata di attribuire il premio Nobel per la pace che di quella del destinatario di tale ambito riconoscimento — bisogna avere presente un adeguato quadro della situazione sudafricana che vede l’azione dell’ANC, l’African National Congress, tesa a destabilizzare le istituzioni, in via di reale e rapida trasformazione, con il ricorso a tecniche terroristiche, con attentati dinamitardi e con sommosse continue che spesso si concludono con l’uccisione dei «collaborazionisti» neri — cioè di quanti, pur non accettando l’apartheid, rifiutano sia la «lotta di classe» che la «lotta di razza» – mediante il necklace, la «collana», l’atroce supplizio consistente nel dare fuoco a uno pneumatico d’automobile pieno di benzina, dopo averlo imposto al collo della vittima. Si tratta di una situazione bisognosa di energica condanna della violenza piuttosto che di parole destinate a essere facilmente recepite come avallo e come apologia del terrorismo messo in atto dall’ANC (6).
D’altra parte Desmond Tutu — sempre pronto a condannare il governo sudafricano — non nasconde la sua simpatia di fondo per l’ANC. Per esempio, in occasione dell’incontro del Consiglio Mondiale delle Chiese tenutosi a Harare, nello Zimbabwe, dal 4 al 6 dicembre 1985, ha affermato: «Sostengo l’ANC di tutto cuore nei suoi obiettivi per un nuovo, realmente non razziale e democratico Sudafrica, ma non sostengo i suoi metodi. Non ho mai nascosto il fatto che mi incontro con i capi del movimento di liberazione quando vado all’estero. […] Piaccia o meno al governo e ai bianchi, non intendo che il governo mi imponga chi devono essere i miei amici» (7).
Se la divergenza quanto ai metodi appare almeno secondaria nella prospettiva di chi ha detto essere «giustificabile abbattere un sistema ingiusto con la violenza» solo che ne sia «venuto il tempo», è invece rilevante la convergenza quanto agli obiettivi, tenendo conto che su trenta membri del Comitato Nazionale Esecutivo dell’ANC almeno diciannove sono contemporaneamente membri del Partito Comunista Sudafricano (8). Significativa è, al riguardo, una dichiarazione del segretario generale di tale partito, Moses Mabhida, secondo cui «il rapporto del nostro partito con I’ANC è basato su mutua fiducia, reciprocità, cameratismo in battaglia e una lotta comune per la liberazione nazionale. La nostra unità d’intenti e di metodi di lotta sono un raro esempio di positivo allineamento fra le forze della lotta di classe e quelle di liberazione nazionale» (9).
Credo che questi riferimenti possano aiutare a cogliere il legame fra gli obiettivi del Partito Comunista Sudafricano, quelli dell’ANC e quelli di Desmond Tutu, legame la cui estensione ai metodi è soltanto questione di tempo oppure di semplice opportunità.
La matrice ideologica
Da parte sua Desmond Tutu ha sempre proclamato apertamente le proprie tendenze politiche. Nel corso di una conferenza stampa svoltasi durante la sesta assemblea del Consiglio Mondiale delle Chiese a Vancouver, in Canada, il 24 luglio 1983, ha affermato: «Trovo il capitalismo del tutto orrendo e inaccettabile. Io sono socialista» (10).
In un’altra occasione l’ecclesiastico anglicano è uscito in questa osservazione storico-politica: «Quello che so è che se i russi venissero in Sudafrica oggi, allora la maggior parte dei neri che rifiutano il comunismo perché ateo e materialista li accoglierebbe come salvatori. Ogni cosa sarebbe migliore dell’apartheid» (11).
Poiché l’affermazione è di fatto piuttosto che di principio, credo sia utile ricordare — in perfetta aderenza all’argomento addotto — che, per esempio, migliaia di profughi mozambicani continuano a cercare rifugio in Sudafrica avendo, a proposito dell’opzione fra regime comunista e apartheid, un’opinione — fondata appunto sul «fatto» — diametralmente opposta a quella espressa dall’arcivescovo anglicano (12).
La carità cristiana secondo Desmond Tutu
Fra molte altre, almeno due dichiarazioni meritano di essere ancora ricordate e attentamente meditate.
La prima è stata rilasciata il 29 dicembre 1985, nel corso del programma The First Estate, trasmesso dalle rete televisiva WNBC di New York il conduttore della trasmissione, Russe1 Barber, chiese all’ecclesiastico anglicano se non pensasse che la condizione dei neri sudafricani potesse peggiorare nel caso di una guerra civile. A questa domanda l’arcivescovo rispose: «Sì, loro [i bianchi] detengono le armi da fuoco, ma noi siamo i loro domestici, siamo noi che ci prendiamo cura delle case della gente bianca. Facciamo da mangiare e sorvegliamo i loro bambini. Alcuni domestici potrebbero essere reclutati e potrebbe essere loro fornita una fiala di arsenico — che cosa succederebbe?» (13).
Se la dichiarazione citata non necessita di commento, cioè si commenta da sola — soprattutto in considerazione della qualità religiosa della sua fonte, ma lo stesso giudizio varrebbe anche se provenisse da un uomo qualsiasi —, quella che passo a trascrivere dice molto sui legami internazionali del personaggio, che gli permettono affermazioni agli altri assolutamente vietate. Nel 1984, invitato a una riunione del Gruppo dei Deputati Ebrei Sudafricani, Desmond Tutu ha affermato che «secondo il Nuovo Testamento gli ebrei devono soffrire. Pertanto metteremo ciò in pratica, se prenderemo il potere»; poi, che «gli ebrei sono i maggiori sfruttatori dei neri, perciò devono soffrire»; infine, che «non ci sarà simpatia per gli ebrei quando i neri prenderanno il posto dei bianchi» (14).
La sconcertante professione di antisemitismo da parte dell’arcivescovo sudafricano ha probabilmente le sue motivazioni non solo nel fatto che la lobby ebraica del Sudafrica è molto potente, ma anche perché lo Stato israeliano non ha mai aderito alle sanzioni economiche contro la Repubblica Sudafricana.
Motivazioni a parte, a questo riguardo Desmond Tutu ha buoni alleati, come suggerisce l’inequivocabile dichiarazione rilasciata da Alì Halimeh, rappresentante dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nello Zimbabwe: «L’OLP ha stabilito contatti con altri movimenti di liberazione, particolarmente nell’Africa Meridionale. È necessario per l’OLP e per questi movimenti di liberazione lavorare insieme, poiché siamo convinti che il collasso del sistema del Sudafrica condurrà alla distruzione dello Stato sionista in Medio Oriente», cioè di Israele (15).
Poiché è assai improbabile che le dichiarazioni citate vengano ricordate in occasione della visita di Desmond Tutu in Italia, è parso utile fame un florilegio — fra molte — per suggerire un’attenta riflessione sulla personalità di uno dei maggiori opinion maker relativamente alla situazione sudafricana. Infatti — proprio perché sarebbe ingiusto negare oppure nascondere la gravità dei problemi che agitano lo Stato sudafricano in ordine alla convivenza fra i bianchi e i neri (16) — è necessario averli presenti nella loro complessività e all’interno del quadro internazionale, per favorire con ogni mezzo — da vicino e da lontano — una soluzione che non sia, tragicamente, peggiore del male che si intende sanare.
Ettore Ribolzi
Note:
(1) Cfr. il nuovo Veronese, 15-2-1987.
(2) Corriere della Sera, 18-8-1985.
(3) I dati biografici sono ricavati da The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 88, 19-8-1986, la qualificata «lettera d’informazioni» pubblicata dalla giornalista sudafricana Aida Parker a Johannesburg.
(4) Encyclopaedia Britannica. Book of the Year 1985, p. 117.
(5) Sunday Star, 19-1-1986; e Citizen, 10-1-1986.
(6) Cfr. MASSIMO INTROVIGNE, Rapporto sul Sudafrica, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985. A tutto l’ottobre del 1986 si valuta che i neri uccisi con la «collana» siano stati da seicento a settecento: cfr. The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 95, 26-11-1986.
(7) The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 88, cit.
(8) Cfr. ibidem.
(9) L’affermazione è citata nel messaggio inviato dal Comitato Centrale del Partito Comunista Sudafricano alla conferenza consultiva dell’ANC svoltasi a Kabwe, nello Zambia, nel giugno del 1985, in The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 85, 1-7-1986.
(10) Ibid., n. 66, 24-9-1985.
(11) Ibid., n. 89, 3-9-1986.
(12) Cfr. «[…] in un dossier, nel numero di gennaio 1987, del bollettino Réfugiés, dell’Alto Commissariato per i Rifugiati» dell’ONU, «in Sudafrica, 20.000 mozambicani sono stati censiti come rifugiati dal Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Circa 15.000 di essi si trovano nell’homeland di Gazankulu, e circa 5.000 in quello di Kangane» (Agenzia Internazionale Fides, n.2666, 28-1-1987).
(13) The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 75, 11-2-1986.
(14) Ibid., n. 99. 11-1-1987.
(15) Ibid., n. 85, cit.
(16) Cfr. M. INTROVIGNE, art. cit.; Appello contro il «disinvestimento», in Cristianità, anno XIV, n. 136-137, agosto-settembre 1986; e il mio Ripensamento della Conferenza Episcopale Sudafricana sulle sanzioni economiche, ibid., anno XV, n. 143, marzo 1987.