Alfredo Mantovano, Cristianità n. 143 (1987)
Gli inconvenienti di fatto e le difficoltà di merito sollevate dall’approvazione e dall’applicazione della riforma degli istituti di pena, che ha anche allargato le maglie della liberazione anticipata, degli arresti domiciliari e della semilibertà.
Introdotte dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663
Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario
1. L’elevato numero di persone alle quali in Italia viene oggi garantita, per mezzo soprattutto della Polizia di Stato, una scorta armata costituisce uno dei problemi che affligge maggiormente l’organizzazione delle forze dell’ordine; normalmente, però, tale scorta ha lo scopo di proteggere l’incolumità fisica dei ministri, degli alti funzionari di governo, dei diplomatici, dei magistrati oppure degli investigatori ritenuti più esposti di altri, e quindi più probabili obiettivi della criminalità comune e di quella politica.
A molti è perciò parso strano, per dire il meno, che dal 30 dicembre 1986 fino ai primi di gennaio del 1987, quindici poliziotti siano stati impegnati, davanti a una palazzina di via Quintiliano a Roma, a sorvegliare due soggetti che non appartengono ad alcuna delle categorie prima indicate, e a impedire, fra l’altro, che venisse violata la loro privacy, tenendo a distanza giornalisti e curiosi che si avvicinavano all’edificio. Ma ancora più strana è la circostanza che i due superprotetti, che in un appartamento di quella palazzina hanno trascorso il capodanno insieme ai famigliari, rispondano ai nomi di Valerio Morucci e di Adriana Faranda, già esponenti di primo piano della colonna romana delle Brigate Rosse, distintisi, fra l’altro, per l’organizzazione e l’esecuzione, in via Mario Fani, del sequestro dell’on. Aldo Moro e dell’assassinio degli uomini della sua scorta, e per una serie di altre azioni terroristiche, fra le quali l’omicidio del giudice Girolamo Tartaglione. Detenuti nella casa circondariale di Paliano, in provincia di Frosinone, Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno usufruito di un permesso di qualche giorno loro accordato dal Tribunale di Sorveglianza (1).
L’episodio, nel suo genere, non è rimasto isolato: già il 26 dicembre 1986 una decina di ex terroriste avevano beneficiato di qualche ora di «libera uscita» dalle Carceri Nuove di Torino, ove si trovavano rinchiuse, per una passeggiata per le vie della città; fra esse, Susanna Ronconi, più volte condannata all’ergastolo, per anni inafferrabile «primula rossa dell’eversione» come veniva definita quando era latitante (2). Sempre nel periodo natalizio Enrico Triaca, ex tipografo delle Brigate Rosse, Mara Nanni, addetta a procurare armi ai brigatisti, a suo tempo arrestata mentre era insieme a Prospero Gallinari, l’uomo che materialmente eseguì la condanna a morte dell’on. Aldo Moro, e Massimo Maraschi, costante collaboratore di Renato Curcio, condannato a più di ventitrè anni di reclusione, hanno ottenuto ciascuno un permesso di dieci giorni; e con loro altri meno noti esponenti del «partito armato» (3). Ancora: cinque giorni di «libera uscita» sono stati concessi anche ad Alberto Franceschini, detenuto nel carcere romano di Rebibbia e leader «storico» delle Brigate Rosse; e il suo «permesso» è iniziato la mattina del 15 febbraio 1987, a poche ore di distanza dall’agguato terroristico di via Prati dei Papa, a Roma (4).
2. I provvedimenti descritti non costituiscono gesti inconsulti e arbitrari compiuti dai magistrati addetti ai competenti uffici di Sorveglianza, ma rappresentano il logico effetto dell’entrata in vigore delle nuove norme sull’ordinamento penitenziario, approvate dal parlamento nel mese di ottobre del 1986 (5), sul conto delle quali, in relazione all’importanza del loro contenuto, sarebbe stato auspicabile un dibattito ben più ampio di quello — molto modesto — che di fatto si è svolto.
Eppure, anche se il testo approvato dalle Camere non ha la portata «di quadro» della legge 26 luglio 1975 n. 354 (6), che innovò profondamente e con intenti di organicità il sistema carcerario, tuttavia ha già prodotto e produrrà effetti pratici tutt’altro che irrilevanti: giova ricordare, oltre a quelli cui prima facevo cenno, che proprio a seguito delle nuove disposizioni il 2 novembre 1986 duecentocinquanta detenuti hanno lasciato gli istituti di pena ove erano reclusi, e che, secondo stime presuntive, nel giro di pochi mesi altri tremila di loro hanno riacquistato o stanno per riacquistare la libertà prima del tempo previsto dalle condanne inflitte a ciascuno.
Ritengo utile, pur senza pretendere di commentare in modo sistematico la legge n. 663/1986, accennare ai punti più significativi della nuova normativa e maggiormente densi di conseguenze sul piano concreto.
3. Lo scopo — da più parti dichiarato — delle modifiche introdotte dal parlamento è quello di far sì che l’espiazione della pena tenda sempre più — in conformità anche con il dettato costituzionale — alla «rieducazione del condannato»; a ciò si cerca di pervenire con una serie di misure sostitutive della detenzione, o che comunque rendano quest’ultima meno pesante.
Così, dall’articolo 13 della nuova legge vengono ampliate le ipotesi in cui la reclusione può essere espiata nella propria abitazione; così, dagli articoli 11 e 12 sono allargate le maglie che già prima consentivano di scontare la pena anziché in carcere nello stato di «affidamento in prova al servizio sociale», se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni. I condannati che abbiano tenuto una condotta «regolare» — e cioè che abbiano avuto in carcere un comportamento accettabile — possono godere di più «permessi-premio» di durata ogni volta non superiore ai quindici giorni — per i minori, venti giorni — e, per ogni anno, contenuti complessivamente in quarantacinque giorni — per i minori, sessanta giorni —, allo scopo — così è scritto all’articolo 9 — «di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro»: di tali permessi può fruire anche l’ergastolano, purché abbia già trascorso dieci anni in reclusione.
I detenuti, inoltre, secondo l’articolo 14 possono essere autorizzati a lavorare all’esterno degli istituti di pena; a norma dell’articolo 6 possono essere ammessi al regime di semilibertà — la notte «dentro» e il giorno «fuori» — fin dall’inizio del periodo di espiazione, se condannati a pena non superiore ai sei mesi, dopo aver espiato almeno la metà della pena negli altri casi, dopo aver scontato vent’anni se condannati all’ergastolo. Lo stesso istituto dell’ergastolo appare ormai, di fatto, trasformato: infatti, a norma dell’articolo 28 chi è stato condannato alla pena massima può fruire della liberazione condizionale dopo ventisei anni di detenzione. Secondo l’articolo 18 può però uscire dal carcere prima di questo limite, oltre che con i «permessi-premio» e con la semilibertà, anche beneficiando della liberazione anticipata che consente, a certe condizioni, di detrarre dal calcolo della pena da espiare novanta giorni all’anno, che vengono considerati come effettivamente scontati. Così, se ha mantenuto una condotta accettabile, l’ergastolano potrà lasciare in completa libertà l’istituto di pena dopo aver espiato circa ventun anni di reclusione, e ciò senza alcuna limitazione relativamente al titolo di reato per il quale è stato condannato.
4. Queste, in estrema sintesi, le novità più significative della nuova normativa.
Da un punto di vista tecnico vi è più di un dubbio circa l’efficienza dei controlli, pure in teoria previsti, sul comportamento dei condannati durante i «permessi», o la semilibertà oppure la detenzione domiciliare, posta la grave e notoria carenza di uomini e di strumenti operativi delle forze dell’ordine, che già finora hanno sottolineato le non poche difficoltà incontrate nel verificare, per esempio, il rispetto dell’obbligo di non lasciare il luogo di abitazione prescelto dal detenuto che si trova agli arresti domiciliari. Come impedire che il beneficiario di un «permesso-premio», specie se condannato a una lunga pena detentiva, ne tragga occasione per protrarre sine die la sua assenza dal carcere dopo aver riassaporato il gusto della libertà?
Vi è da aggiungere che, come ho ricordato, già da tempo si discute sul notevole dispendio di forze e di energie provocato dall’impiego di migliaia di uomini in servizi di scorta; riesce perciò davvero difficile pensare, alla luce del più elementare buon senso, che un gran numero di altri uomini possa venire distolto dai compiti istituzionali propri — prevenzione e repressione dei reati —, in ordine ai quali cresce l’esigenza sociale di un maggiore impegno anche quantitativo, e utilizzato per sorvegliare il godimento di «permessi-premio» da parte di terroristi pluriomicidi. E questo senza trascurare considerazioni di ordine morale e di opportunità: l’uomo della strada fa infatti fatica a capire perché quindici uomini — quanti ne sono serviti per la scorta di Valerio Morucci e di Adriana Faranda — debbano trascorrere la notte di san Silvestro in strada, lontani dalle famiglie, per garantire invece il «Capodanno in famiglia» agli assassini dei loro colleghi!
5. Se quelli descritti costituiscono problemi tutt’altro che marginali, l’entrata in vigore del nuovo ordinamento penitenziario incontra perplessità ancora maggiori sul piano del merito. E vero, infatti, che la pena ha una funzione rieducativa, ma è anche vero che la rieducazione non può rappresentare l’unico suo connotato; la pena è la risposta che l’ordinamento dà a chi ha violato uno dei precetti dei quali esso impone l’osservanza. Deve avere carattere afflittivo: poiché il delitto coincide in chi lo commette con la soddisfazione di un bisogno, cioè, in definitiva, con un piacere, la sanzione concretamente irrogata ne costituisce il necessario contrappeso, ed esso può consistere soltanto nell’opposto del piacere, e cioè in una sofferenza (7).
Il carattere distintivo della pena è perciò la retribuzione, a sua volta strettamente collegata al concetto di responsabilità individuale: l’idea retributiva, infatti, non solo risponde a una naturale esigenza dell’uomo, data la sua intrinseca connessione con quel criterio dell’unicuique suum, «a ciascuno il suo», nel quale consiste la giustizia, ma ha pure un’insopprimibile funzione pedagogica e moralizzatrice, riaffermando idealmente il diritto violato nei confronti di chi ha tenuto la condotta riprovata e socialmente squalificata dalla norma incriminatrice. Dalla minaccia della sanzione e dalla sua concreta applicazione in caso di inosservanza del precetto deriva, poi, l’individuazione dell’altra funzione propria della pena, e cioè la prevenzione della criminalità: prevedendo conseguenze spiacevoli per comportamenti contrastanti con i modelli descritti nel precetto, si tende a motivare i consociati all’osservanza della norma (8).
È ovvio che l’ordinamento penale riesce a essere efficace se vi è un ragionevole grado di certezza che la sanzione minacciata sarà poi irrogata a colui che è individuato come colpevole; quando, però, il connotato rieducativo della pena viene fatto prevalere sugli altri attraverso la previsione e l’uso indiscriminato delle misure cosiddette «indulgenziarie» (9), quali la concessione delle circostanze attenuanti generiche, che consentono di scendere al di sotto del minimo edittale, il perdono giudiziario, la sospensione condizionale della pena, gli arresti domiciliari, la semilibertà… non ci si deve meravigliare se si assiste alla diffusione generalizzata di una sempre più marcata sfiducia nella giustizia e alla crescita della criminalità, incoraggiata dal calcolo preventivo, facile sulla base della rilevazione statistica, degli sconti e dei benefici che si possono ottenere.
Con ciò non intendo certo negare in radice l’opportunità delle misure prima menzionate che, se adoperate cum grano salis, possono rivelarsi, per altri versi, con valore di stimolo contro eventuali ricadute per determinati soggetti, ma anche dell’indulgenza occorre fare uso a piccole dosi, non in modo generalizzato: la legge approvata, invece, moltiplica e rende in ogni settore più incisivi istituti di tipo indulgenziale, che quasi mai, negli anni intercorsi dalla riforma penitenziaria del 1975 a oggi, hanno dato buona prova di sé. Quello che si constata — sia detto incidentalmente e senza entrare nel merito della discrezionalità del giudice — è soltanto un orientamento della prassi giurisprudenziale — salvo eccezioni — verso l’applicazione automatica di tali istituti di tipo indulgenziale, sì che, «le attenuanti generiche – così si dice – non si negano più a nessuno», l’incensurato deve sempre godere della sospensione della pena e, se minore, del perdono giudiziario, e così via.
Poste queste premesse, è facile immaginare che chi è intenzionato a delinquere si induca più agevolmente, sulla base del confronto fra i «costi» e i «ricavi», a optare per il crimine piuttosto che a esserne distolto.
6. Se quanto ho finora enunciato ha qualche fondamento, dalle nuove norme sull’ordinamento penitenziario non ci si può realisticamente attendere altro che un’ulteriore svalutazione, agli occhi dei più, delle decisioni di una giustizia che dà sempre meno «a ciascuno il suo», con un conseguente contributo all’incremento della criminalità.
Poniamo il caso, per fare un esempio, di un uomo che ha commesso un reato e che quindi — dopo il vaglio critico dei tre gradi del giudizio — è stato riconosciuto meritevole dell’ergastolo e cioè della sanzione afflittiva più grave; come può apparire «giusto» dare la pratica certezza, fin dall’inizio, che in realtà si tratta di poco più di vent’anni, inframmezzati inoltre da «permessi», da semilibertà e da altre agevolazioni?
Per analogia, il discorso vale anche per le pene di minore durata.
«Se diventasse difficile cogliere la differenza fra la prigione e un luogo di ricreazione — ammonisce un autorevole criminalista — e se ciò fosse di dominio pubblico, ben difficilmente non ne deriverebbero delle conseguenze. La prigione tradizionale, con le sue mura e le sue porte sbarrate, gioca senz’altro un ruolo importante nella concezione che l’uomo comune ha del reato» (10).
Peraltro, questo dato di fatto — che può sembrare «duro», ma che non per questo perde il suo connotato di realtà — comincia da tempo a far breccia anche all’interno di quella corrente dottrinale che aveva teorizzato la priorità, se non l’esclusività, del carattere rieducativo della pena. L’ondata crescente di criminalità e soprattutto le statistiche sulla recidiva hanno documentato che, sia negli istituti detentivi carenti di programmi di trattamento rieducativo sia in quelli che invece ne sono dotati, i risultati in termini di ricaduta nel crimine sono gli stessi (11).
«Di pari passo […] col miglioramento delle condizioni carcerarie, col perfezionamento delle tecniche diagnostiche e prognostiche, col più razionale impiego dei trattamenti individualizzati, coll’aumento delle persone professionalmente occupate nel ricupero sociale dei delinquenti, si è assistito non alla ripromessa progressiva scomparsa, ma ad un progressivo aumento dei fatti criminosi. […] E si è dovuto riconoscere che […] alla base del suo insuccesso sta una crisi non solo di attuazione ma anche di principi» (12).
La legge n. 663/1986, salutata come un positivo passo avanti per il progresso della società, rivela in realtà un’impostazione culturale logora e già smentita dai fatti e si inserisce in quel tessuto disorganico di norme che è il sistema penale vigente in Italia, in perenne oscillazione — a livello soprattutto di prassi legislativa, ma spesso anche giudiziaria — fra ampie e irrazionali indulgenze — si pensi al periodico uso dell’amnistia e dell’indulto (13) — e improvvisi ritorni alla severità repressiva, quando l’emergenza fa constatare di aver allargato le maglie oltre ogni limite: il continuo allungare e restringere — a seconda del momento — i termini della carcerazione preventiva, costituisce l’esempio più evidente di questa dinamica.
Il paradosso diventa così la condizione di vita ordinaria. Da un lato, infatti, continuano a essere scarse le garanzie di tutela della libertà individuale nelle fasi processuali che precedono il vero e proprio giudizio, anche solo di primo grado. Gli «arresti-spettacolo», con le immagini degli inquisiti trasmesse in tutte le case, e le comunicazioni giudiziarie pubblicizzate all’inizio dell’istruttoria arrecano a chi subisce le indagini, qualora successivamente emerga la sua innocenza, un danno per molti aspetti irreparabile.
D’altro lato, però, quando tutti i gradini processuali sono stati percorsi e una sentenza di condanna a pena detentiva diventa irrevocabile, quando perciò è giunto il momento dell’esecuzione della sanzione inflitta poiché un soggetto è certamente colpevole, a questo punto iniziano gli sconti, i benefici, le riduzioni; e la legge n. 663/1986 si rivela appunto ennesima espressione di questa prassi paradossale.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Cfr. il Giornale, 3-1-1987.
(2) Cfr. ibid., 27-12-1986.
(3) Cfr. ibid., 3-1-1987.
(4) Cfr. Avvenire, 19-2-1987.
(5) Cfr. Legge 10 ottobre 1986 n. 663, Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, parte I, n. 95, 16-10-1986, supplemento ordinano alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 241, 16-10-1986.
(6) Cfr. Legge 26 luglio 1975 n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 212, 9-8-1975, supplemento.
(7) Cfr., per tutti, FRANCESCO ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 7a ed., Giuffrè, Milano 1975, p. 551.
(8) Cfr. FERRANDO MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, CEDAM, Padova 1979, pp. 641-642. Evidentemente la dottrina enunciata con riferimento ai testi sia di Francesco Antolisei che di Ferrando Mantovani degrada in naturalismo se non si completa con la prospettiva secondo cui «lo scopo finale della pena dovrebbe situarsi su un piano superiore»: «Si tratta, infatti, non di proteggere anzitutto i beni garantiti dal diritto, ma il diritto stesso. Nulla è necessario alla comunità nazionale e internazionale quanto il rispetto della maestà del diritto, come pure l’idea salutare che il diritto è in sé stesso sacro e difeso e che, di conseguenza, chi l’offende si espone a castighi e di fatto li subisce», dal momento che, «nell’ordine metafisico, la pena è una conseguenza della dipendenza nei confronti della Volontà suprema, dipendenza che si inscrive fin nelle ultime pieghe dell’essere creato» (PIO XII, Discorso per il VI Congresso Internazionale di Diritto Penale, del 3-10-1953, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XV, pp. 351-353).
(9) Cfr. F. MANTOVANI, op. cit., pp. 655 ss.
(10) JOHANNES ANDENAES, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in MARIO ROMANO e FEDERICO STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Il Mulino, Bologna 1980, p. 39.
(11) Cfr. ibid., p. 43; e F. MANTOVANI, op. cit., p. 656, nota 8, con bibliografia.
(12) F. MANTOVANI, op. cit., pp. 656-657.
(13) Cfr. il mio A proposito di amnistia e di condono, in Cristianità, anno XIV, n. 133, maggio 1986.