Massimo Introvigne, Cristianità n. 117 (1985)
I più significativi parametri della vita – dal punto di vista umano e cristiano – esaminati in relazione alla civiltà medioevale, nel corso di una lunga conversazione con una delle maggiori e più combattive studiose della materia, a vantaggio soprattutto dei non specialisti, vittime designate dei luoghi comuni delle più diverse matrici ideologiche.
Intervista con Régine Pernoud
«Il Medioevo: l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali»
Régine Pernoud – «la signora Medioevo», come è stata chiamata – è forse oggi la più autorevole studiosa della civiltà medioevale europea. I suoi volumi – fra cui, per ricordare soltanto alcuni di quelli apparsi anche in traduzione italiana, Luce del Medioevo, La donna al tempo delle cattedrali, Medioevo. Un secolare pregiudizio, Eleonora d’Aquitania, Eloisa e Abelardo – non costituiscono solamente autorevoli punti di riferimento per gli studiosi, ma hanno anche ottenuto in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti, in Italia, un insperato successo di pubblico. In quasi quarant’anni di pubblicazioni tutta l’opera di Régine Pernoud è volta, come ha scritto nel 1978 Marco Tangheroni nella prefazione alla edizione italiana di Luce del Medioevo, a «smantellare il Medioevo di maniera dei luoghi comuni, mostrandone la falsità e l’assurdità» e a colpire «il modello di Medioevo diffuso nella coscienza pubblica, ottusa dai mass-media e viziata dal conformismo, [che] è in fondo ancora quello di stampo illuminista».
Approfittando di un giro di conferenze in Italia della studiosa francese, organizzato dall’Associazione Italiana Centri Culturali, e che ha visto una grande affluenza di pubblico e in particolare di giovani, e grazie alla cortesia degli esponenti torinesi di questa associazione, ho potuto incontrare Régine Pernoud e rivolgerle una serie di domande sulla sua attività scientifica e sull’attuale situazione degli studi e della conoscenza del Medioevo.
Pregiudizi vecchi e nuovi
D. Nelle sue ultime conferenze Lei ha espresso un maggiore ottimismo sulla possibilità di superare il «secolare pregiudizio» che grava sul Medioevo. Se si guarda ai libri di scuola, alla televisione, alle università, Le sembra di potere riscontrare effettivamente qualche segnale incoraggiante?
R. Occorre distinguere. La cultura accademica, bene o male, ormai sa che il Medioevo non è un’epoca di sottosviluppo, di oscurantismo, di ignoranza e ancora meno di tirannia. Non sempre, tuttavia, questo si trasmette a chi frequenta la università: almeno in Francia, gli studenti universitari hanno la possibilità di acquisire sul Medioevo un decoroso senso letterario, ma spesso non un vero senso storico.
Vi sono, poi, sacche di resistenza dove si continuano a veicolare pregiudizi e sciocchezze sul Medioevo. In Francia sono soprattutto i giornalisti a usare espressioni come «sono ancora al Medioevo» per parlare di situazioni di arretratezza di paesi del cosiddetto Terzo Mondo. A uno di questi giornalisti – con cui ho avuto occasione di parlare – ho proposto, per il Medioevo, uno slogan: «l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali».
Sempre in base alla mia esperienza, che è soprattutto francese – dell’Italia posso dire che vi sono molti specialisti di grande valore, i cui nomi temo peraltro siano ignorati dal grande pubblico -, devo dire che la sacca di resistenza più preoccupante e tenace è costituita dall’insegnamento inferiore e liceale. Vi è un autentico intestardimento di molti insegnanti nel volere restare fermi a giudizi sul Medioevo che sono abbondantemente sorpassati da molti anni. Per molti il pregiudizio è di carattere ideologico, anticlericale: si rendono conto che l’anima del Medioevo è la fede cattolica, e quindi si rifiutano di prenderlo in considerazione seriamente. Per altri insegnanti credo che, al di là di ogni prospettiva ideologica, il problema sia semplicemente costituito dalla mancanza di aggiornamento, di preparazione, di curiosità intellettuale. Naturalmente non voglio generalizzare: conosco molti professori di liceo che amano il Medioevo e si sforzano di approfondirne la conoscenza. Ma si tratta di una minoranza: in Francia, il grande pubblico sembra interessarsi oggi agli studi sul Medioevo molto di più che non la maggioranza degli insegnanti. Come sa, io dirigo a Orléans il Centre Jeanne d’Arc, che organizza iniziative scientifiche e divulgative per promuovere una migliore conoscenza di questa figura, soprattutto in base ai documenti originali. Devo dire che queste iniziative hanno trovato una eccellente risposta da parte del pubblico non specializzato, e una buona risposta degli studenti; gli insegnanti medi e liceali che partecipano sono invece pochissimi.
D. Anche in Italia, effettivamente, vi sono volumi di argomento medioevale che hanno raggiunto tirature significative, e in genere i loro autori sono francesi. Sembra, però, che l’interesse per il Medioevo non muova sempre dallo stesso punto di vista. Fra le opere più diffuse, anche in Italia, vi sono, per esempio, gli scritti di Georges Duby e di Jacques Le Goff, il cui giudizio di fondo sul Medioevo è molto diverso dal suo …
R. In genere non mi fa piacere parlare dei miei colleghi riferendomi a persone specifiche, perché, conoscendoli personalmente, dovrei dire quanto – o quanto poco – valgano. La differenza fondamentale tra la impostazione della «scuola» a cui si richiamano gli autori che ha citato e la mia è il diverso rilievo dato al lavoro di archivio. Di me stessa posso dire che ho trascorso circa quarant’anni negli archivi, mentre un Le Goff non vi ha mai messo piede. Questi autori preferiscono scrivere i loro libri sulla base di altri libri, piuttosto che verificare le fonti. Questo li porta a incorrere in errori anche curiosi, come quando Duby parla della «invenzione del matrimonio cristiano» nel Medioevo, senza sapere che del matrimonio cristiano parla già Ignazio di Antiochia, martirizzato verso l’anno 110. Molti di costoro, poi, ignorano o considerano sospetti come fonte i Concili, che pure li avrebbero aiutati a evitare molti errori.
Ma, al di là del problema del metodo, vi è una ragione culturale per cui mi sembra giusto differenziare la mia posizione da quella di questi autori che, piuttosto che combattere il disprezzo verso il Medioevo, passano da un tipo di disprezzo a un altro.
Romanico e gotico
D. Un’altra studiosa le cui opere hanno avuto una certa eco in Italia è Marie-Magdeleine Davy, la cui valutazione del Medioevo sembra privilegiare gli elementi spirituali e mistici rispetto a quelli istituzionali. La conseguenza – per esempio in certe iniziative editoriali che si richiamano alla sua scuola – consiste spesso nel privilegiare il romanico rispetto al gotico.
R. Devo confessare che ho condiviso per un certo periodo di tempo l’entusiasmo un poco esclusivo per il romanico di Marie-Magdeleine Davy. Oggi, tuttavia, anche se sentimentalmente sono maggiormente emozionata dal romanico, credo che, dal punto di vista obiettivo, si debba ammirare anche il gotico – penso a Chartres – e riconoscere che il termine «Medioevo» copre una quantità di «stili» diversi, ugualmente apprezzabili.
Da un punto di vista più generale, la scuola della Davy ha sottolineato la spiritualità e la mistica del Medioevo anche come reazione a certe tendenze che si limitavano ad analizzarne, in modo piuttosto freddo; la economia oppure la tecnica. Ma non credo che sia giusto considerare la spiritualità e la mistica del Medioevo come qualche cosa di disincarnato, di «isolato» rispetto alla società. Anzi, se vi è un aspetto caratteristico del Medioevo è proprio la capacità di incarnare la spiritualità e la fede: la stessa fede che animava i mistici si incarnava nella vita della famiglia, dei campi, delle città. L’idea che la spiritualità e la mistica siano qualche cosa di assolutamente separato dalla vita sociale e dalla vita delle istituzioni si comincia a trovare, per esempio, in qualche scrittore carmelitano del Seicento, ma non ha nulla a che fare con il Medioevo. Il problema della separazione tra fede e vita, tra fede e società – di cui oggi tanto si parla – non è un problema per l’uomo medioevale, che ha una visione unitaria delle cose: per lui è la stessa fede ad animare la esperienza mistica dei monasteri e la vita delle istituzioni cristiane.
Autorità e famiglia
D. L’accenno alle istituzioni permette, forse, di cominciare una breve carrellata sulla costellazione di valori e di istituti del Medioevo che, in grande parte, costituiscono le radici cristiane dell’Europa. Sulla base di vari suoi scritti mi sembra, per cominciare, che Lei consideri un valore centrale del Medioevo una nuova concezione dell’autorità, inedita rispetto al mondo antico.
R. La concezione medioevale dell’autorità nasce dalla regola di san Benedetto, un regalo che san Benedetto ha fatto al mondo e di cui lui stesso non poteva misurare la importanza. L’autorità nel monastero benedettino è rappresentata dall’abate, ma lo stesso termine abbas è importante e nuovo. L’autorità dell’abate è un servizio e un dovere, e san Benedetto menziona anche la speranza che l’esercizio dell’autorità migliori chi la esercita e lo aiuti a correggersi dai suoi difetti. L’abate viene chiamato anche padre, pater, ma siamo lontani da certe rigidità del diritto di famiglia romanistica, dove il padre aveva un diritto di vita e di morte sui figli. Si direbbe quasi che nella paternità dell’abate sia insita una certa tenerezza. E si ha il sentimento che tutto lo schema della nuova società si trovi già nel modo in cui san Benedetto concepisce l’autorità: un’autorità vista come «carico», dovere, e che ha lo scopo di fare maturare, di fare crescere coloro nei cui confronti viene esercitata. E non è che in questo tipo di regola manchi la partecipazione, anzi la partecipazione si espande sotto forma di consiglio; e san Benedetto suggerisce all’abate, quando si tratta di decisioni importanti, di fare appello non solo ai suoi monaci assistenti ma anche ai monaci più giovani, che spesso sono in grado di dare i consigli più audaci. La concezione di autorità di san Benedetto avrà, per tutto il Medioevo, un influsso incalcolabile sia nella vita pubblica, sia nella famiglia.
D. «Famiglia» è un’altra parola-chiave su cui, in questi ultimi anni, si è concentrata l’attenzione degli studiosi del Medioevo. Secondo certi autori il senso medioevale della famiglia non deriverebbe dal cristianesimo, ma piuttosto dal mondo germanico precristiano …
R. È vero che l’attenzione alla famiglia nel Medioevo è un fatto recente presso gli storici, e inoltre si tratta di una attenzione che è ancora scarsa fra i sociologi. Se la sociologia si preoccupasse di studiare meglio il Medioevo capirebbe di più come la famiglia, con la sua coesione, è la unità di vita che permette di sopravvivere in tempi difficili e di prosperare in tempi favorevoli.
Io stessa ho sottolineato la importanza della solidarietà familiare nel mondo celtico; tuttavia, la famiglia celtica non è ancora la famiglia medioevale. La famiglia medioevale presuppone per esistere, appunto, quella concezione dell’autorità che viene dal cristianesimo e che si esprime nella regola benedettina.
Del resto, proprio la nuova concezione dell’autorità e la partecipazione all’autorità di altri membri della famiglia sono alle radici di quel fenomeno che io ho chiamato, un poco polemicamente, «liberazione della donna» nel Medioevo, e su cui, come sa, ho insistito in molti miei scritti. La partecipazione all’autorità del marito da parte della moglie – certamente all’interno di un quadro di coesione e di unità familiare – è espressa nel Medioevo dalla incoronazione della regina, e non soltanto del re; in Francia, la regina non sarà più incoronata soltanto a partire dal Seicento. Agli inizi del Medioevo le donne possono regnare, esercitare cariche pubbliche e anche funzioni «tecniche» come l’arte della medicina; soltanto nell’«autunno del Medioevo», a cominciare dal Trecento, le donne perderanno questi poteri e queste facoltà: la Sorbona vieterà loro l’esercizio della medicina. Ma, per capire che cosa è stata la «liberazione della donna» nel Medioevo basta guardare la figura di una Matilde di Canossa; che non aveva ancora trent’anni quando diventa arbitra della supremazia in Europa fra il Papa e l’Imperatore; basta guardare alla struttura – su cui amo insistere – dei cosiddetti «monasteri doppi» maschili e femminili, separati ma contigui, in cui anche i monaci facevano professione nelle mani della badessa e non dell’abate.
Tra i frutti della nuova concezione dell’autorità – e della persona umana -, credo si debba anche insistere molto sulla liberazione degli schiavi. In Francia è ancora una donna, la regina Batilde, a chiudere l’ultimo mercato di schiavi nel 650. Il superamento della schiavitù mi sembra un fatto di importanza capitale, che in Francia non viene sottolineato adeguatamente da nessun libro di testo scolastico. Forse perché qualcuno potrebbe trovarsi in imbarazzo se gli si chiedesse di spiegare perché l’«oscuro» Medioevo ha abolito la schiavitù e il «luminoso» Cinquecento l’ha introdotta di nuovo …
Mondo economico: lavoro, proprietà e mercato
D. Accanto all’autorità e alla famiglia, Lei ha insistito sul valore del lavoro nel Medioevo, e ha perfino accennato a una «spiritualità del lavoro» che sembra vicina a quella recentemente delineata nella enciclica Laborem exercens.
R. A costo di sembrare insistente, devo ritornare qui, ancora una volta, alla regola di san Benedetto, che determina un prodigioso rovesciamento della mentalità. Il lavoro manuale, detto prima servile e in genere disprezzato, viene invece rivalutato e perfino glorificato. Vi è effettivamente anche una certa «spiritualità del lavoro». E ne nasce una cristianità, la bella cristianità dell’ottavo secolo, che sarà distrutta nel nono dalle nuove invasioni normanne, ungare, saracene. Ma la lezione non andrà perduta perché, passato il tempo delle invasioni, rinascerà un mondo di una prosperità unica nella storia. Dico «prosperità unica», ed è una espressione di Fernand Braudel, che ha notato che questa è l’unica prosperità che non deriva da conquiste esterne o da ampliamento di mercati, ma semplicemente da un più attento e laborioso sfruttamento del suolo. Mare Bloch si stupiva di come l’Auvergne, una terra dura e difficile, fosse stata resa, acclimatandovi la segale, non solo abitabile, ma perfino capace di esprimere un’arte e una cultura in magnifiche chiese. È difficile comprendere questa prosperità straordinaria se non si fa riferimento allo spirito nuovo, direi anche alla «spiritualità», con cui ci si dedicava al lavoro.
Vi sono, inoltre, anche ragioni giuridiche e tecniche che spiegano la prosperità dell’Europa in questo periodo. Abbiamo parlato dell’autorità, della famiglia, del lavoro; ma non si può non fare cenno anche al particolare valore e concetto della proprietà privata che si afferma nel Medioevo. Il Medioevo è lontano dal concetto di proprietà «assoluta» di altre epoche, come naturalmente è lontano dal collettivismo. L’immagine che userei è quella di una proprietà che si espande, che quasi «esplode» fino a diffondersi presso nuove persone, nuovi gruppi, fino ad articolarsi in diritti di usufrutto e, soprattutto, di uso perpetuo, che costituiscono la caratteristica più originale del periodo. II contadino che gode di un diritto di uso perpetuo deve versare una parte del raccolto al proprietario della terra, ma sa che raccoglierà quello che ha seminato e che potrà lasciare in eredità la terra ai suoi figli.
Il Medioevo non si disinteressava certamente della economia e del progresso economico. Per quanto molti non lo sappiano, è stato il Medioevo a inventare la economia di mercato, anche se ha vegliato sui rapporti tra economia e morale e tra produzione e consumo. Ho iniziato la mia attività di studiosa esaminando gli statuti di Marsiglia, che stabilivano, tra l’altro, che il produttore deve dare la precedenza all’acquirente che acquista per il suo bisogno personale rispetto al rivenditore che compra per rivendere. Quella che era assente nel Medioevo è la mentalità normalmente chiamata «capitalistica», che separa la economia dalla morale e stabilisce un certo primato della produzione sul consumo.
Da ultimo, fra le ragioni della prosperità medioevale vanno annoverate l’attenzione alla tecnica e lo spirito tecnico. Ormai gli studi sul punto sono sufficientemente avanzati per potere considerare l’alto grado di curiosità e anche di concreta riuscita «tecnologica» medioevale come un dato acquisito. Lo spirito benedettino non ha dato soltanto a quegli uomini una «spiritualità» del lavoro, ma ha anche spronato la loro intelligenza e la loro volontà a una serie di sforzi per migliorare la loro situazione e le loro risorse. È la nascita di una civiltà, e credo – fra l’altro – che sia un’epoca che, specie nei suoi primi secoli, ha molto da insegnare ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo, che stanno cercando soltanto ora di creare una loro civiltà. Da questo punto di vista è interessante notare che alcune organizzazioni internazionali come la OCDE, la Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economico, hanno fatto appello a noi cultori del Medioevo per organizzare seminari rivolti proprio ai paesi in via di sviluppo.
Scienza e tecnica
D. Lei mette in luce l’attenzione alla tecnica degli uomini del Medioevo. Una delle tesi più diffuse è che il Medioevo ha avuto sì un interesse tecnico, ma non ha avuto alcun vero interesse «scientifico», almeno nel senso moderno del termine.
R. È vero, si tratta di una tesi diffusa e ripetuta anche in opere con pretese scientifiche; tuttavia, almeno espressa in questi termini, è certamente una tesi falsa. Il Medioevo non si interessa soltanto alla tecnica, ma anche alla scienza: basta pensare a un Alberto Magno, che ha posto le basi della mineralogia moderna.
Si ha ragione quando si scrive che si tratta di un’epoca più tecnica che scientifica. Ma non andrei oltre, e non direi che la scienza era assente. La verità è che vi sono ancora centinaia di manoscritti importanti, proprio di carattere scientifico; che non sono stati né pubblicati né studiati. Prima che quest’opera di studio sia stata completata è prematura qualunque conclusione sullo stato della scienza nel Medioevo. Del resto, prima che tutta una serie di manoscritti di argomento tecnico venisse studiata e pubblicata, molti ritenevano che il Medioevo fosse un’epoca non particolarmente sviluppata anche dal punto di vista della tecnica. Oggi i manoscritti sono stati pubblicati e la opinione è stata ribaltata. Quando i manoscritti di carattere scientifico saranno stati studiati a fondo, è probabile che si scoprano molte cose che oggi ignoriamo o sospettiamo appena; sappiamo, per esempio, che verso il 1260 Maricourt ha scritto un trattato sul magnetismo. Sicuramente vi sono molte scoperte rilevanti per la storia della scienza nel Medioevo che attendono ancora di essere fatte.
«Archetipi dell’uomo europeo»: il santo, il re e il cavaliere
D. In alcuni dei suoi ultimi scritti, Lei ha dedicato una particolare attenzione ad alcune figure che nella società medioevale avevano un ruolo di modello e che, in un suo articolo, Lei ha definito come «archetipi dell’uomo europeo»: il santo, il re e il cavaliere. In queste figure archetipiche possiamo forse cogliere lo spirito del Medioevo e, insieme, il messaggio che il Medioevo trasmette anche alla nostra epoca. Il suo ultimo volume, in particolare, è dedicato ai santi del Medioevo. Secondo Lei, vi è una caratteristica particolare della santità medioevale rispetto alla santità come è stata vissuta in altre epoche?
R. Rispetto a quella dell’epoca che in Francia chiamiamo «classica», la santità del Medioevo ha – direi – la caratteristica di insistere sulle virtù attive; anche se certamente non si disinteressa della contemplazione. Oggi la Chiesa deve spesso ricordare che la santità non è qualche cosa di riservato a spiriti particolari, magari soltanto a chi vive nei monasteri, ma che si può aspirare alla santità e conquistarla anche nella vita profana, anche negli impegni secolari e laicali. La mentalità secondo cui la santità è separata dalla vita «profana» non si ritrova, salvo rare eccezioni, nel Medioevo, e in ogni caso non è tipicamente medioevale, anzi nasce con il crollo della Cristianità del Medioevo. Credo sia caratteristica del Medioevo la consapevolezza largamente diffusa che ci si può santificare anche senza dedicarsi alla vita contemplativa, anche essendo laico, cavaliere oppure re. Quando ho letto per la prima volta certi testi del Concilio Vaticano II sulla vocazione del laico a santificarsi nelle cure secolari – che qualcuno considerava una novità rivoluzionaria – ho osservato che si trattava invece di riproporre una serie di nozioni che il Medioevo conosceva molto bene. Del resto, non si tratta di un movimento che inizia soltanto con il Vaticano II, perché già nell’Ottocento si era cominciata a riscoprire la vocazione dei laici a santificarsi attraverso l’impegno sociale: un’idea – appunto – molto medioevale.
D. Il discorso sulla vocazione del laico – che sta molto a cuore a chiunque militi in una associazione laicale – porta alle altre figure-archetipo a cui prima si è fatto cenno, cioè il re e il cavaliere. Qual è la differenza tra queste due figure, e quali sono i diversi modi di rapportarsi alla vita sociale e politica incarnati rispettivamente dal re e dal cavaliere?
R. All’inizio del Medioevo molti re sono anche cavalieri; questo fatto diventa meno comune sul finire dell’epoca. Tuttavia mai il re è stato considerato automaticamente cavaliere; anche il re doveva venire ordinato per entrare nella cavalleria. La funzione politica e la funzione cavalleresca sono entrambe rivolte al bene comune, ma sono diverse: il re e i principi «amministrano», il cavaliere non è un «amministratore», ma assume come funzione propria la difesa degli altri e specialmente dei deboli. Cavalleria e «politica amministrativa» sono due realtà differenti, che rimangono ispirate da scopi ultimi simili, e di cui una figura come san Luigi IX ha proposto, con la sua vita, una sintesi.
«Spirito di crociata»
D. Tra i pregiudizi che Lei ha combattuto, un’intera serie riguarda le crociate. In vari suoi libri, Lei ha mostrato i rapporti tra spirito crociato e spirito cavalleresco, mentre oggi la espressione «spirito di crociata» è usata, per lo più, come sinonimo di fanatismo e di intolleranza acritica …
R. È vero: e non solo i giornalisti usano in modo così improprio la espressione «spirito di crociata», ma lo ha fatto, di recente, anche un canonico di Notre Dame, che preferisco non nominare. Il Medioevo conosce la parola «crociato», riferita al singolo combattente, mentre la espressione «crociata», cruzada, comincerà a essere usata soltanto in Spagna nel Cinquecento. Le espressioni più usate per designare le crociate sono «partenza», «passaggio» e «pellegrinaggio». Lo spirito originario delle crociate è quello di un pellegrinaggio in armi per liberare i luoghi santi. Rivalità, interessi economici, desiderio di aprire nuove vie ai mercanti dei propri paesi, tutto questo è esistito nelle crociate, ma in un’epoca successiva e senza fare parte dello spirito originario, di cui peraltro qualche cosa si è sempre conservato.
«Medioevo», «civiltà cristiana romano-germanica» e «cristianità»
D. La parola «crociata» sembra, insieme, protagonista e vittima di una «guerra delle parole» che frastorna, chi non è specialista e rischia talora di confondere anche lo storico. A questo proposito, Le chiedo se Le sembra opportuno conservare la stessa parola «Medioevo», e se non converrebbe parlare, per esempio, di «civiltà cristiana romano-germanica».
R. Per tutta la mia vita ho detto che non si dovrebbe impiegare la parola «Medioevo», e per tutta la mia vita ho continuato a impiegarla. Esistono ormai delle convenzioni linguistiche così radicate che abbandonare questa parola, certamente imprecisa, sarà piuttosto difficile. Certo, è irrazionale chiamare «medio» un millennio, e un solo termine per capire mille anni è insufficiente. In Belgio, per esempio, nell’insegnamento si è convenuto di chiamare «Medioevo» soltanto il Trecento e il Quattrocento.
È vero che la formula «civiltà cristiana romano-germanica» sarebbe più preciso, e che si potrebbe anche usare semplicemente la parola «cristianità». Per usare «cristianità» occorrerebbe, peraltro, chiarire in che senso il Medioevo affermava che extra Ecclesiam nulla salus. Questa espressione veniva intesa nel Medioevo, correttamente, nel senso che la Chiesa è il solo sacramento di salvezza, ma non nel senso che fuori della Chiesa vi fosse soltanto una sorta di «massa dannata» di cui non valeva la pena di interessarsi. I cristiani del Medioevo si interessavano delle altre religioni, hanno tradotto il Corano cinquant’anni dopo la sua prima stesura, e hanno tradotto anche il Talmud.
Spirito cavalleresco e movimenti laicali
D. Torniamo, in conclusione, allo spirito cavalleresco, che Lei ha definito come la espressione più tipica dello spirito medioevale. Se lo spirito cavalleresco, in un certo senso, «rappresenta» il Medioevo, che cosa di questo spirito Lei ritiene sia ancora valido e interessante per gli uomini di oggi?
R. Io sono stata accusata di parlare soltanto delle «luci» del Medioevo, dimenticando talora le ombre. Alle luci, naturalmente, vanno aggiunte anche le ombre, ma ciò che è straordinario del Medioevo è la sua scala di valori. Era un tempo che aveva un senso della vita, radicato nel cristianesimo, che noi oggi riusciamo a stento a capire: pensi che in tutto il millennio abbiamo un solo caso di suicidio documentato; il suicidio era praticamente sconosciuto. Un’epoca che pone al suo vertice come ideale il cavaliere, la cui dote essenziale è la generosità, non poteva essere un’epoca sordida.
Del resto, il termine «cavaliere», o «cavalleresco», anche dal punto di vista linguistico non si è svalutato: oggi, nella lingua francese, «cavalleresco» esprime ancora qualche cosa di positivo.
La domanda se qualche cosa della scala di valori del Medioevo è ancora capace di entusiasmare oggi mi sembra più difficile. Temo che quando si parla di «valori» oggi molti pensino soltanto alle azioni quotate in borsa. Tuttavia nel cavaliere medioevale vi è uno spirito di dépassement, di superamento di sé stesso, che trasmette un messaggio e una lezione valida per ogni epoca. Nella storia militare dell’Europa vi sono state spesso figure che hanno incarnato questo spirito, forse anche in tempi molto recenti. Vorrei aggiungere poi che, come abbiamo già detto, il centro della spiritualità cavalleresca è l’idea di una santificazione del laico nel mondo secolare; un’idea che oggi è certamente ancora di attualità, e che mi sembra venga riproposta e vissuta proprio da alcuni movimenti laicali.
a cura di
Massimo Introvigne