Giovanni Cantoni, Cristianità n. 117 (1985)
Mons. Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, Riconciliazione nella verità, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1984, pp. 24, L. 2.000.
Idem, San Francesco e l’Italia di oggi. Omelie tenute in Assisi il 3-4 ottobre 1984 in occasione dell’offerta dell’olio per la lampada votiva da parte della Regione Emilia-Romagna, ibid. 1984, pp. 24, L. 2.000.
In una collana di documenti pastorali intitolata Euntes, docete e da lui stesso diretta, mons. Giacomo Biffi presenta come primi testi Riconciliazione nella verità, una sua meditazione intesa a orientare spiritualmente l’impegno pastorale dei sacerdoti e dei fedeli della archidiocesi di Bologna, e San Francesco e l’Italia di oggi, che raccoglie due omelie da lui tenute in Assisi rispettivamente il 3 e il 4 ottobre 1984 in occasione della offerta dell’olio per la lampada votiva da parte della Regione Emilia-Romagna.
Nato a Milano nel 1928, sacerdote dal 1950, poi dottore in teologia e quindi insegnante della stessa materia, finalmente vescovo e ausiliare della archidiocesi di Milano dal 1976, mons. Biffi è dal 1984 arcivescovo di Bologna, sì che i testi in questione sono espressione della sua funzione di 113º successore di san Petronio.
Il primo documento magisteriale – «alcune linee per una meditazione» – costituisce un contributo evidente, anche se non dichiarato come tale, al secondo convegno della Chiesa italiana Riconciliazione e comunità degli uomini, indetto a Loreto per l’aprile del 1985, benché non manchino nel testo importanti spunti relativi ai criteri di ecclesialità di gruppi, di movimenti e di associazioni di fedeli nella Chiesa. Premessa una esposizione del significato della parola «riconciliazione», «che nel Nuovo Testamento si trova usata soltanto da Paolo, e neppure con grande frequenza», il presule rileva che «il concetto di riconciliazione del Nuovo Testamento si riferisce sempre a un rinnovamento dei rapporti con Dio», e che «implica come logica conseguenza e, per così dire, come naturale contraccolpo un rinnovamento dei rapporti tra gli uomini», «press’a poco, come […] il concetto di “fraternità” [non] è mai presente come un concetto assoluto nell’evangelo, ma sempre come il necessario riverbero dell’universale paternità di Dio».
Quindi egli nota come l’«azione riconciliatrice» – che è «iniziativa […] di Dio», «non è un “concordato” o un trattato di pace» e non consiste in un: «“Non parliamone più”; o: “Tutti abbiamo i nostri torti”; o: “Guardiamo a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide”» – sia sempre «in corso nel singolo cristiano» e nell’«organismo ecclesiale», perchè – anche se è «opera […] tutta compiuta col sacrificio di Cristo» – deve ancora giungere «a tutte le cose». Ma, se per il compimento storico di questa «opera» «sono gli “apostoli” ad aver ricevuto il ministero della riconciliazione», tutti «gli uomini non sono mai soltanto termine dell’azione salvifica, ma, una volta raggiunti, ne diventano anche il comprincipio».
A questo punto cade opportuno l’ammonimento secondo cui «chi vuol mantenersi in una visione di fede e restare alla scuola della parola di Dio, deve guardarsi dal “mondanizzare” il concetto di riconciliazione, riducendolo a un facile irenismo o a un pacifismo generico». Infatti, «mantenersi in una visione di fede e restare alla scuola della parola di Dio» «non può voler dire: “mettiamoci d’accordo tra noi”, “lasciamo perdere ogni motivo di divisione”, “non stiamo a indagare chi abbia torto e chi abbia ragione”», dal momento che «questi princìpi […] non possono animare la riconciliazione evangelica». Infatti – ancora – «anche se a prima vista può sembrare il contrario, è la verità che unifica»: «Perciò è indispensabile che non si perda mai nella Chiesa il senso della verità e della certezza. Una Chiesa che non abbia più la consapevolezza di essere posseduta dalla verità e di essere portatrice di certezze incrollabili, sarebbe una Chiesa inutile, e invece di essere unificata e unificatrice, sarebbe disgregata e disgregatrice». Non è forse di esperienza comune il fatto che l’uomo riesce «a sbagliare […] benissimo da solo»? Perciò, infine, la Chiesa assolve realmente il compito di riconciliare soltanto se evangelizza.
Mons. Biffi passa poi a esporre «un programma di riconciliazione nella verità» fondato sul recupero del «senso della netta distinzione che c’è tra il bene e il male», sulla «purificazione interiore» e sul rimettere «in onore la “verità”, che sola è salvifica, quindi l’importanza di distinguerla sempre accuratamente dall’errore», mentre essa «oggi […] appare spesso […] offuscata da altre tematiche, quali il dialogo, il confronto, la comprensione dell’errore, le varie “aperture”», che non sono mai «fattori di salvezza». Inoltre questo rimettere in onore la verità si deve, tra l’altro, accompagnare alla persuasione che essa «è sempre divina da chiunque sia detta […], come amava ricordare san Tommaso in quel Medioevo che comunemente si ritiene intollerante».
Dopo avere distinto tra un pluralismo «che ha alla sua radice l’infinità della divina ricchezza e la finitezza dell’uomo che vi si accosta» e un altro pluralismo che, al contrario, costituisce una «grande insidia alla comunione», in quanto prodotto dal «demonio, che è l’apostolo della disgregazione», l’arcivescovo di Bologna traccia «linee di comportamento» pastorale «alla luce del principio della “verità”», proposte per «discernere le aggregazioni sane da quelle aberranti», e afferma avere «presunzione di “verità” quelle aggregazioni che hanno viva la distinzione tra il bene e il male, che ripudiano ogni loro commistione, che non dimenticano che la vita, cristiana quaggiù è una battaglia contro la falsità; battaglia dalla quale non si può disertare»; «che riconoscono che Gesù è vivo, Signore, Salvatore del mondo e della storia, e non ha bisogno di essere salvato da nessuna forza mondana e da nessuna ideologia del nostro tempo»; e «che ammirano nella Chiesa, anche quando è vestita di stracci, la bella Sposa di Cristo, si affidano a lei come a “colonna e fondamento della verità”, la amano come una madre».
Se queste «linee di comportamento» valgono per l’azione pastorale all’interno della Chiesa, «verso la comunità degli uomini, l’azione di riconciliazione» «si risolve essenzialmente: nell’annuncio della verità evangelica; nell’invito alla conversione; nell’inventare occasioni sempre più numerose perché il Salvatore sia conosciuto e la sua grazia conquisti i cuori».
Nella predica alla messa della sera del 3 ottobre 1984, in Santa Maria degli Angeli, mons. Biffi esordisce delineando la figura di san Francesco come «un uomo crocifisso», e si chiede immediatamente come mai essa sia «così bene ricevuta nell’Italia di oggi»: «Forse perché la nostra società si è sul serio aperta al suo messaggio di vita crocifissa?», oppure tale «buona accoglienza» è «dovuta fondamentalmente a una serie di malintesi»?
Inclinando a rispondere affermativamente al secondo quesito, l’arcivescovo di Bologna passa a esporre – felicemente quanto alla forma, anche se tristemente quanto a ciò che rivela – tale «serie di malintesi», per «chiarirne almeno qualcuno». Anzitutto egli tratta del «malinteso ecologista», «un malinteso che riguarda l’amore per la natura», che «per san Francesco […] nasce dalla limpidità della sua visione di fede», ed «è lontanissimo da quel naturalismo neutro, laicizzato, che esalta le creature senza riferirle a Dio che le ha chiamate all’esistenza e le sostiene continuamente col suo amore». Di passaggio, mons. Biffi nota come «in quest’Italia – che pur onora Francesco d’Assisi come suo protettore – troviamo molti che si commuovono al pensiero della strage degli uccellini (ed è un pensiero gentile) e accolgono al tempo stesso tranquillamente come una conquista civile e un diritto garantito dalla legge l’uccisione della vita umana ai suoi inizi (che è un’infamia inqualificabile)».
Alla diretta denuncia di «questa tragica schizofrenia» fa seguito la chiarificazione del «malinteso pacifista»: «La radice […] [della] pace è […] lo stato di grazia, che ci è stato donato in virtù della croce di Cristo. Perció Francesco unisce sempre il tema della pace con quello della salvezza», così che – ben lontano «da un irenismo che non si preoccupa più di distinguere il vero dal falso, il bene dal male», e assolutamente non dimentico «di combattere il peccato, l’unico grande nemico della pace e della salvezza» – il santo di Assisi non può a nessun titolo essere arruolato «nell’esercito di coloro che predicano la pace covando in cuore risentimenti, rancori, ideologie di parte; che presentano la pace non tanto come il risultato della conversione interiore, quanto come il sinonimo della resa di fronte al male e della rinuncia a difendere i valori di verità, di giustizia, di libertà, nei quali essi mostrano di non credere più».
Dopo che, la sera del 3 ottobre, ha implorato «il dono […] del coraggio» per non «lasciarsi prendere dalla tentazione facile degli addolcimenti e delle mondanizzazioni», e «per l’Italia» ha domandato «come grazia che ritrovi la sua antica anima cristiana e la concordia che nasce non dal compromesso ma dal comune possesso della verità», nella omelia pronunciata la mattina del giorno seguente in San Francesco, l’arcivescovo di Bologna guida a cogliere «la lezione vera» del santo, contro «un francescanesimo di maniera, svigorito in un estetismo senza convinzioni esistenziali, omogeneizzato (per così dire) in modo che tutti lo possano assumere senza ripulse e senza drammi interiori, stemperato in una religiosità indistinta che non inquieti nessuno».
Perciò – alla scuola di un francescanesimo non di maniera – egli ripropone anche all’«Italia dei nostri giorni, che spesso si dimostra assalita da mali spirituali e contraddittori e tutti gravi», il Vangelo «come […] unica valida norma di vita»; «il ritorno alla Chiesa», madre antica da cui essa si è venuta sempre più allontanando; e «la conversione». Quindi, citando parole del santo, riferisce alcune «raccomandazioni particolari di Francesco alla nazione italiana in alcune delle sue componenti»: «a tutti i fedeli egli raccomanda soprattutto l’osservanza dei comandamenti di Dio»; «ai sacerdoti ricorda più di ogni altra cosa il loro dovere di trattare con riverenza il “santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo”»; agli uomini politici ripropone il pensiero della morte contro le tentazioni che si accompagnano al potere. Infine, il presule conclude implorando dal Poverello di Assisi, tra l’altro, la salvezza per tutti noi «dalla disgrazia nazionale di voler essere troppo furbi».
Benché «recensione» sia anzitutto, se non soprattutto, adeguata informazione del pubblico a proposito di novità principalmente editoriali, essa comporta anche, in una certa misura, un aspetto di «critica», cioè di «giudizio», di «valutazione». Poiché i testi che ho recensiti – cioè, prima di tutto, esposti nelle loro grandi linee – sono espressioni di magistero episcopale, ci si potrebbe chiedere se sia lecito farli oggetto di un resoconto che comprenda anche eventuali elementi «critici». Ebbene, credo che essi non si sottraggano di loro natura a ogni «giudizio» e non solo; di fatto, a quello degli «infedeli», ma anche, di principio, a quello dei fedeli. Questi – fatti salvi, evidentemente, i modi e i toni – possono esprimere anche pubblicamente la loro «valutazione» a proposito di testi del genere, sia rispetto al loro contenuto che riguardo alla loro forma e alla opportunità della loro pubblicazione, e ciò sulla base non solo del senso comune ma anche del sensus fidelium: purché, quindi, con la consapevolezza che la emissione di tale «valutazione» – che si fonda su ciò che li unisce ai membri della sacra gerarchia, cioè la comune umanità e la comune fede – non può e non deve in nessun modo intaccare ciò che da essa li distingue e a essa li sottopone – cioè il diverso ministero del corpo della Chiesa.
Esposto il principio, confesso che i documenti di mons. Biffi mi hanno messo a tale punto a mio «agio» quanto alla loro dottrina da lasciarmi soltanto qualcosa da dire a proposito della loro forma e della loro prudenzialità. Secondo queste due prospettive ritengo di poterli qualificare come assolutamente inconsueti, sia quanto a chiarezza e a efficacia di stile che quanto a inequivocità e a puntualità di intervento, tanti sono in essi i malintesi e le ambiguità dissipati, per tacere delle verità proclamate e degli errori denunciati.
Questa straordinarietà, che mi sembra tale rispetto a quanto da non poco e da parte di non pochi è dato di leggere in non pochi campi – purtroppo non escluso appunto quello costituito dalle espressioni del magistero episcopale singolarmente oppure collettivamente esercitato -, mi induce a raccomandarli come occasioni precisamente inconsuete per respingere – come si legge in uno di essi, Riconciliazione nella verità – «una considerazione mondana […] [della] verità» stessa, che porta a vederla «come ragione di divisione» e, quindi, «per prendere partito nella grande lotta cosmica tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male». Infatti, poiché «la “Chiesa” (cioè la realtà raggiunta e rinnovata dallo spirito che ci è mandato dal Cristo crocifisso e risorto) e il “mondo” (cioè la realtà opaca, impenetrabile, dominata dal Maligno, che secondo la parola di Gesù ne è il “principe”) si fronteggiano all’interno di ogni coscienza», la battaglia che si danno è – secondo un recentissimo pronunciamento di Giovanni Paolo II davanti ai cardinali, alla Famiglia Pontificia, alla Curia e alla Prelatura romana, del 21 dicembre 1984 – «un confronto che non consente neutralità: occorre scegliere da che parte stare».
Giovanni Cantoni