Giovanni Cantoni, Cristianità n. 118 (1985)
Giudizi morali non troppo meditati hanno fatto evocare, a proposito della evasione fiscale, la nozione di «peccato sociale», senza che si sia prestata almeno altrettanta attenzione ai fatti costituiti dalla dimensione della spesa pubblica e della imposizione fiscale. La indispensabile valutazione di questi due fenomeni nella prospettiva del bene comune e non in quella del «mal comune, mezzo gaudio».
In margine al «pacchetto Visentini»
La imposizione fiscale, la spesa pubblica e l’altra faccia del «peccato sociale»
Se sabato 16 febbraio 1985 si è conclusa una tappa non irrilevante della cosiddetta «manovra fiscale» – con la conversione in legge, da parte delle camere, del «pacchetto Visentini» in terza versione -, mi pare molto importante che la polemica sulla materia non si esaurisca, evitando così che, per la ennesima volta, un «fatto compiuto» assurga alla dignità di «principio», almeno nella consapevolezza della maggioranza dei cittadini. Con la confessata intenzione di non lasciare cadere un tema tanto grave, come quello del giudizio politico-morale da emettere a proposito della imposizione fiscale considerata sia in tesi che in concreto, ritengo utile svolgere qualche riflessione su quanto è stato detto – nei mesi scorsi – con intenzione di valutazione semplicemente morale in occasione degli episodi di reazione sociale che hanno accompagnato le ultime mosse della citata «manovra», dal momento che tali pronunciamenti sono stati caratterizzati – nella loro grande maggioranza, per non dire nella loro totalità – dalla pressoché esclusiva enunciazione dei doveri del cittadino nei confronti della società, a sua volta considerata soprattutto nel suo momento organizzativo, cioè come Stato.
In questa prospettiva e secondo questa angolazione non è mancato, infatti, chi ha parlato e ha scritto della evasione fiscale come di «peccato sociale», avendo presente il «peccato commesso contro la giustizia nei rapporti […] dalla persona alla comunità», ma, contemporaneamente, rivelando una preoccupante insensibilità a proposito del «peccato commesso contro la giustizia nei rapporti […] dalla comunità alla persona», cioè di «ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze», che può essere «di commissione o di omissione», e che ha come attori non singoli cittadini, ma «dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s’impegnano con saggezza al miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico» (1).
Piuttosto che attribuire a malizia oggettiva il «taglio» dato a tale giudizio – tanto diffuso quanto generico – preferisco ricordare un ammonimento rivolto a suo tempo da Pio XII a un congresso di cultori di pubbliche finanze: «Molti, […] – troppi – guidati dall’interesse, dallo spirito di parte, o anche da considerazioni più di sentimento che di ragione, affrontano e trattano le questioni finanziarie e fiscali da economisti e da politici improvvisati, con tanto più ardore e foga, con tanta maggiore sicurezza e anche disinvoltura, quanto più grande è la loro incompetenza. Talvolta, non sembrano neppure supporre la necessità, per risolverle, di studi attenti, di molteplici indagini e osservazioni, di esperienze comparate» (2).
Ebbene, anche se la valutazione morale non è e non deve essere tecnica, non esime assolutamente dalla conoscenza dei fatti, affinché almeno – pure escludendo improvvisazione, interesse, e/o spirito di parte – considerazioni sentimentali non abbiano la meglio sulle ragioni, producendo sicurezza e disinvoltura di giudizio infondate.
Perché l’ovvia presunzione a favore dell’autorità – meno ovvia a proposito di chi la gestisce, conoscendo la approssimazione dei meccanismi di selezione e le pratiche di manipolazione del consenso – trovi un limite, trascrivo alcune affermazioni – che acquistano quasi il tono di tesi – del professore Antonio Martino, della università di Roma, direttore del CREA, il Centro di Ricerche Economiche Applicate (3).
1. «Dal 1974 al 1983 le entrate tributarie sono aumentate di oltre sette volte in termini nominali (un incremento del 625%) e dell’84% in termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione».
2. «[…] la crescita della fiscalità si è venuta accelerando: dal 1980 al 1983 le entrate tributarie sono aumentate del 92% in termini nominali e del 22% in termini reali, un incremento gigantesco se si tiene conto del fatto che ha avuto luogo in anni di stagnazione, quando il reddito reale pro capite è rimasto costante o leggermente diminuito».
3. «Le entrate totali del settore pubblico consolidato sono passate da meno di un terzo del prodotto interno lordo nel 1974 (il 33,1%) a quasi la metà del Pil nel 1983, (il 47,8%)».
4. «Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il deficit pubblico è aumentato, dal 1974 al 1983, di quasi dieci volte in termini nominali e del 152% in termini reali, passando dall’8,1% al 16,5 per cento del Pil. Contrariamente a quanto dicono di credere molti uomini politici, la correlazione fra fiscalità e dissesto è positiva: al crescere dell’imposizione cresce il deficit pubblico».
5. «Nel 1983 […] la spesa totale del settore pubblico è stata pari al 61,2% del prodotto interno lordo. Com’è ovvio, la spesa pubblica va finanziata prelevando denaro da tasche private; nel 1983, quindi, l’italiano medio ha consegnato il 61,2% del suo reddito all’erario e lo ha fatto senza protestare. Come mai? La risposta va cercata nella struttura del finanziamento della spesa pubblica»:
a. «[…] nel 1983, i contributi sociali sono stati pari al 26,8 per cento della spesa pubblica totale. I “contributi” sono obbligatori […], ma […] vengono in larga misura “pagati dal datore”, risultano invisibili al lavoratore, che paga senza rendersene conto».
b. «Le imposte indirette furono pari al 18,4% della spesa pubblica totale; anche in questo caso si tratta di imposte quasi perfettamente invisibili: il pubblico è convinto che se la benzina è cara la colpa è degli sceicchi o delle multinazionali, e non si rende conto del fatto che qualcosa come i due terzi del “prezzo” della benzina sono costituiti da imposte».
c. «Le imposte dirette hanno fruttato un gettito pari al 25,6% della spesa pubblica totale. Si tratta delle più visibili fra le imposte, ma, anche in questo caso, la visibilità non è totale, per via delle ritenute alla fonte. Il lavoratore, infatti, guarda al suo reddito al netto delle ritenute, e non si rende conto di quanto ha pagato di imposte per questa via, tramite il suo datore di lavoro».
d. «Infine, c’è l’indebitamento pubblico, che nel 1983 è stato pari al 21% della spesa pubblica totale: è questa la più invisibile di tutte le imposte, perché pochi si rendono conto che la spesa pubblica “finanziata” in deficit non è una manna dal cielo, un beneficio che nessuno paga».
Se le cose stanno così – e sottolineo il «se», perché intendo lasciare la responsabilità dei dati alla mia fonte – per quanto attiene ai primi tre punti e al giudizio che se ne può evincere circa i gestori della cosa pubblica di oggi e/o le strutture predisposte da chi l’ha gestita almeno in un passato prossimo, esso potrebbe non essere negativo, almeno di fatto e nel caso concreto, solo se «la qualità e quantità di servizi pubblici» fossero «aumentate dell’84% nell’ultimo decennio», cioè se «la nostra difesa nazionale, l’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia, lo “stato sociale”, le poste, ecc.» fornissero «un 4% in più di servizi rispetto al 1974».
Non commento le condizioni per un giudizio non negativo e, posto che «non sussiste nessun dubbio sul dovere di ciascun cittadino di sopportare una parte delle spese pubbliche», mi sembra indispensabile ricordare almeno e anche che «l’imposta non può […] mai diventare per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare il deficit provocato da un’amministrazione imprevidente»; che lo Stato deve «astenersi da qualsiasi spreco di denaro pubblico; prevenire gli abusi e le ingiustizie da parte dei suoi funzionari», e che «spesso le imposte troppo onerose opprimono la iniziativa privata, frenano lo sviluppo della industria e del commercio, scoraggiano le buone volontà» (4).
Dunque, se le cose stanno così, perché evocare il «peccato sociale» soltanto a proposito del contribuente e non anche di chi determina e gestisce la imposizione?
Venendo, poi, agli ultimi due punti, con le loro articolazioni, si deve notare che è molto logico che la protesta fiscale esploda per opera di chi è colpito «visibilmente» piuttosto che in modo «occulto»: «a conti fatti […], sembra ragionevole sostenere che della pressione fiscale complessiva solo circa un quinto è costituito da imposte visibili, pagate cioè da contribuenti consapevoli di versare soldi all’erario, mentre i restanti quattro quinti sono costituiti da imposte in varia misura “occulte”, pagate da contribuenti inconsapevoli. Se ciò è vero, per ogni milione di imposte che sa di pagare, il contribuente italiano ne paga altri quattro senza rendersene conto, ed è per questa ragione che, fino ad ora, la protesta fiscale si è fatta attendere»; ed è per questo che oggi esplode promossa da chi è più di altri colpito da imposte «visibili», quelle dirette, anche perché, tra l’altro, «stanno diventando sempre più visibili: dal 1974 al 1983 […] il gettito delle imposte dirette è aumentato di oltre 12 volte in termini nominali, e di oltre il 200% in termini reali, con un aumento del 150% dell’incidenza sul Pil».
Ancora: se le cose stanno così, piuttosto che «criminalizzare» con estrema superficialità chi si lamenta, in concreto, anche per gli altri, sarebbe forse il caso di esaminare l’altra faccia del «peccato sociale» – quella relativa alla condotta del pubblico nei confronti del privato – tenendo presente che «il sistema finanziario dello Stato deve mirare a riorganizzare la situazione economica in modo da assicurare al popolo le condizioni materiali di vita indispensabili al perseguimento del fine supremo assegnato dal Creatore: lo sviluppo della sua vita intellettuale, spirituale e religiosa» (5), ma che, purtroppo, «la elaborazione delle leggi fiscali negli Stati moderni non ubbidisce sempre a criteri razionali e precisi; le necessità del momento, le tendenze politiche o economiche degli uomini al potere spingono la fiscalità in direzioni divergenti» (6).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 2-12-1984, n. 16.
(2) PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, del 2-10-1948, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. X, p. 239.
(3) Cfr. ANTONIO MARTINO, Se scoppia la rivolta fiscale, in Il Sole-24 ore, 25-1-1985. Tutte le citazioni senza indicazione di fonte sono tratte da questo articolo.
(4) PIO XII, Discorso ai partecipanti al X Congresso della Associazione Fiscale Internazionale (I.F.A.), del 2-10-1956, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVII, pp. 508-509.
(5) IDEM, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale di Finanze Pubbliche, cit., p. 240.
(6) IDEM, Discorso ai partecipanti al X Congresso della Associazione Fiscale Internazionale (I.F.A.), cit., p. 508.