Juan Vázquez de Mella y Fanjul, Cristianità n. 141 (1987)
Discorso nel parco de la Salud a Barcellona, del 17-5-1903, in IDEM, Regionalismo y monarquia, antologia e studio introduttivo di Santiago Galindo Herrero, Rialp, Madrid 1957, pp, 288-294. Traduzione redazionale.
Apologia della tradizione
Siamo i rappresentanti della tradizione e so già che quanto questa parola esprime viene combattuto e viene schernito in questi tempi da parte delle diverse categorie di gente, perché suppongono che significhi qualcosa di fossile e che sia come pietrificato, e la fanno simbolo di restaurazioni archeologiche di non so quali rovine che giacciono sepolte in cimiteri abbandonati.
La tradizione, considerata soggettivamente, è un sentimento che si fonda sul rispetto degli antenati; considerata in sé stessa è trasmissione e, lungi dal significare cosa pietrificata, implica il movimento, dal momento che suppone qualcosa che passa da alcuni ad altri. Ciò che può, e spesso non deve cambiare sostanzialmente, è quanto viene trasmesso: credenze, sentimenti, costumi, istituzioni e aspirazioni di un popolo. Si tratta di un’eredità spirituale, ma non individuale e fatalistica come quella immaginata da alcuni positivisti moderni per spiegare, sommando secoli, ciò che per il fatto di essere universale è permanente e sta sopra al tempo. Nessuno nega l’eredità fisiologica, che è un fatto visibile nei caratteri fisici delle razze, e non è meno autentica quella sooiale. Le credenze che abbiamo, i nostri costumi, le istituzioni sociali fondamentali, i tratti comuni del carattere, la lingua in cui li esprimiamo, le influenze secolari su cui è stata generata la razza, tutto questo, senza di cui non saremmo gli stessi, è oggetto di tradizione e comunicato da essa.
La tradizione è tanto essenziale agli uomini che si può negarla soltanto per stabilirne un’altra originale oppure importata. Nessuna tradizione fondamentale scompare tradizionalmente, scompare sempre in modo rivoluzionario, e la rivoluzione che la abbatte invoca un’altra tradizione, anche se parla di novità. Se si tratta di qualcosa di originale che è germinato in una società, è una tradizione che comincia e che vuole crescere e continuare per soppiantarne un’altra che è stabilita. Se è importata dalla moda di un popolo, era ivi tanto radicata e prospera che ha superato i suoi limiti e comincia a influire come un principio nei popoli che la ricevono. La teoria più ideale e che presume di avere più originalità si stabilisce soltanto per continuare. Per questo la traduzione delle tradizioni la rivoluzione la chiama conquiste; e quando si mettono in pericolo queste conquiste, per sostenerlesi invocano gli sforzi, il sangue, i sacrifici e il tempo che sono stati necessari per conseguirle, cioè la tradizione dei predecessori immediati che si erano sollevati per estinguere, in nome di formule a priori, questo sentimento nell’anima e questa legge nella società.
Il sentimento di tradizione è duplice: guardando indietro suppone il rispetto degli antenati, che presso alcuni popoli è giunto a costituire un culto e che si perde completamente soltanto in quelli degenerati, e guardando avanti, nel desiderio dell’immortalità in cui esprimiamo un attributo dello spirito. Il desiderio di perpetuarsi e di perpetuare le proprie opere accompagna sempre le azioni umane. Nessuno lavora perché i suoi sforzi si estinguano se non quando li ordina come mezzi rispetto ad altre cose che vuole si perpetuino come fini. Ma il diritto all’immortalità di nostre opere non è in contraddizione con il diritto all’immortalità di nostri antenati, perché, siccome la loro opera è nostra, possiamo aumentarla e perfezionarla e così soddisfare il nostro diritto rafforzando il loro. E una cosa, signori, che non può essere negata senza invocarne un’altra simile e che non può essere distrutta senza mutilare la natura umana, partecipa certamente della natura degli assiomi e non può essere negata radicalmente senza cadere nell’assurdo.
Dal punto di vista giuridico la tradizione è il vincolo fissato dal diritto all’immortalità degli antenati e dal dovere di rispettarlo da parte dei loro discendenti, che a loro volta hanno il diritto al rispetto da parte dei loro successori. Ma questo rapporto giuridico si fonda, come tutti, sulla legge morale, e perciò ogni tradizione non subordinata a essa non può essere rispettata, perché i rapporti con Dio e con la natura umana che ordinano costituiscono le tradizioni più antiche e più rispettabili fra tutte.
Vedete, signori, come si giunge a questa conclusione, per alcuni poco piacevole: una delle differenze essenziali fra l’uomo e l’animale è il tradizionalismo, al punto che si potrebbe dire che l’uomo è un essere tradizionalista e che quello privo di ragione è un essere antitradizionalista.
E, cosa notevole, questa differenza si fonda sul progresso. L’animale non astrae, non generalizza, non formula concetti universali, non li confronta tra loro, né con gli oggetti particolari che percepisce, non riflette, non reagisce, non pensa. Se ragionasse, progredirebbe, e siccome non progredisce, non inventa. Nessun animale ha mai inventato qualcosa. L’istinto è immutabile: se ha qualche variazione accidentale o è prodotta fatalmente dall’ambiente oppure è imposta dall’azione del castigo. E siccome non inventa, trasmette soltanto i caratteri della specie, che non dipendono da esso, perché esso dipende da quelli. Per questa ragione tutti gli animali muoiono senza fare testamento. Soltanto l’uomo fa testamento, e lo fa sempre, anche se non lo scrive o non lo detta, perché non può passare molto tempo nella vita senza lasciare qualche eredità con le sue opere, buona o cattiva, grande o piccola che sia.
L’uomo riflette e, pertanto, inventa, combina, trasforma, cioè progredisce e trasmette agli altri le conquiste del suo progresso. La prima invenzione è stata il primo progresso, e il primo progresso, trasmettendosi agli altri, è stato la prima tradizione che cominciava. La tradizione è un effetto del progresso; ma poiché lo comunica, cioè lo conserva e lo propaga, essa stessa è il progresso sociale. Il progresso individuale non giunge a essere sociale se la tradizione non lo raccoglie nelle sue braccia. È una torcia che si spegne tristemente lanciando il primo bagliore, se la tradizione non la raccoglie e non la porta perché passi di generazione in generazione, rinnovando in nuovi ambienti il bagliore della sua fiamma.
La tradizione è il progresso ereditario, e il progresso, se non è ereditario, non è progresso sociale.Una generazione, se è erede delle precedenti che le trasmettono per tradizione l’eredità che hanno ricevuto, può raccoglierla e fare ciò che fanno i buoni eredi: aumentarla e perfezionarla per comunicarla migliorata al proprio successore. Può anche dissipare l’eredità oppure rifiutarla. In questo caso viene la miseria o una rovina, e se ha edificato qualcosa distruggendo il precedente non ha diritto a che la generazione seguente, diseredata del patrimonio distrutto, accetti il suo, ed è probabile che rimanga senza i due. Infatti la tradizione include il diritto degli antenati all’immortalità e il rispetto delle loro opere; comporta anche il diritto delle generazioni e dei secoli posteriori a che non venga distrutta l’eredità delle precedenti da parte di una generazione intermedia ammutinata. L’autonomia selvaggia di fare tabula rasa di tutto il precedente e di assoggettare le società a una serie di annientamenti e di creazioni è un genere di follia che consisterebbe nell’affermare il diritto dell’onda sul fiume e sul letto, mentre la tradizione è il diritto del fiume sull’onda che agita le sue acque.
L’anello vivente di una catena di secoli, se non è conforme a quelli che lo precedono e vuole che non lo siano quelli che lo seguono, può uscire dalla catena per esistere per suo conto; ma non ha il diritto di distruggerla né di privare quelli seguenti degli anelli precedenti.
Poiché tutte le autonomie sono uguali, quelle dei secoli precedenti e quelle dei seguenti valgono più di quelle di un determinato momento della storia, anche supponendo, il che non è mai successo, che un’oligarchia non usurpi il nome di tutti e non faccia passare il capriccio dei meno per la volontà dei più. Poi, oltre questa autonomia immaginaria, sta il dovere di subordinarsi alla tradizione anche per il potere delle maggioranze, che raramente sono contemporanee; ma, quando si tratta delle istituzioni che esprimono i grandi fatti di un popolo, sono sempre successive.
Vedete, signori, come la tradizione, disegnata in modo ridicolo da quanti non hanno assolutamente penetrato il suo concetto, non solo è elemento necessario del progresso, ma anche una legge sociale importantissima, quella che esprime la continuità storica di un popolo, benché non si siano soffermati a pensare su questo certi sociologi che, essendosi trattenuti troppo a mirare la natura animale, non hanno avuto tempo di studiare quella umana in cui la tradizione ha la sua radice.
E questa è la causa del fatto che ogni uomo, anche senza rendersene conto e senza volerlo, è tradizionalista, poiché comincia con l’essere già una tradizione accumulata. Si spogli, se può, di quanto ha ricevuto dai suoi predecessori, anche prescindendo dal suo essere, e vedrà che quello che resta non è lo stesso, ma una persona mutilata che reclama la tradizione come complemento della sua esistenza. Il rivoluzionario più audace che in nome di una teoria idealista, forgiata più dalla fantasia che dall’intelletto, si propone di abbattere l’edificio sociale e di ridurre in polvere persino le pietre delle sue fondamenta per elevarne un altro completamente nuovo, se prima di dare inizio all’abbattimento si ferma a chiedere a sé stesso chi è, se la passione non lo acceca udrà una voce che gli dice dai muri che minaccia e dal fondo della sua anima: «Sei una tradizione in compendio che si vuole suicidare; sei l’ultimo rampollo di una dinastia di antenati tanto antica come la famiglia umana; nessuna è più secolare della tua. Se uno soltanto fosse mancato in questa catena di migliaia di anni, non esisteresti; vuoi abbattere una stirpe di tradizioni e sei in parte opera di esse. Vuoi distruggere una tradizione in nome della sua autonomia e cominci con il negare le autonomie precedenti e con il disconoscere quelle seguenti; inaugurando la tua opera vuoi che continui una tradizione contro le tradizioni passate e contro le tradizioni venture, proclamando l’unica verità della tua. Guardando indietro, sei parricida; guardando avanti, assassino, e guardando te stesso un pazzo che crede di distruggere gli altri mentre uccide sé stesso».
Gli uomini grandi sono quelli che sanno conservare in una società intangibile l’eredità della tradizione, quelli che non solo la conservano, ma la correggono, o quelli che, non contenti di conservarla e di correggerla, la perfezionano e l’aumentano. E il più tradizionalista non è quello che conserva soltanto, ma quello che oltre a conservare corregge, quello che aggiunge e accresce, perché segue in modo migliore l’esempio dei fondatori non limitandosi a conservare il capitale, ma facendo quello che loro hanno fatto: produrre e prolungare con il progresso le proprie opere.
Per questo gli uomini più grandi della storia sono i più tradizionalisti; cioè quelli che lasciano dietro a sé più tradizione. Solo la gente che non fonda, non trasmette nulla di proprio, e molte volte, senza neppure conoscerle, rifiuta le eredità degli altri, poiché se riceve con frequenza inconsciamente quelle che a essa vengono date, presume di essere illuminata, ed è la peggiore categoria di gente che si conosca; disprezza, se glielo permettono, quelle che non riceve. Insomma, l’autonomia individuale è la solitudine dell’isolamento che rompe la trama sociale delle generazioni e interrompe bruscamente, se arriva a tanto la sua forza dissolvente, la continuità della vita di un popolo. La tradizione è la famiglia raggruppata attorno allo stesso focolare, dove si sostituiscono gli uomini e le fiamme, che durano più degli uomini.
Juan Vázquez de Mella y Fanjul