Alfredo Mantovano, Cristianità n. 139-140 (1986)
Dopo la legislazione relativa ai terroristi collaborazionisti si preparano misure a favore di chi semplicemente si dissocia dal «partito armato».
In margine a un disegno di legge
Dai «pentiti» ai «dissociati»
1. Negli ultimi tempi i problemi della giustizia hanno, più che nel passato, occupato una parte considerevole del dibattito politico nazionale: si può dire che non passa giorno senza che non si discuta, nelle sedi proprie o in tavole rotonde più o meno qualificate, di amnistia e di indulto, di referendum, di responsabilità dei magistrati, di nuovo ordinamento penitenziario, di carceri, di «pentiti» e di «dissociati»…
Sarebbe interessante individuare i motivi del notevole peso assunto da queste e da analoghe tematiche, e verificare come mai, pur non mancando gravi problemi di funzionalità nell’apparato legislativo e in quello esecutivo, tuttavia la crisi del potere giudiziario appare oggi la più rilevante per l’assetto istituzionale. Senza nascondere l’opportunità di affrontare il discorso in genere, mi limito a esaminare uno dei temi in discussione che forse, per la maggiore apparente urgenza di altri — imminenza delle scadenze dei referendum «per una giustizia giusta», maxi-processi di mafia e di camorra, entrata in vigore della nuova legge sul regime della detenzione —, non ha avuto il rilievo che in tempi normali avrebbe meritato, e che anzi rischia di essere preso in considerazione, more solito, quando sarà troppo tardi, e cioè quando, probabilmente, si dovranno subire gli effetti dell’approvazione del provvedimento normativo che lo riguarda.
Mi riferisco alla cosiddetta «dissociazione»: in questi mesi il Parlamento sta esaminando il disegno di legge che reca la dizione Misure a favore di coloro che si dissociano dal terrorismo, il cui testo è già stato approvato il 3 giugno 1986 dal Senato e attende ora il varo definitivo da parte della Camera dei Deputati.
2. Per comprendere il fenomeno della «dissociazione» è opportuno fare un passo indietro e richiamare il testo normativo sui «pentiti», che si situa senz’altro a monte, sotto un profilo di logica giuridica, rispetto al disegno di legge oggi in discussione.
Nel 1982, nel quadro della «legislazione di emergenza» volta a fronteggiare il fenomeno terroristico — che proprio all’inizio di quell’anno, con il sequestro del generale americano James Lee Dozier, aveva confermato la sua pericolosità —, al fine di stimolare la collaborazione degli esponenti del «partito armato» con le forze dell’ordine e sulla scia delle prime rivelazioni dei brigatisti rossi Patrizio Peci, Carlo Fioroni e Antonio Savasta, venne approvata quella che è conosciuta come «legge sui pentiti» (1). Essa, oltre a prevedere la non punibilità dell’appartenente a un’associazione sovversiva o a una banda armata che non avesse commesso reati di particolare gravità connessi a tale sua militanza e che, nel contempo, avesse fornito informazioni complete sul gruppo di appartenenza, stabiliva che, qualora il «pentito» che collaborava, offrendo elementi di prova decisivi per la cattura dei suoi complici, fosse stato riconosciuto responsabile anche di più delitti puniti con l’ergastolo, non avrebbe potuto ricevere una condanna a una pena cumulativa superiore ai sedici anni di reclusione; si fissavano, poi, condizioni notevolmente più ampie per ottenere la libertà provvisoria e la liberazione anticipata.
In tal modo, per fare due esempi fra i tanti, Antonio Savasta, reo confesso di diciassette omicidi, fu condannato, per l’appunto, a sedici anni di reclusione — con la possibilità di fruire della liberazione condizionale dopo aver scontato i primi otto anni —, mentre a Marco Barbone, assassino del redattore del Corriere della Sera Walter Tobagi, sono stati inflitti poco più di otto anni di reclusione: in carcere, però, egli ha trascorso pochi mesi, avendo beneficiato della libertà provvisoria.
Il tasto sul quale si è battuto per giustificare, anche a posteriori e sulla scorta dei risultati positivi conseguiti contro la lotta armata, la legge del 1982, è stato quello dell’opportunità di cedere, data l’eccezionalità della situazione, sul piano della pena intesa anche come retribuzione, per ottenere, in cambio, quelle informazioni e quella collaborazione rivelatesi idonee a stroncare interi «tronconi» di organizzazioni terroristiche.
Astenendomi da ogni considerazione di carattere morale sulla condotta che il legislatore ha inteso seguire, oltre che sull’improprietà della terminologia adoperata nel caso concreto — di un «pentimento» stimolato dalla prospettiva di una pena minima si ha infatti motivo di porre in dubbio la sincerità, e quindi la natura di pentimento —, mi limito a osservare che, se da un lato non si può disconoscere il successo ottenuto con la cattura, conseguente alle «rivelazioni» dei «pentiti», di centinaia di terroristi, dall’altro lo strumento adoperato per raggiungere questo risultato, oltre che tradursi in una sostanziale ammissione di incapacità dello Stato a riuscire nel medesimo intento adoperando i mezzi propri e istituzionali, ha innescato un fenomeno, quello del cosiddetto «pentitismo», la cui problematica è ben lungi dall’essere risolta in modo soddisfacente: spesso, infatti, le dichiarazioni dei «pentiti» hanno dimostrato, sulla distanza, scarsa attendibilità; e in taluni casi — tutt’altro che isolati — la prospettiva della drastica riduzione della pena e la carenza, da parte del reo, di informazioni decisive da fornire, hanno provocato l’invenzione di tali «informazioni», e quindi testimonianze false e l’incriminazione di innocenti.
3. Con gradualità, si è quindi fatto strada il dibattito sulla «dissociazione». Come definire, in senso tecnico, i «dissociati»? Sono coloro che a vario titolo hanno militato nelle file del terrorismo e che da un lato non hanno ritenuto di usufruire degli «sconti» di pena concessi ai «pentiti» in cambio di collaborazione, non avendo contribuito in alcun modo alla scoperta dei responsabili delle gesta terroristiche o alla ricostruzione di queste ultime, mentre dall’altro non rientrano nel novero degli «irriducibili», cioè di quanti persistono nel rifiuto dell’attuale assetto istituzionale, senza ammettere in alcun modo di avere sbagliato. Più sinteticamente, l’ex guardasigilli on. Mino Martinazzoli ha definito la «dissociazione» come il complesso dei «fenomeni di ripensamento critico rispetto a gesta delittuose consumate sotto il segno terribile della militanza terroristica» (2).
Una volta intrapresa, con la legge n. 304/1982, la via delle riduzioni delle sanzioni, si è ritenuto che, in qualche modo, il trattamento dei «dissociati» andasse differenziato rispetto a quello degli «irriducibili». Sono stati così presentati vari disegni di legge, poi ridotti a un testo unico dalla commissione giustizia del Senato, volti a recuperare il «dissociato» alla vita civile, sulla base del presupposto, per usare ancora parole dell’on. Mino Martinazzoli, che «la forza del diritto non si esprime in una inutile brutalità» (3).
4. Affronto, a questo punto, la lettura del provvedimento già approvato — come si è detto — dal Senato. L’articolo 1 stabilisce che «agli effetti della presente legge si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica» (4). Chi dunque si «dissocia» nei termini anzidetti entro i trenta giorni dall’entrata in vigore della legge in discussione può godere, a norma dell’articolo 2, di considerevoli riduzioni di pena, da un quarto alla metà a seconda del reato commesso; in caso di più condanne per questo tipo di reati, ciascuna delle quali ha già singolarmente fruito della prevista diminuzione, la pena complessiva da espiare, secondo l’articolo 7, non può superare il tetto massimo di ventidue anni e sei mesi di reclusione.
Dunque, anche il responsabile di un numero indeterminato di omicidi, consumati in tempi differenti, non potrà, se «dissociato», dimorare in carcere più del periodo massimo indicato. L’unico delitto escluso dal beneficio è quello di “strage”. Ancora: a norma dell’articolo 6, ai «dissociati» colpevoli di delitti punibili con la reclusione non superiore nel massimo a dieci anni — come per esempio la rapina, l’estorsione o il furto pluriaggravato — potrà essere concessa la libertà provvisoria.
È ovvio che le diminuenti in via di introduzione sono compatibili e possono concorrere con i benefici già esistenti: con la liberazione anticipata, con quella condizionale, con l’affidamento al servizio sociale, con la semilibertà… sì che, in concreto, è ben difficile che qualche «dissociato», pur se pluriomicida, arrivi mai a espiare l’intera pena cumulativa di ventidue anni e mezzo.
Tutto questo, come si è visto, «in cambio» di una semplice dichiarazione, perché in ciò, al di là dei più elevati discorsi, consiste in definitiva la «dissociazione». È quanto ha affermato lo stesso on. Martinazzoli: «si chiede al soggetto interessato l’ammissione completa delle proprie responsabilità, ossia una valutazione responsabile dei suoi comportamenti» (5). Tale dichiarazione, come ha sottolineato al Senato il relatore del provvedimento, il senatore socialdemocratico Luigi Franza, è solo una «franca ammissione delle proprie responsabilità», e non una «piena confessione delle proprie colpe» (6); la differenza potrebbe apparire inesistente, ma è invece reale: la «confessione» come sopra intesa implica senz’altro una maggiore specificità e articolazione nel racconto del reo, con il rischio del coinvolgimento di eventuali complici, il che è escluso dalla semplice «ammissione delle proprie responsabilità».
Il disegno di legge non precisa in alcun modo in che cosa consistano i «comportamenti […] incompatibili con il permanere del vincolo associativo», mentre è facilmente immaginabile, in generale, quale sincerità, in vista del «premio» posto in palio, potrà avere la dichiarazione del «ripudio della violenza come metodo di lotta politica». Ciò al di là della considerazione di possibili e reali crisi di coscienza; ma è questo il punto: la coscienza, e ancor più le intenzioni, sono elementi così soggettivi e personali, spesso scarsamente decifrabili per lo stesso individuo, che non si vede come sia possibile far derivare da essi effetti giuridicamente rilevanti.
5. Ancora una volta, rinunciando ad applicare la sanzione minacciata, lo Stato appare scarsamente garante della sicurezza della collettività: è il caso di ricordare che la mancata comminazione della pena in tesi fissata riduce la portata intimidatoria del precetto penale? E che ciò è ancora più grave quando i beni lesi sono la vita e ta libertà personale (7)?
Vi è di più: al di là dei propositi di pacificazione sociale enunciati dai fautori del disegno di legge, la ratio non dichiarata ma sottesa al medesimo è che il movente politico del crimine costituisce una sorta di attenuante. Così, chi ha ucciso il vicino perché gli dava fastidio è un assassino e merita l’ergastolo; chi, invece, ha ucciso una decina fra giornalisti, politici e magistrati per finalità eversive, se si «dissocia» paga di meno!
In tal modo la politica se non elude per lo meno attenua la responsabilità, in omaggio al più coerente machiavellismo: il fine politico giustifica i mezzi violenti, non solo per il principe, cioè per il potere istituzionale, ma anche per l’aspirante principe, cioè per chi vuole rovesciare il potere istituzionale allo scopo di sostituirsi a esso. Nel contempo non si può fare a meno di notare che, mentre in passato lo Stato ha sempre ufficialmente rifiutato di riconoscere al «partito armato» e ai suoi gruppi una qualificazione politica autonomamente rilevante — si pensi, per esempio, al fatto che, all’epoca del sequestro dell’on. Aldo Moro, vi fu opposizione anche alla sola ipotesi di trattare con le Brigate Rosse, pur belligeranti, per non riconoscere a esse lo status di un soggetto degno di considerazione —, l’approvazione del disegno di legge sulla «dissociazione» si porrebbe in antitesi con tale orientamento: la valorizzazione del movente politico del crimine — ché di valorizzazione si tratta, se ha la forza di costituire un’attenuante — si traduce logicamente nel conferire valore ai gruppi la cui azione era stimolata da tale movente.
Né vale obbiettare adducendo l’opportunità di attenuare la pena almeno verso chi, pur aderendo a una organizzazione terroristica, non ha preso parte direttamente a fatti di sangue; è ben noto, infatti, che l’efficacia delle operazioni delle Brigate Rosse e di organizzazioni affini si fondava anche su una rete articolata di collaboratori e di fiancheggiatori.
6. Per finire, avanzo un sospetto malizioso ma insopprimibile. Secondo uno studio sulla detenzione politica in Italia condotto dal Dipartimento di Statistica dell’università di Roma (8), si suppone che i reclusi che dovrebbero beneficiare del provvedimento in discussione siano circa settemila; si tratta di soggetti dotati di un minimo di infarinatura dottrinale e di indubbia dedizione, pur se deviata. Nel suo intervento al Senato, il sen. Mario Gozzini, della Sinistra Indipendente, dopo aver riconosciuto — bontà sua! — che «chi ha avuto contatti con questi detenuti non può non aver provato — inizialmente — una sorta di ripugnanza al pensiero di tante vite innocenti stroncate con indicibile crudeltà per perseguire un disegno pazzesco e inumano», a proposito della «ammissione di responsabilità» richiesta ai terroristi per poter essere reputati «dissociati» ha aggiunto che «ciò non vuol dire naturalmente che essi rinunzino ai loro ideali di mutamento radicale delle strutture sociali, ma è importante il rifiuto del metodo della lotta armata e dell’eversione violenta. La dissociazione, dunque, assume il rilievo di un fenomeno politico al quale bisogna dare ora una risposta politica» (9).
Posto che della legge, una volta approvata, beneficeranno soprattutto i terroristi provenienti dall’area della «sinistra» dal momento che quelli ritenuti di «destra» sono in buona parte imputati di strage e perciò esclusi da ogni diminuzione di pena, la «risposta politica» di cui parla il sen. Mario Gozzini consiste forse nel riciclaggio di qualche migliaio di militanti di sinistra, che può darsi avessero un poco esagerato nella scelta degli strumenti operativi, ma che possono essere recuperati nelle file di partiti sempre più in crisi di proselitismo e con i quali resta comune, pur se con metodi differenti, almeno ora in Italia, l’obiettivo di fondo, cioè il «mutamento radicale delle strutture sociali»?
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Legge 29 maggio 1982 n. 304, Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 149, 2-6-1982.
(2) Le dichiarazioni dell’on. Mino Martinazzoli relative al disegno di legge sulla «dissociazione», così come le altre, rese dai senatori intervenuti nel dibattito svoltosi a Palazzo Madama il 21 e 22 maggio 1986, sono ricavate dalla sintesi dei lavori pubblicata nella rubrica La Giustizia in Parlamento, a cura di Giovanni Garofali, dalla rivista Quaderni della Giustizia, anno VI, n. 59, giugno 1986, pp. 104 ss. Questa rivista è realizzata dal ministero di Grazia e Giustizia.
(3) Ibid.,p. 105.
(4) Anche il testo del disegno di legge è ibid., pp. 103-104.
(5) Ibid., p. 106.
(6) Ibid., p. 113.
(7) Sulle gravi conseguenze derivanti dalla rinuncia, anche parziale, all’esercizio dello jus puniendi da parte dello Stato, cfr. il mio A proposito di amnistia e di condono, in Cristianità, anno XIV, n. 133, maggio 1986.
(8) Citato nel dibattito al Senato dal senatore comunista Raimondo Ricci, in Quaderni della Giustizia, cit., p. 112.
(9) Ibid., p. 106.