Alfredo Mantovano, Cristianità n. 121 (1985)
A proposito di una ordinanza di illegittimità costituzionale
Giudici e obiezione di coscienza in tema di aborto
A Napoli, un giudice tutelare ha di recente rifiutato di autorizzare l’aborto di una minorenne, rinviando gli atti alla Corte Costituzionale e rivendicando il suo diritto a sollevare obiezione di coscienza. Un problema di non facile soluzione, che sottolinea, ancora una volta, la grande e grave difformità dal diritto naturale della legislazione positiva che pretende di rendere lecito l’aborto.
1. L’accadimento ha suscitato scalpore e certamente, in sé, è singolare: per la prima volta, in Italia, un magistrato ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale verso una legge dello Stato, perché quest’ultima non gli consente di esercitare il diritto di obiezione di coscienza nei confronti del dettato della legge stessa. L’episodio assume, però, toni meno stravaganti non appena si sa quale legge è stata impugnata e quali motivi hanno fondato la opposizione.
Riassumo i fatti: nel settembre del 1984 una minore incinta si presenta alla dottoressa Maria Lidia de Luca, giudice tutelare a Napoli, e domanda l’autorizzazione ad abortire, sulla base dell’articolo 12 della legge 194/1978. Tale norma stabilisce che, se il soggetto che chiede l’intervento abortivo è una minorenne che non abbia ricevuto il consenso di entrambi i genitori oppure di chi esercita su di lei la potestà, la stessa può rivolgersi al magistrato che esercita le funzioni di giudice tutelare; quest’ultimo, ascoltata la donna e le ragioni che adduce, e valutata la relazione e il «parere» inviatigli dal consultorio, dalla struttura socio-sanitaria oppure dal medico di fiducia della gestante, può autorizzare la interruzione della gravidanza con atto non reclamabile.
Nel caso specifico, il giudice adito – la dottoressa de Luca -, espletate le procedure previste e ritenuta l’autorizzazione che le veniva richiesta «parte integrale ed essenziale della procedura abortiva» (1), giunta al momento di decidere, ha notato come la legge 194 consenta l’esercizio del diritto alla obiezione di coscienza solo «al personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie» (2) e non invece al giudice tutelare, «che pure è chiamato dalla legge a svolgere un ’attività rilevante nella procedura abortiva»; e pertanto, poiché fermamente convinta «che con l’aborto viene soppressa volontariamente la vita di un essere umano», ha considerato che la mancata previsione di tale possibilità sia costituzionalmente illegittima e ha rinviato gli atti alla Corte Costituzionale per la relativa declaratoria.
L’ordinanza è stata pubblicata solo pochi giorni fa, e ha provocato subito uno scandalo: il manifesto, per citare un esempio fra i tanti, ritenendo la notizia la più importante del giorno, ha a essa dedicato un titolo su sei colonne in prima pagina (3); ha indicato il giudice de Luca come una «cattolica vicina all’Opus Dei» – etichetta che non si può immaginare più infamante! -, e ha collegato la iniziativa con il discorso sull’aborto pronunciato il giorno prima dal segretario della Democrazia Cristiana, dimenticando che la ordinanza reca la data del 24 settembre 1984. Anche la stampa moderata, sia pure con maggiore garbo, si è stracciate le vesti: il Giornale (4), per esempio, ne ha tratto spunto per stigmatizzare «il vizio di fondo della nostra magistratura novella», che consisterebbe nella «tendenza […] a piegare la legge nell’alveo delle proprie inclinazioni personali». Non una parola, però, sulla sostanza della questione sollevata.
2. Eppure l’episodio merita una valutazione più attenta e, soprattutto, più serena. Il problema sollevato non è di poco conto: la legge 194 ha introdotto in Italia la possibilità di abortire praticamente «a richiesta», a patto di rispettare talune procedure amministrative; ha tuttavia consentito a medici e a paramedici, previa apposita dichiarazione, di astenersi dal partecipare agli interventi abortivi per i quali sia richiesta la loro opera. Ora, in tesi, la previsione della facoltà di sollevare obiezione di coscienza nei confronti del disposto di una legge è singolare: infatti, una legge dello Stato può non essere condivisa da una parte dei cittadini e tuttavia, in genere, viene ugualmente imposta, né è previsto che alcuni possano non osservarla, anzi è spesso penalmente sanzionata proprio per esigere da chiunque il rispetto di quanto stabilisce.
Nel caso dell’aborto, però, ciò non è accaduto, e per un motivo evidentemente «politico»: si pensi alle veementi ostilità che l’obbligo di mettere in pratica le disposizioni della legge 194 avrebbe incontrato in buona parte dei medici. Ma il riconoscimento del diritto alla obiezione e la differente disciplina rispetto all’altro caso – quello del servizio militare, in cui il nostro sistema giuridico aveva ammesso la obiezione di coscienza, ma il medico obiettore non è tenuto a prestare servizio sostitutivo; la sua obiezione basta che sia semplicemente dichiarata, non deve essere, cioè, concessa, come quella al servizio militare e, a differenza di questa ultima, non va neppure motivata – conducono al convincimento che quello del medico obiettore, lungi dal costituire un gesto di sfida nei confronti dell’ordinamento, è, al contrario, atteggiamento realmente rispettoso dei fondamenti di quest’ultimo, in quanto mira a tutelare quel diritto alla vita, che è base imprescindibile per il riconoscimento di ogni altro diritto.
Ora, la facoltà di sollevare obiezione, riconosciuta al medico, è stata negata al giudice, il quale però, come si è visto, assume un ruolo determinante nella vicenda abortiva delle minorenni (5). Indubbiamente il motivo «politico» che è valso a concedere la obiezione di coscienza ai medici è invece mancato per fare adottare analoga misura a favore dei magistrati; e questi ultimi hanno confermato la esattezza dei calcoli del legislatore: delle numerose ordinanze di illegittimità costituzionale sollevate nei confronti della legge 194, finora solo quella della dottoressa de Luca ha affrontato il problema. Il fatto più grave è che, nella maggiore parte dei casi, il giudice tutelare si è limitato e si limita a raccogliere la volontà espressa dalla minorenne gestante, riempiendo un modulo di autorizzazione prestampato; la relazione del ministro di Grazia e Giustizia sull’applicazione della legge 194 ha accertato che il numero delle autorizzazioni concesse nel corso del 1983 – e il dato non si discosta da quello relativo agli anni precedenti – è stato pari al 97% delle richieste ricevute (6).
3. Il problema, però, non ha soltanto connotati «politici»; è, infatti, ben più profondo e si può porre in questi termini: può un giudice – cioè colui che, nell’attuale ordinamento italiano, ha il compito istituzionale di applicare la legge e di farla rispettare – sollevare obiezione di coscienza di fronte a norme che ritiene obiettivamente ingiuste? Non è questione risolvibile, da parte dei singoli magistrati – come più di uno ha proposto (7) – pilatescamente, chiedendo di passare ad altro incarico; o presentando domanda di trasferimento, oppure, in ultima analisi, dimettendosi: nel caso in questione, infatti, non ci si trova di fronte a opinioni soggettive, ma a convincimenti oggettivi, fondati su dati scientifici indiscutibili.
Certamente l’alternativa posta al giudice tutelare dagli articoli 12 e 13 della legge 194, e ben sottolineata nella ordinanza della dottoressa de Luca, non lascia scampo: si tratta di «un conflitto insanabile tra la propria coscienza e gli obblighi derivantigli dalle funzioni, che è chiamato a svolgere in base alla l. 194/78». Un conflitto, in definitiva, tra la coscienza di uomo, che impone di non ledere la vita innocente, e la coscienza professionale, che impone di applicare una norma quando ne ricorrono le condizioni.
È vero che il problema svela la intrinseca contraddizione insita nella legislazione sull’aborto; la legge 194/78, più di ogni altra, ha colpito al cuore quel «nucleo essenziale di precetti negativi che, tutelando valori umani universali, risulta storicamente acquisito da tutti i popoli civili, come minimo comune e fondamentale di protezione giuridica, assolutamente impreteribile per la pacifica convivenza degli uomini» (8). Sostenere che si tratta di una legge dello Stato e che il giudice deve applicarla in ogni caso equivale, da un lato, a conferire al diritto positivo un connotato di assoluta infallibilità che non gli è proprio; dall’altro, ad affermare, sulla base della stessa logica, che se un giorno la legge statale dichiarasse la liceità dell’omicidio dei bambini fino a una certa età oppure degli anziani oltre un’altra età – ipotesi, quest’ultima, tutt’altro che remota -, previa autorizzazione del giudice, questi non dovrebbe battere ciglio, limitandosi ad applicare quanto a lui prescritto.
4. La ordinanza di incostituzionalità del giudice tutelare di Napoli ha dunque il merito di avere posto il problema in termini chiari e ineludibili. Propendere in tesi per l’ammissibilità della obiezione di coscienza da parte del magistrato suscita non poche perplessità, per la inevitabile incertezza del diritto che l’uso continuo di tale facoltà provocherebbe (9); d’altra parte, quale soluzione, adottare quando l’ordinamento obbliga il giudice a farsi complice di un omicidio?
La iniziativa della dottoressa de Luca può, inoltre, servire a stimolare il dibattito sul tema in un ambiente che ha accettato senza opporre resistenza, quasi si trattasse di un fenomeno ineluttabile, l’«aborto di Stato» e, prima ancora, una serie di leggi – in materia di divorzio, di droga e di pornografia – tese ad attaccare il costume, la «prassi» del comportamento quotidiano, il «senso comune».
La speranza, benché debole, che tale stimolo venga raccolto, se non da tutti, almeno da una parte dei giudici, è alimentata dall’amara, ma costruttiva, constatazione formulata da Piero Pajardi, attuale primo presidente della Corte d’Appello di Milano, che, non molto tempo fa, così confessava: «[…] abbiamo purtroppo perduto, e ci domandiamo quando lo riacquisteremo, il senso del bene e del male, del bello e del brutto, del lecito e dell’illecito, e via dicendo. […] La perdita di certezze, lo sfumare delle sicurezze esaspera il compito del giudice, che già di per sé ha talvolta quasi del disumano» (10). Forse, aggiungeva lo stesso Piero Pajardi in un altro suo scritto, si è troppo facilmente dimenticata la «[…] esistenza di una legge naturale insita nella natura umana così come è fatta, non legata al capriccio di contingenti concezioni del potere o a interessi nazionali o internazionali» (11).
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Ordinanza emessa il 24 settembre 1984 dal giudice tutelare di Napoli nel procedimento promosso da Mangiapia Silvia, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, anno 126, n. 71-bis, parte prima, 23 marzo 1985, pp. 23 ss. Ogni brano seguente, senza indicazione di fonte, si riferisce a tale ordinanza.
(2) Legge 22 maggio 1978 n. 194, articolo 9.
(3) Negato l’aborto, in il manifesto, 17-4-1985.
(4) CARLO BUSCAGLINO STRAMBIO, Il giudice obiettore, in il Giornale, 18-4-1985.
(5) Ancora più grave è la responsabilità del magistrato secondo l’articolo 13 della stessa legge 194, quando cioè vi sia la domanda di aborto relativa a una interdetta; in tale ipotesi, ricevuta la predetta relazione, «il giudice tutelare, sentiti se lo ritiene opportuno gli interessati, decide entro cinque giorni dal ricevimento della relazione, con atto non soggetto a reclamo»: qui la responsabilità è, almeno dal punto di vista formale tutta del giudice.
(6) Ricavo il dato da Rubrica parlamentare (a cura di R. Moretti), in Il Foro italiano, anno CIX, n. 5, maggio 1984, parte V, p. 176.
(7) Cfr., ancora, C. BUSCAGLINO STRAMBIO, art. cit.
(8) SALVATORE LENER, Crimini di guerra e delitti contro l’umanità. Lineamenti di dottrina e spunti critici, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1946, p. 41.
(9) Propende decisamente per l’ammissibilità della obiezione di coscienza del giudice tutelare FRANCESCO MARIO AGNOLI, L’obiezione di coscienza, in Quaderni della Giustizia, anno III, maggio 1984, p. 25, nota 12. Cfr. anche IDEM, L’obiezione di coscienza sarà estesa anche ai magistrati?, in Avvenire, 9-5-1985.
(10) PIERO PAJARDI, E adesso, pover’uomo?, in il Giornale, 6-8-1983.
(11) IDEM, Legge naturale e diritti umani, in Legalità e giustizia, anno I, n. 1, 1983, p. 84.