Renato Tamburrini, Cristianità n. 121 (1985)
Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaka Book, Milano 1984, pp. 214, L. 18.000
Che la narrazione storica non possa mai essere completamente neutrale, è un dato di fatto pacificamente accettato dalla comunità degli studiosi, anche se non sempre noto, con tutte le sue implicazioni, al grande e anche al medio pubblico. Vi sono, però, criteri abbastanza verificabili per stabilire se uno storico sia veritiero: un uso corretto delle fonti è senz’altro uno di tali criteri, e il non meno importante. Certamente uno degli esempi più significativi di distorsione massiccia dei fatti è relativo ai primi tre secoli di storia del cristianesimo, in particolare al suo intrecciarsi con le vicende dell’impero romano; ma, se opere documentate e attendibili non mancano, le loro conclusioni tardano oppure non riescono a giungere al pubblico più vasto.
In questo contesto la edizione di studi fruibili anche dal lettore non specialista è un avvenimento felice, tanto più quando si tratti di lavori fondati su competenza e su metodologia sicure e ampiamente accreditate dalla statura scientifica dell’autore: è il caso di Marta Sordi, ordinario di storia antica presso la Università Cattolica, che ha dedicato all’argomento lavori importanti – come Il cristianesimo e Roma (Cappelli, Bologna 1965) -, oltre a vari articoli e a recensioni, e che ora pubblica I cristiani e l’impero romano.
In questo volume la storia dei rapporti tra cristianesimo e impero romano è affrontata in due parti: la prima, quantitativamente la maggiore (pp. 7-153), è dedicata all’esame delle relazioni tra i cristiani e il potere politico; nella seconda parte (pp. 155-213), l’autrice tratta di alcuni aspetti più propriamente sociali e culturali dei rapporti stessi.
Nella introduzione sono delineate molto opportunamente due generalizzazioni correnti: «sia quella ormai apparentemente superata, che faceva dei tre [primi] secoli [cristiani] una persecuzione continua, sia quella più recente, che tende a minimizzare la portata delle persecuzioni» (p. 9). La scienza agiografica ha provato il carattere leggendario di certi martiri, e la storiografia distingue bene tra le pochissime persecuzioni generali, e quelle locali, spesso provocate e condotte dalla folla, senza l’intervento dell’autorità. Ma, a livello di cultura non specialistica, i primi cristiani continuano ad apparire come sovversivi, perennemente ricercati dalle autorità. Questa immagine, storicamente falsa, è «anche falsificante, in quanto contribuisce ad impostare in modo scorretto […] il problema […] sempre attuale dei rapporti fra cristianesimo e stato. Essa è collegata […] con la connotazione negativa che, nelle ideologie rivoluzionarie del nostro tempo, si dà al Potere e […] con la convinzione, presente soprattutto nella cultura italiana del dopoguerra, sia per effetto del fastidio lasciato dalla retorica fascista su Roma imperiale, sia per colpa della diffusa ignoranza sulla storia romana, ridotta grossolanamente a storia dell’imperialismo, che del Potere, e del potere istituzionalizzato, l’impero romano fosse un’incarnazione particolarmente maligna» (pp. 9-10). Tutto il quadro storico risulta così ampiamente deformato e la vicenda delle persecuzioni viene vista come lo scontro inevitabile tra la riscossa delle classi subalterne propugnata dal cristianesimo e lo Stato romano.
Se questo e il quadro ideologico della comprensione distorta dei rapporti tra cristianesimo e impero, tutto lo sforzo dell’autrice è volto a dimostrarne la falsità, basandosi sulle fonti antiche e sui documenti autentici: il conflitto, che fu innegabilmente un aspetto importante del rapporto tra queste due realtà, ebbe motivazioni non politiche, ma religiose, etiche e sentimentali. La componente politica non fu del tutto assente, specie quando il montanismo diffuse fra i cristiani atteggiamenti di rifiuto dello Stato in quanto tale, ma non fu mai dominante. Se ne ha una prima e decisiva riprova dall’esame del processo di Gesù. L’autrice espone la problematica relativa all’argomento e scarta decisamente la ipotesi, da più parti avanzata, di una condanna «romana» di Gesù: tutta la struttura del processo, tutto ciò che sappiamo della procedura giuridica vigente in una provincia dell’impero, inducono alla conclusione che il taglio dato dalle narrazioni evangeliche – iniziativa del sinedrio cui si piega l’autorità romana – sia sostanzialmente veritiero. Anche nei primi anni di diffusione della nuova religione il potere politico è caratterizzato da atteggiamenti tolleranti, se non benevoli: al punto che, secondo la notizia riportata da Tertulliano nell’Apologetico, e da Marta Sordi ritenuta molto verosimile, l’imperatore Tiberio presentò al senato una proposta tesa a ottenere il riconoscimento di Cristo come un Dio; Tiberio ne avrebbe ricevuto un rifiuto e il culto reso a Cristo si configurò come una superstitio illicita (pp. 25-28).
Le successive vicende, a partire dalla persecuzione neroniana fino all’editto di Costantino, vengono descritte cercando di mettere in evidenza sia l’ampiezza delle vane persecuzioni, sia il meccanismo delle loro motivazioni e del loro scatenamento. È molto interessante constatare che già dall’epoca di Domiziano sono esattamente identificati i motivi religiosi della persecuzione: la colpa di cui i cristiani sono accusati è quella di empietà. Ma la convinzione diffusa che la empietà avesse conseguenze dannose per la salute dello Stato, non ha niente a che vedere con l’idea che i cristiani fossero combattuti perché sovversivi. Questo tipo di motivazione conosce invece un certo sviluppo a partire dal regno di Marco Aurelio – alla fine del secolo II -, in coincidenza con il propagarsi del montanismo, la cui identificazione come eresia, cioè come «tendenza» separata dalla «Grande Chiesa», non era sempre agevole per i pagani. Per fare fronte al dilagare di tale «tragico equivoco» si produce uno sforzo apologetico – Atenagora, Melitone, Apollinare, Milziade – volto a ribadire che «né la Grande Chiesa né la maggioranza dei Cristiani condividevano le pregiudiziali antistatali e antiromane della nuova profezia» (pp. 82-83). Nel frattempo, anche l’autorità imperiale prende sempre più nettamente coscienza del carattere gerarchico della Chiesa, e quindi comincia a trattare con i vertici ecclesiastici.
Alla metà del secolo III il breve regno del primo imperatore «cristiano», Filippo l’Arabo, è seguito dalla forte reazione pagana di Decio, figura per molti versi simile a Giuliano l’Apostata.
L’ultima grande persecuzione, in un clima di restaurazione arcaicizzante, è quella di Diocleziano, cui segue la svolta costantiniana con la totale pacificazione. E, a proposito della conversione di Costantino, Marta Sordi ne ribadisce il carattere spirituale, sgomberando «il terreno dal pregiudizio moderno della pura strumentalizzazione politica della religione» (p. 145).
Tutta la vicenda storico-politica è accompagnata da movimenti di idee e da fenomeni sociali enormi. I saggi della seconda parte ne mettono in luce alcuni. La concezione sacrale della storia romana trova compimento nell’avvento del Messia, abbastanza presto assimilato al puer virgiliano: sicché in sant’Ambrogio si trova la identificazione di «cristiano» e di «romano».
Così pure l’idea romana di universalità, in un mondo antico caratterizzato dalle antinomie «barbaro-greco» e «gentile-giudeo», si incontra agevolmente con l’affermazione di san Paolo che «in Cristo non v’è più giudeo né greco …».
Il capitolo conclusivo è dedicato al rapporto tra opinione pubblica e persecuzione, ed emerge chiarissimo il ruolo delle masse pagane, sobillate e istigate da minoranze pagane o giudaiche, nello scatenamento delle persecuzioni.
Il volume abbonda di notizie interessanti e la lettura della seconda parte illumina molti aspetti decisivi del rapporto cristianesimo-impero, sì che si deve auspicare per questa opera di Marta Sordi una larga diffusione, anche e soprattutto nell’ambiente cattolico di media cultura, che su questo argomento è troppo spesso tributario di luoghi comuni costruiti in fucine ideologiche molto lontane, ma con scopi estremamente prossimi di disinformazione e, quindi, di disorientamento del giudizio e, finalmente, dell’azione.
Renato Tamburrini