Enzo Peserico, Cristianità n. 126 (1985)
Dall’invadenza totalitaria della politica al riflusso nel privato, un unico filo conduttore e un solo obiettivo: la scristianizzazione delle giovani generazioni.
Un problema riaperto dal «caso Ramelli»
Capire o dimenticare il Sessantotto?
Per l’opinione pubblica era ormai un’abitudine: l’eco degli anni del Sessantotto e del terrorismo filtrava attraverso le pareti delle aule-bunker dove si svolgono i grandi processi ai terroristi per essere accolta con un atteggiamento distratto, quando non con disinteresse. Parole già masticate, cronache che spesso si riducono alla trascrizione del dispositivo della sentenza.
Così, quando alla fine di settembre del 1985 il tribunale di Milano ha spiccato alcuni mandati di cattura per l’omicidio di Sergio Ramelli, coinvolgendo professionisti della politica e della medicina (1), si sono improvvisamente riaccesi i riflettori sugli «anni del desiderio e del piombo». Ma oggi è difficile ricordare: sono passati dieci anni o dieci secoli? Infatti, un solco epocale sembra dividere il presente da accadimenti ancora oggetto di cronaca. Oggi il mondo giovanile si presenta refrattario all’impegno politico, indifferente e lontano dal desiderio febbrile di cambiamento che si respirava nella società alla fine degli anni Sessanta; la contestazione è stata liquidata, il «disimpegno» è diventato uno stile di vita.
La prima reazione suggerita dai maître a penser è stata quella di spegnere subito i riflettori, onde esorcizzare «i pericoli che proprio con questa riflessione tardiva su episodi tanto lontani si innescano in un mondo giovanile prudente e sereno» (2).
Accanto a chi si preoccupa che non venga turbato il sonno tranquillo delle nuove generazioni, vi sono altri infastiditi dal riemergere di fatti che possono incrinare la loro immagine politica. Così ci si aggrappa a bugie puerili: per l’on. Massimo Gorla, oggi deputato di Democrazia Proletaria e a quei tempi leader di Avanguardia Operaia, il delitto Ramelli fu un episodio isolato: «Rifiuto anche il solo pensiero che ci potesse essere qualcuno che programmava le aggressioni» (3). Le ammissioni degli arrestati lo smentiscono subito.
Maggiore attenzione meritano le dichiarazioni dell’on. Mario Capanna, segretario ed eurodeputato di Democrazia Proletaria, il quale chiede un provvedimento di amnistia per i reati commessi durante il Sessantotto, al fine di contribuire alla pacificazione democratica e chiudere il periodo dell’emergenza (4).
Mario Capanna così motiva la richiesta: «Quando mai nei grandi movimenti di massa non si viola la legge? Non si sono forse violate le leggi e commessi degli errori nella resistenza al nazismo, nella guerra di liberazione algerina e nella lotta dei vietcong?» (5).
Il messaggio è chiaro: l’ideologia rivoluzionaria è innocente, gli eccessi derivarono dalle tensioni politiche allora presenti nel paese; perciò, gli fa eco il consigliere regionale lombardo di Democrazia Proletaria Emilio Molinari, «dobbiamo togliere il processo Ramelli ai giudici per restituirlo al movimento e alla città tutta. Quell’omicidio fu un fatto politico, anche se sbagliato, e perciò non è punibile» (6).
Delle posizioni emerse di fronte alla riapertura del caso Ramelli con il suo strascico di polemiche, quella demoproletaria consente di mettere a fuoco il problema: la violenza del Sessantotto e poi quella del terrorismo sono, come vorrebbe Mario Capanna, errori politici, cioè incidenti di percorso, oppure costituiscono il raccolto velenoso di una semina ideologica?
Ricordare e capire ciò che accadde a Sergio Ramelli a dieci anni dalla sua morte è un’occasione preziosa offerta a chi voglia uscire definitivamente dalle prospettive partigiane e dalla semplice contrapposizione emotiva. Infatti l’infame aggressione di cui fu vittima il giovane milanese non sollecita solamente a esaminare la responsabilità della squadra che preparò l’agguato: vengono in causa anche i moltissimi altri che accolsero con soddisfazione la notizia, coniarono slogan – «dieci, cento, mille Ramelli, con la spranga tra i capelli» -, infierirono codardamente sui genitori distrutti dal dolore (7).
Una tale misura di odio collettivo non è spiegabile ricorrendo soltanto a congiunture politiche. Marco Barbone, terrorista pentito, ha confessato emblematicamente: «[…] è stato per me difficile ammettere di avere ucciso un uomo e non di avere esercitato una funzione dell’ideologia» (8). Anche distruggere la vita di Sergio Ramelli, o aggredire con brutali violenze tanti altri, hanno rappresentato la pratica degli schemi ideologici disegnati lungo gli anni del Sessantotto.
Le radici della rivolta
Osserviamo il corso della contestazione. Essa sorge come una rivoluzione culturale, che vede l’innestarsi dell’ideologia – intesa come sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità attraverso la politica – con un humus socio-politico pronto ad accoglierla, carico insieme di insoddisfazione per il presente e di attesa di un mondo nuovo (9).
L’atmosfera di idee e di sentimenti che, alla fine degli anni Sessanta, va progressivamente espandendosi nel mondo giovanile, si traduce da un lato in ribellioni comportamentali ispirate alle teorie di Herbert Marcuse e di Willelm Reich e all’hippismo di oltre Oceano, dall’altro in ribellioni più specificamente politiche, ispirate al denominatore comune marxista-leninista.
Queste due tendenze percorrono, talvolta intersecandosi e confondendosi, tutta la storia del Sessantotto, per ripresentarsi emblematicamente unite in quel «Movimento del ’77», che rappresenta il momento ultimo della contestazione giovanile. Ma l’unione ha vita breve: l’ala «desiderante», che si esprime, per esempio, negli «indiani metropolitani», svanisce nell’autodistruzione personale, nella droga e nel nichilismo; l’ala violenta, invece, espressa dall’area di Autonomia, sancisce il proprio fallimento andando a ingrossare le fila decimate dei gruppi terroristici (10).
La tendenza che si manifesta nella ribellione politica ha assunto in Italia un ruolo preponderante. Il momento è favorevole: il desiderio di costruire il mondo nuovo e perfetto, liberato dalla ingiustizia e dalle disuguaglianze, trova nella teoria rivoluzionaria di Marx e di Lenin sia il modello utopico del futuro che la «tecnica», cioè l’azione politica, per costruirlo infallibilmente. L’ideologia si arricchisce nel contempo di miti che, sapientemente propagandati, rafforzano la «fede» nella vittoria della Rivoluzione: la Resistenza, i vietcong, la guerriglia di Che Guevara e di Marighella, la Cina di Mao.
In questo clima culturale nasce e si moltiplica il «rivoluzionario di professione»: nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli di rivoluzionari (11). È un dinamismo artificiale, perché produce esso stesso le affermazioni inverificabili e gli slogan che muovono all’azione gli attivisti; così lo descrive Marco Barbone: «[…] noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l’organizzazione dell’esistenza» (12).
Il pensiero viene «socializzato», con il risultato che la politica diventa il mezzo infallibile per fare giustizia. Sabino Acquaviva ricorda le parole rivoltegli da uno studente: «Tu non potrai mai capire – diceva – la sensazione di dominare il mondo, di fare definitivamente giustizia nel mondo, una piccola e specifica ma definitiva giustizia, colpendo chi si è macchiato di tanti delitti» (13).
Identificando etica e politica, il «rivoluzionario di professione» ha l’obbligo morale di fare trionfare i postulati dell’ideologia con qualsiasi mezzo. La mitologia della Resistenza fornisce gli esempi dell’«antifascismo militante» e così, tra la teorizzazione dell’annientamento fisico dell’avversario, l’atto di violenza e, in seguito, l’azione terroristica, non vi è soluzione di continuità: l’ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale.
Qualcuno solleva problemi di coscienza, ma Lenin risponde per tutti: «Ma esiste una morale comunista? Esiste un’etica comunista? Certo, esiste, […] per noi la moralità dipende dagli interessi della lotta di classe proletaria» (14).
Altri fattori si possono certamente invocare per comprendere quanto accadde: la tragedia della guerra tra giovani e la logica della ritorsione, le parole dei sapienti maestri dell’ideologia e degli utili idioti del momento, l’inerzia colpevole e la connivenza dell’autorità politica (15). Ma, anche senza negare la loro importanza, tali fattori non danno ragione del vero e proprio mutamento antropologico, che si è realizzato in quanti hanno incarnato l’ideologia del Sessantotto.
L’eredità del Sessantotto
Chi vuole spegnere in fretta i riflettori dimentica che il Sessantotto non è soltanto ricordo di spranghe e di chiavi inglesi, ma che i suoi effetti si estendono sulle nuove generazioni.
L’esito più evidente è costituito dalla esaltazione del pragmatismo del riflusso e del disimpegno politico seguita agli anni del gramsciano «tutto è politica». Ma si tratta soltanto della superficie di una trasformazione più profonda: una generazione, scagliandosi contro le degenerazioni liberali e illuministiche della propria civiltà un tempo cristiana, ha insieme smarrito la memoria storica dei valori stessi di quella civiltà; in altre parole, combattendo le sclerotizzazioni di un patrimonio di verità, non ha coltivato la capacità di comprenderlo e, quindi, di riviverlo e di trasmetterlo. Ed ecco il risultato: mentre negli anni Settanta i modelli di comportamento rivoluzionari si sono sostituiti a ciò che rimaneva di quelli tradizionali – fino a ergersi con il divorzio e l’aborto a «leggi» dello Stato -, la nuova generazione «ritiene ciò che sussiste come ciò che non può non essere accettato» (16).
Sono quindi molti a rallegrarsi della giovanile allergia alla politica (17), ma il riflusso ha portato il corpo sociale a una tranquillità che è più simile al rigor mortis che alla pace sociale: «Il male si può rimuovere è vero, ma non basta, perché poi esplode da un’altra parte. Non è forse vero che siamo pieni di morte per eroina? Se i giovani non esprimono il proprio malessere nel conflitto sociale, trovano altri modi: la questione non è risolta» (18).
«Dimensione verticale» e «dimensione orizzontale» della riconciliazione
Dunque, dimenticare non significa risolvere i problemi, ma nasconderli. Non hanno dimenticato coloro che negli «anni del desiderio e del piombo» uccisero: alcuni di essi – come gli assassini di Sergio Ramelli – si rivelano ai giudici come «tagliati in due da quella morte» e confessano «liberandosi da un peso insostenibile» (19).
Da più parti viene invocata una riconciliazione sociale: ma serve allo scopo, come chiede Mario Capanna, una amnistia che dimentichi i morti salvando il progetto rivoluzionario? La ricostruzione di questi uomini, e di tutto il corpo sociale, non può cominciare senza il ripudio, anche pubblico, dell’ideologia che ha permesso di vedere negli «altri» soltanto nemici da odiare e da distruggere. Non pochi giovani terroristi hanno cominciato a farlo, primo gesto verso la consapevolezza che la riconciliazione orizzontale, dell’uomo con gli altri uomini, ha come presupposto la riconciliazione verticale, quella dell’uomo con Dio (20).
Chi invece insegnava la violenza o la blandiva – nei comizi, dalle cattedre o sui giornali – attende che si spengano i riflettori; per questi «maestri», le vittime degli anni delle spranghe hanno sofferto invano.
Enzo Peserico
Note:
(1) Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, fu aggredito, con inaudita brutalità, a colpi di spranga, il 13 marzo 1975, a Milano, nei pressi della sua abitazione; morì, a diciannove anni, dopo quarantasette giorni di agonia. Sembra che gli inquirenti abbiano ottenuto la confessione degli arrestati: la squadra che uccise Sergio Ramelli sarebbe stata composta da dieci militanti del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia, otto dei quali sono stati arrestati, mentre altri due sono morti, uno suicida e l’altro in un incidente stradale.
(2) ROBERTO GELMINI, Dal cassetto dei rimorsi, in Corriere della Sera, 1-10-1985.
(3) Corriere della Sera, 23-9-1985. Degne di nota anche le dichiarazioni dell’on. Aldo Aniasi, all’epoca sindaco socialista di Milano: «[…] ho sempre protestato con polizia e carabinieri perché nessuno ha mai fatto nulla. […] Io non sono mai stato debole nei confronti di chi era violento. Anzi, credo di avere operato sempre per la tutela dell’ordine e della democrazia in questa città» (intervista a la Repubblica, 24-9-1985). Che dire di un simile atteggiamento intellettuale? Un’ipotesi: l’onagrocrazia guidata in quegli anni a Milano dall’on. Aldo Aniasi lo ha forse convinto che tutti i milanesi siano asini selvaggi, privi di memoria e di capacità di giudizio.
(4) Cfr. Corriere della sera, 29-9-1985.
(5) il Giornale, 29-9-1985.
(6) Avvenire, 29-9-1985.
(7) Per una dettagliata ricostruzione dei fatti cfr. Il Sabato, anno VIII, n. 40, 5-10-1985.
(8) Io, Marco Barbone, intervista a cura di Roberto Fontolan e Massimo Romanò, in Avvenire, 2-2-1984.
(9) Questo fenomeno si presenta più volte nella storia, in forme diverse, e viene indicato dai diversi autori che lo hanno analizzato come neo-gnosticismo oppure come messianismo rivoluzionario. Per un primo approccio all’argomento segnalo: ERIC VOEGELIN, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., Rusconi, Milano 1976; EMANUELE SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1979; ROMEO PELLEGRINI PALMIERI, Dottrina e pratica del terrore nella ideologia della Rivoluzione, in Cristianità, anno X, n. 91, novembre 1982.
In una prospettiva dottrinale agnostica e relativistica, anche autori socialisti hanno affrontato lo stesso tema: cfr. LUCIANO PELLICANI, I rivoluzionari di professione. Teoria e prassi dello gnosticismo moderno, Vallecchi, 2ª ed., Milano 1976; e SABINO ACQUAVIVA, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano 1979.
(10) Cfr. GIOVANNI CANTONI, Il «riflusso, il disimpegno e la liquidazione della contestazione, in Cristianità, anno VII, n. 47, marzo 1979; e LUIGI AMICONE, Oh il 77, altro che il 68!, in Il Sabato, anno VI, n. 10, 5/11-3-1983.
(11) Cfr. su questo punto S. ACQUAVIVA, op. cit., pp. 31-58.
(12) Io, Marco Barbone, cit.
(13) S. ACQUAVIVA, op. cit., p. 55.
(14) VLADIMIR ILIC LENIN, I compiti delle associazioni giovanili, in IDEM, I giovani e il socialismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 81-82.
(15) La storia delle connivenze delle autorità politiche e dei servizi segreti con le violenze politiche e gli atti di «terrorismo stragista» è ancora tutta da scrivere. Un esempio clamoroso è costituito dall’oblio nel quale al ministero degli Interni si lasciò cadere, nel 1970, il famoso rapporto del prefetto di Milano Libero Mazza, nel quale si denunciava per la prima volta la potenzialità sovversiva dell’ultra-sinistra (cfr. il testo integrale in TULLIO BARBATO, Il terrorismo, in Italia. Cronaca e documentazione, Bibliografica, Milano 1980). A proposito di maestri dell’ideologia e di utili idioti, quando il rapporto Mazza venne divulgato da un quotidiano, in seguito a una fuga di notizie, si assistette a un quasi unanime linciaggio morale del prefetto (cfr. VITTORIO FELTRI, L’ex, prefetto Mazza si confessa, in Corriere della Sera, 3-10-1985).
(16) E. SAMEK LODOVICI, op. cit., p. 243. Sul mutamento di costumi e di interessi della nuova generazione rispetto alla fascia giovanile degli anni Settanta cfr. le accurate interviste contenute in Giovani oggi. Indagine Iard sulla condizione giovanile, il Mulino, Bologna 1984, pp. 81-104.
(17) In prima fila la stampa moderata. Indro Montanelli (intervista al Corriere della Sera, 29-9-1985), dopo avere affermato che «di quegli anni non c’è proprio nulla da salvare», toglie al Sessantotto anche il «merito», di «conquiste civili» come il divorzio, profetizzando che a tempo breve, e senza sessantottini, «conquisteremo» anche la eutanasia.
(18) Io, Marco Barbone, cit.
(19) Il Sabato, anno VIII, n. 41, 12-10-1985.
(20) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 2-12-1984, n. 7.