GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 178 (1990)
Dopo la seconda guerra mondiale, grazie agli accordi raggiunti fra gli Alleati — Stati Uniti d’America e Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord — e l’Unione Sovietica — prima nel corso della Conferenza di Teheran, che vede riuniti nella capitale iraniana Franklin Delano Roosevelt, Winston L. S. Churchill e Josif Visarionovic Stalin dal 28 novembre al 1° dicembre 1943, poi in quella di Yalta, sul Mar Nero, con gli stessi protagonisti, dal 4 all’11 febbraio 1945 —, l’Europa Orientale cade sotto “mandato” sovietico. Così, regimi comunisti vengono instaurati nel 1945 in Jugoslavia, nel 1946 in Albania e in Bulgaria, nel 1947 in Polonia e in Romania, nel 1948 in Cecoslovacchia e nel 1949 nella Germania Orientale e in Ungheria, mentre Lettonia, Estonia e Lituania erano state direttamente annesse dall’Unione Sovietica nel 1940, dopo la firma del patto Molotov-von Ribbentrop di non aggressione fra l’Unione Sovietica stessa e il Reich nazionalsocialista.
L’attuazione dei diversi “mandati” si svolge attraverso l’uso combinato, a tenaglia, di due strumenti, cioè partiti comunisti vistosamente minoritari e l’Armata Rossa, la cui presenza ne moltiplica l’impatto; e alla sua ombra tali partiti promuovono la costituzione di Fronti Popolari “antifascisti”, quindi — con golpe denominati “rivoluzioni” — instaurano regimi socialcomunisti, dopo essersi assicurati il controllo dei gangli vitali dello Stato che, nell’ottica del puro potere, sono i ministeri degli Interni e della Difesa.
Le straordinarie difficoltà in cui versa ufficialmente e notoriamente l’impero socialcomunista ai nostri giorni sono all’origine di un processo di arroccamento attorno al paese guida dell’impero stesso, l’Unione Sovietica (1). “È cominciata — afferma Pierre Faillant de Villemarest — la marcia a ritroso rispetto ai colpi di Stato verificatisi dal 1945 al 1949, nel corso dei quali i comunisti minoritari si sono impadroniti per tappe del potere”, e si tratta di “una transizione controllata dagli specialisti dei servizi segreti […] [e intesa] a realizzare il salvataggio, attraverso una farsa socialcomunista, di un partito comunista in rotta” (2). Cioè, di questa manovra sono protagonisti partiti comunisti di nuovo vistosamente minoritari, che vanno promuovendo Fronti di Salute o di Salvezza Nazionale “anticomunisti”, all’interno dei quali tentano di conservare le posizioni chiave del potere puro, i citati ministeri degli Interni e della Difesa; e, questa volta, tali partiti non sono più affiancati dalla visibile, intimidatoria presenza dell’Armata Rossa, ma utilizzano molto meno visibili “organismi amministrativi”, cioè strutture di controllo della burocrazia gestite dai servizi segreti.
Se la “tecnologia del potere” sta passando dall’uso prioritario e determinante delle forze armate a quello dei “servizi” come moltiplicatori del potere stesso, non è certo inutile conoscere, su quanto accade oltre la Cortina di Ferro, non solo l’opinione delle più diverse categorie di persone, dai testimoni ai dissidenti, dai sovietologi ai teologi, ma anche degli esperti della guerra soft, meglio se non ignari dei termini di quella hard. Un esperto di questo genere è certamente il conte Alexandre de Marenches, che dal 1970 al 1981 ha diretto lo SDECE, il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage, cioè i servizi segreti della Repubblica Francese (3), e che è anche autore di un pregevole atlante geopolitico (4): a lui, nella prima decade di gennaio del 1990, ha rivolto una serie di domande Pierre Darcourt, di Le Figaro (5).
Interrogato d’esordio sugli avvenimenti rumeni e sulla loro prevedibilità, “l’uomo del silenzio” — come felicemente si definisce lo stesso Alexandre de Marenches (6) — osserva che “il trauma che ha scosso la Romania era ineluttabile. Dopo il lancio di Honecker nella Repubblica Democratica Tedesca, Nicolae Ceaucescu restava il solo vestigio staliniano del continente europeo. Costituiva l’ultimo ostacolo al progetto globale di Mosca. Non vi era più posto per lui nella “casa comune europea”. Il dittatore rumeno, in piena sbandata ultranazionalista, radicalmente opposto alla perestrojka, si richiudeva come un’ostrica e minacciava l’Ungheria. Inoltre, delitto imperdonabile, nel novembre scorso aveva implicitamente formulate rivendicazioni territoriali sulla Bessarabia” — abbandonata all’Unione Sovietica con il Trattato di Parigi del 1947 —, “che rimettevano in causa le sacre frontiere della patria sovietica.
“Il trauma avrebbe potuto essere più brutale e più sanguinoso se vi avesse preso parte l’Armata Rossa. Gorbaciov ha guidato l’operazione con sangue freddo e savoir faire notevoli. La Romania “liberata” ritorna nel campo socialista. E i suoi nuovi dirigenti si sono affrettati a rinnovare la loro fedeltà alle alleanze con l’URSS e con i paesi del patto di Varsavia. Infatti, la vera prova di forza al centro della rivolta del popolo rumeno si è svolta fra i comunisti staliniani e quelli “gorbacioviani””.
Circa la riunificazione della Germania, secondo Alexandre de Marenches “il piano principale di Gorbaciov consiste nell’opporsi in apparenza a […] [essa]. L’accetterà a condizione di ottenere la sua neutralizzazione, cioè il ritiro di tutte le armi e munizioni nucleari americane a occidente, il che costituirebbe un preludio al reimbarco della VIIa armata americana. E, a quel punto, sarà riuscito a ottenere con armi politiche quanto la pressione militare non aveva potuto ottenere in quarant’anni. E questo era il fine strategico costante dell’URSS, cioè separare l’Europa dagli Stati Uniti. Se a Gorby riesce questo colpo straordinario è perché noi avremo mancato sia di chiaroveggenza che di determinazione.
“L’equazione si imposta semplicemente: il ritiro delle forze nucleari e convenzionali sovietiche, di stanza nei paesi dell’Est, è un arretramento di seicento chilometri; il ripiegamento americano sarebbe di seimila chilometri. Per avanzare di nuovo, l’Armata Rossa dovrebbe soltanto superare la Vistola, l’esercito americano dovrebbe riattraversare l’Atlantico”.
Quanto agli avvenimenti che si stanno svolgendo nei paesi del blocco orientale, in essi, “anzitutto, vi è un elemento costante. I paesi dello schieramento sovietico, come dicono i militari, o dell’Europa Orientale, come dicono i civili, costituiscono una massa di alcune centinaia di milioni di uomini, nazioni annoverate fra le più antiche civiltà europee. Svendute a Yalta da un Roosevelt più che stanco, ingenuo come la maggior parte dei suoi compatrioti e completamente raggirato da uno Stalin in piena forma e furbo come un mercante di bestiame, questi paesi hanno un punto in comune: il timore e l’odio storico del russo e, adesso, quello del comunismo.
“Se l’esperienza in corso prosegue senza inganni, se questi paesi riconquistano la loro libertà e la loro identità nazionale, avremo finalmente vinto la seconda guerra mondiale”. Inoltre, importa fare “una notazione”: se è vero che “il Muro di Berlino non è “caduto” in nome dell’unità nazionale dei due Stati, ma semplicemente in nome delle libertà elementari costituite dal diritto a riunirsi, a viaggiare… […] questa breccia è bastata per proiettare immediatamente il problema tedesco al centro del dibattito europeo, con le sue speranze, con i suoi timori di uno sbandamento oppure di un vacillare delle alleanze.
“Per quanto riguarda i paesi dell’Est, i sovietici sono alla decolonizzazione che noi abbiamo conosciuto. Cade la prima Cortina di Ferro scesa sui territori “sotto mandato”; la seconda, ormai la sola, segna le vere frontiere dell’impero sovietico, da Kaliningrad a Vladivostok”.
A questo punto Pierre Darcourt invita il suo interlocutore a fare una sintesi: “Leggiamo un po’ dappertutto che stiamo vivendo la fine della guerra fredda e lo stadio finale del comunismo, cioè la vittoria del nostro modello di gestione delle società moderne e di prosperità che ha saputo produrre”; e l’ex capo dei servizi segreti francesi risponde: “Direi, per riprendere un’espressione famosa, che abbiamo vinto una battaglia. E che l’abbiamo vinta anche e soprattutto grazie al nostro sistema di sicurezza collettiva fondato sull’alleanza con gli Stati Uniti, la presenza di un forte contingente americano in Europa e la messa in opera di una dissuasione nucleare potente”. Quindi attribuisce “il fallimento del comunismo” a due cause profonde: la prima è costituita dalla pretesa di determinare ideologicamente la vita economica attraverso la politica e “il fiasco di questa mossa non ha bisogno di commenti”; la seconda sta nella natura di “religione secolarizzata” propria del comunismo stesso, che perciò ha “commesso l’imprudenza mortale di promettere la felicità quaggiù”, e “dopo settant’anni di pratica e un mezzo secolo di regno su una gran parte del mondo, non ha mai consegnato il prodotto, neppure dei campioni”, sì che “le nuove generazioni rifiutano di aspettare l’”avvenire radioso” annunciato dal 1917. […] Altra fragilità del sistema: l’avvento di tecniche di comunicazione in tempo reale, che non conoscono frontiere […]: in Cina, nella Repubblica Democratica Tedesca, in Romania, in Cecoslovacchia, il ruolo dei media è stato notevole. Il trauma delle immagini e dei commenti dei giornalisti nel cuore dell’azione hanno colpito l’opinione pubblica internazionale. E anche quanti si agitano ne sono coscienti: gli studenti cinesi, davanti alle telecamere straniere, tendono striscioni in inglese”.
Circa le vere ragioni che hanno spinto i dirigenti sovietici a cambiare radicalmente direzione, l’aristocratico francese osserva: “Il presidente Reagan era un uomo semplice e testardo. Non cedendo sul programma tecnologico principale SDI [Iniziativa di Difesa Strategica], ha costretto i sovietici a valutare il prezzo della corsa alle stelle. Gorbaciov ha interrogato i suoi esperti militari e finanziari: quanto costa conservare la parità oppure superare gli americani? Risposta: almeno 60 miliardi di dollari per non perdere il contatto. E 100 miliardi per restare aggiornati. Di fronte all’enormità delle cifre, Gorbaciov ha avuto la brusca rivelazione che non aveva la capacità di seguire i “bilanci dell’Occidente” senza correre il rischio fatale di passare dalla povertà alla miseria. L’URSS è una colossale potenza militare, anche spaziale, costruita su un immenso paese sottosviluppato”.
“Da questo — prosegue Alexandre de Marenches— i successivi colpi di scena: le prime grandi riduzioni unilaterali dell’Armata Rossa, l’accelerazione del processo di disarmo, ventimila carri armati a demolire, smilitarizzazione di centomila ufficiali. Si tratta di un’azione riassunta, un anno fa, da G. Arbatov” — che dirige l’Istituto degli Affari Americani e che è consigliere di Mikhail Gorbaciov — “con una frase fulminante: “L’URSS vi sta facendo la cosa peggiore. Vi sta privando del nemico””.
Certo, la situazione interna all’URSS ha influenzato le decisioni di Mikhail Gorbaciov: “Indubbiamente, la “decolonizzazione” avviene sotto la pressione interna di una crisi economica e sociale di un’ampiezza terribile. I fatti sono evidenti: la carestia alimentare, le tessere di razionamento, la penuria di carbone aggravata dalla mancanza di strutture di distribuzione, il carattere arcaico dei trasporti — i treni viaggiano a 50 chilometri all’ora —, le poche installazioni portuali. Una rete stradale in cattivo stato, che conta solo 100.000 chilometri di strade percorribili con ogni tempo, mentre il Belgio — con un’estensione 600 volte minore — dispone di 130.000 chilometri in perfetto stato. Ecco un dato ufficiale: il 40% dei raccolti sono andati perduti, in mancanza di mezzi di immagazzinamento. Cosciente di questa situazione, Gorbaciov gioca rapidamente e forte. Indubbiamente il capitalismo ha vinto la battaglia economica degli ultimi quarant’anni, ma il comunismo ci sta dando una straordinaria prova di vitalità politica. Gorby superstar, con un colpo di scena dopo l’altro, ha mutato il tono e la forma della politica sovietica. Ma senza sovvertimento di fondo.
“Non si tratta di indebolire il sistema, i cui fondamenti restano il monopolio del potere e il ruolo dirigente del partito, ma di rigenerare e di rafforzare il sistema migliorando la sua efficacia. “Cambiare le mentalità per modernizzare l’economia”, ma senza mai rinunciare all’essenziale: l’affermazione della potenza della Russia”.
In questa prospettiva, il despota del Cremlino ha due possibilità per realizzare la sua “ristrutturazione” della Rivoluzione: “Vi sono due scenari, uno ottimistico e uno pessimistico.
“Vediamo quello ottimistico: Gorbaciov ha capito; di fronte a un’economia in rovina, si sforza di ottenere dal partito la sua autotrasformazione, emarginando i conservatori che resistono a palmo a palmo. Entro un certo periodo, vorrebbe instaurare una sorta di democrazia autoritaria basata sul popolo, l’esercito, la Chiesa e il pluralismo parlamentare.
“È però necessaria una precisazione: Gorbaciov non è un deviazionista; si pone costantemente nella linea di Lenin. Nella grande e pericolosa partita in cui si è impegnato, si appoggia sulle élite del partito, dell’esercito e del paese: gli ingegneri, i diplomatici, gli scienziati, gli internazionalisti, che si oppongono alla vecchia corrente del comunismo nazionale. Vi sono segni che non ingannano. Nella Repubblica Democratica Tedesca, dietro il nuovo primo ministro, guida il gioco Markus Wolf, “affossatore” di Honecker e di Krenz. Figlio di un noto scrittore comunista, rifugiato politico nell’URSS al momento delle persecuzioni naziste degli anni Trenta, è stato allevato nell’Unione Sovietica, alla scuola d’ingegneria. Ufficiale del GRU [il servizio di spionaggio militare sovietico] nel 1944, poliglotta, segue il processo di Norimberga come giornalista, con il nome di Michel Storm; poi vengono la trafila nei servizi segreti, operazioni di guerra psicologica agli ordini del colonnello Tulpanov, la STASI, la HVA, [i servizi di] spionaggio e [di] sicurezza dello Stato. Suo fratello Connier, ufficiale combattente nell’Armata Rossa, poi presidente dell’Accademia delle Arti nella Repubblica Democratica Tedesca, è morto nel 1984. Questi comunisti tedeschi antinazisti, internazionalisti convinti, costituiti in un nucleo duro, hanno pesantemente sofferto la politica antisemita e nazionalcomunista dello stalinismo.
“[…] Vi è un altro esempio, la Romania. I due leader dell’insurrezione contro Ceaucescu sono due comunisti aperti all’estero.
“Petre Roman, ingegnere, direttore dell’Istituto Politecnico, è figlio di un colonnello delle Brigate Internazionali della guerra di Spagna e membro fondatore del Partito Comunista Rumeno nel 1946. Ha proseguito la sua formazione a Tolosa per circa cinque anni.
“Iliescu, presidente del Fronte di Salvezza Nazionale, ex segretario generale del comitato centrale del Partito Comunista, ha studiato all’Istituto Molotov di Mosca negli stessi anni di Gorbaciov.
“Non ci si deve abbandonare all’euforia. In questa corsa al pacifismo vi è un pericolo: il tentativo di convincere l’Occidente, possibilmente disarmato e diviso, a lasciarsi sfruttare economicamente per evitare un naufragio. La perestrojka non è un viale liscio e rettilineo. È una strada caotica dalle curve strette, difficili da affrontare. Perciò ci sembra urgente attendere manifestazioni visibili e autentiche di un cambiamento non soltanto di facciata ma in profondità. Gorbaciov non ha una via d’uscita diversa dal successo. In primo luogo, deve riempire i magazzini, soprattutto durante l’inverno che si annuncia temibile. In un secondo tempo, deve presentarsi come partner credibile dei paesi economicamente avanzati. Deve disporre di un rublo convertibile che si appoggerà sulle riserve auree dell’URSS, primo produttore mondiale del metallo prezioso. Se Gorbaciov fallisce non vi sono alternative. Se non, purtroppo, lo scenario pessimistico”.
Dopo la descrizione dello scenario “ottimistico”, Alexandre de Marenches passa a dipingere quello “pessimistico”: “Si tratta del ritorno, difficilmente immaginabile, al comunismo nazionale. Le fabbriche belliche sono sempre capaci di produrre quantità enormi di materiali e di armi sempre più perfette. Il sostegno militare a Cuba, ad Hanoi, a Damasco, a Tripoli e all’Etiopia continua. Decine d’aerei pesanti atterrano ogni giorno a Kabul. Migliaia di consiglieri sovietici e tedesco-orientali operano in Iran. Lo “smagrimento” dell’Armata Rossa non diminuirà in nulla la sua efficacia. Il KGB [la polizia politica] e il GRU sono intatti.
“Temo che Gorbaciov, seguendo sul punto le teorie del mio maestro Sun Tzu, non si accontenti di proseguire la sua attuale operazione di seduzione consistente nel “fare la guerra senza doverla fare”. Questa operazione di seduzione più spinta, pura e semplice manipolazione delle opinioni pubbliche occidentali, consisterebbe nel presentare l’URSS come una democrazia come viene concepita in Occidente. Si tratta di un esempio flagrante di quella che viene chiamata disinformazione strategica”.
Venendo a conclusione della sua lunga intervista, il giornalista di Le Figaro chiede come l’Occidente possa evitare la trappola che ha di fronte; e la risposta dell’intervistato suona così: “Bisogna parlare una sola lingua, non presentandosi al Cremlino in ordine sparso, con il libretto degli assegni in mano. Una grande politica impone un solo rappresentante che si presenti a nome dell’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone, e con un solo libretto di assegni.
“Bisogna riorganizzare la difesa dell’Europa, mantenere la coesione delle alleanze. Infatti, se si mette male, perché 245 milioni di americani dovrebbero ostinarsi a venire a difendere 323 milioni di europei contro 285 milioni di sovietici? L’esplosione delle alleanze provocherebbe nell’Europa Centrale un immenso vuoto strategico. Allora farebbero nuovamente la loro comparsa i problemi di nazionalità e di frontiere che hanno continuato ad assillare il continente da due secoli. Si tratterebbe di una situazione che porterebbe senza dubbi di sorta alla balcanizzazione delle politiche di sicurezza dei diversi Stati europei. La CEE non vi sopravviverebbe.
“Per non cadere nella trappola di quella che chiamerei la “super NEP”, bisogna prendere misure di sicurezza: esser certi, prima di portare il nostro aiuto, che nei paesi dell’Est e all’interno dell’impero 1. il ministero della Difesa e i servizi segreti non siano più nelle mani del partito; 2. le misure di democratizzazione siano diventate irreversibili.
“Gorbaciov ha l’iniziativa e il dinamismo politici. Gli occidentali hanno il potere economico. Se presentano un fronte unito, l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone hanno anch’essi i mezzi per fare la storia. La transizione dell’Europa Orientale alla democrazia e verso la prosperità sarà lunga e difficile. Ma che meravigliosa sfida per l’Occidente!”.
Ho riportato ampiamente le proposizioni di Alexandre de Marenches perché mi paiono costituire, nel loro insieme, un documento a futura memoria: infatti, oltre le “opinioni” — anche quando sono autorevoli — e le “profezie”, lo specialista dei servizi segreti presenta fatti e previsioni adeguatamente suffragate dai fatti stessi. Le osservazioni critiche sono facilmente prevedibili: la prospettiva è settoriale, le categorie interpretative sono elementari, e così via; e si tratta di osservazioni talora parzialmente condivisibili, ma che non intaccano la portata del documento, a suo modo aperto alla drammaticità della storia attraverso l’ipotesi di scenari alternativi. Infatti, con buona pace di Francis Fukuyama, collaboratore del segretario di Stato americano James Baker e “portavoce” di potenti lobbies “mondialiste” o “internazionaliste”, la storia non è finita (7); e il problema, di fronte ai fatti, non sta nel condividerli o meno, e neppure nel fare gli “struzzi”, ma nel tenerne conto e nel prendere posizione rispetto a essi, con essi mettendo a confronto le proprie categorie interpretative e affrontandoli con l’energia che sanno alimentare in noi i nostri ideali.
Giovanni Cantoni
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(1) Cfr. il mio L’impero socialcomunista fra crisi e “ristrutturazione”, in Cristianità, anno XVIII, n. 177, gennaio 1990.
(2) Pierre Faillant de Villemarest, Quand l’histoire fait marche arrière, in Monde et Vie, 18° anno, nuova serie, n. 491, 11/31-1-1990.
(3) Cfr. Christine Ockrent e Alexandre de Marenches, I segreti dei potenti, con un’appendice a cura di Sandra Bonsanti e nove cartine, trad. it., Milano 1987; e la recensione di Oscar Sanguinetti, in Cristianità, anno XVI, n. 156-157, aprile-maggio 1988.
(4) Cfr. A. de Marenches, Atlas géopolitique, Stock, Parigi 1988.
(5) Cfr. Idem, Gorbachev et les “autruches”, intervista a cura di Pierre Darcourt, in Le Figaro, 10-1-1990. Tutte le citazioni senza indicazione di fonte sono tratte da questa intervista.
(6) Ch. Ockrent e A. de Marenches, op. cit., p. 262.
(7) Cfr. Francis Fukuyama, The End of History?[La fine della storia?], in The National Interest, n. 16, estate 1989, pp. 3-18; e la polemica che ne è seguita sullo stesso numero della rivista e sul numero seguente. Circa l’autore, cfr. P. Faillant de Villemarest, Éditorial, in la lettre d’information, anno XIX, n. 12, 19-10-1989; e, a proposito della tesi, Luciano Pellicani, Fine della Storia?, in MondOperaio, anno 42, n. 11, novembre 1989, pp. 2-3.