di Marco Respinti
La strada per la Corea è lunga. Una delle rotte aeree possibili impone scalo in Turchia. L’ultima cosa che un viaggiatore si aspetta scendendo al Nuovo Aeroporto di Istanbul all’inizio di febbraio è quel gigantesco albero di Natale che torreggia nella hallin cui confluiscono, passaggio obbligato, i passeggeri appena lasciati gli aerei. E tutti gli altri addobbi, luci, palle colorate, agrifogli. Enigmatico. Il perché me lo spiegano solo migliaia di chilometri dopo, una volta giunto a Seoul, degli italiani che hanno abitato a lungo in Corea del Sud, mentre, in coda per lucrare un espresso fatto come si deve al “Caffè Bene” nel megalattico centro congressi Kintax, vedo altri alberelli di Natale tutt’attorno. In questi Paesi il Natale è associato all’inverno e quindi gli addobbi restano in pista finché la stagione non cambia, annunciata dal tempo che finalmente si mette al bello stabile. Mentre mi spiegano l’arcano, il cielo decide di illustrare la scena con i colori adatti, e comincia a nevicare.
Mi coglie un senso di paradosso. Mentre in Occidente il Natale è stato praticamente dimenticato da una cultura che si è lasciata alle spalle il cristianesimo, in queste terre lontane, dove il cristianesimo non è mai stato tutt’uno con l’identità nazionale, i segni di uno degli eventi centrali del cristianesimo traboccano gli spazi e debordano il tempo. Qualcuno mi fa notare che in realtà sono facce della stessa medaglia, due modi diversi di svuotare il Natale di significato: l’“alberonatalizzazione” postmoderna e commerciale della nascita di Cristo da un lato, gli “auguri di stagione” dall’altro. Vero. Fino a un certo punto, però. Il punto di partenza di questa considerazione è l’irriducibilità del valore dell’albero di Natale a quello del Presepe, santo e divino il secondo, secolare il primo. Sbagliato. Tanto il presepe quanto l’albero sono simboli manifestamente cristiani. Il primo presepe fu rappresentato, dal vivo, da san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) nel 1224 a Greccio, ma l’albero di Natale è ancora più antico, del secolo VIII, opera del monaco benedettino Wynfrith(680 ca.-754), nato del regno del Wessex.
Protagonista delle favolose missioni anglosassoni presso i popoli germanici in Frisia, Assia, Turingia, Baviera e Alemannia, nel 722 fu nominato vescovo e legato pontificio da Papa san Gregorio II (669-731), ed è noto con il nome latinizzato di Bonifacio, santo e martire. Nel 723 (o nel 724), prese la decisione clamorosa di abbattere la quercia che svettava vicino al villaggio di Geismar, oggi sobborgo della città di Fritzlar in Assia, consacrata dai Catti, la popolazione germanica del luogo, al culto di Donar, il dio del tuono, quello che per gli scandinavi è Thor. Così facendo, sventò i sacrifici umani che i pagani stavano per consumare in quel luogo. Quando i pagani videro che il dio del tuono non reagiva all’ascia del santo, piegarono il ginocchio a Gesù. Dal tronco della quercia, già nota ai pagani come Donares Eih, Bonifacio ricavò il legname con cui fece costruire una cappella a Fritzlar, dedicandola a san Pietro. Dietro il moncone della quercia abbattuta spuntava un giovane abete, un sempreverde come la vita che non muore, e san Bonifacio volle fosse chiamato l’albero di Cristo bambino, istruendo il popolo a radunarsi attorno a esso, ma non nei boschi bensì nelle proprie dimore. Era tempo di Avvento, l’albero di Natale era nato: il problema è che dell’albero vero non si ricordano né i cristiani, che se la prendono con l’“alberonatalizzazione” della nascita di Cristo (scordando che l’abete fu onorato anche per la forma triangolare, cioè trinitaria), né chi se ne frega le mani pensando di avere gabbato Gesù con quattro festoni e due palle.
Senza saperlo, quindi, il nostro Occidente postcristiano e l’Oriente non cristiano moltiplicano nello spazio e nel tempo un cristianesimo involontario, che è anche un cristianesimo implicito, ovvero una inconsapevole opera di “missione” indiretta, “fredda” e a “bassissima intensità” che però, a modo proprio, dà ancora unavolta senso alle insuperabili parole affidate dallo scrittore ingleseCharles Dickens (1812-1870) al suo celeberrimo Canto di Natale, del 1843: «Onorerò lo spirito del Natale nel mio cuore e cercherò di farlo tutto l’anno». Il luogocomunismo che anestetizza la nostra capacità di usare il raziocinio ripete che, con Canto di Natale, Dickens “ha inventato” il Natale. Tutte fandonie. È il Natale che ha inventato Dickens, è la potenza incontenibile del fatto cristiano che esplode nel Natale ad avere superato confini e limiti, finendo per inseminare comunque il mondo, che il mondo lo sappia o no, lo voglia o no, compreso il Nuovo Aeroporto di Istambul e il “Caffè Bene” di Seoul.
Cristo è divenuto un fatto, diceva C.S. Lewis (1898-1963), il 25 dicembre dell’anno 0, in realtà dell’anno 4, in verità di ogni giorno dell’anno, nel rigido inverno coreano, nella dolcezza di ogni primavera, nel caldo dell’estate, all’umido di tutti gli autunni o nel contesto islamico della Turchia odierna. C’è qualcosa di profondamente ristoratore nel vedere l’albero di Natale fuori stagione e fuori porta, al di là della consapevolezza di chi lo lascerà lì finché non sverna. Come se la nascita che ha stravolto benignamente la storia avesse fatto il biglietto aereo con te. Capisco sul serio solo adesso perché, in un altro angolo di Asia qui poco distante, il regime neo-post-comunista cinese pretende di “sinizzare” tutto, impedendo celebrazioni “straniere” (e non è un problema di nazionalità) come il Natale. Nell’Occidente grasso, nella Turchia non cristiana e nella Corea acristiana se lo sono scordato, ma il primo a credere in Dio, e al Natale, è il diavolo. Il quale si mangia il fegato a vedere che, nonostante tutto, lo spirito del Natale è ovunque tutto l’anno.
Mercoledì, 5 febbraio 2020