Massimo Introvigne e Salvatore Napoli, Cristianità n. 138 (1986)
Intervista con l’ingegner Alfonso Robelo Callejas
Passato, presente e futuro della Resistenza nicaraguense
Alfonso Robelo Callejas è nato a León, in Nicaragua, l’11 ottobre 1939. Nel 1961 si è laureato in ingegneria chimica presso il Politecnico di Troy, nello Stato di New York. Ritornato in Nicaragua, ha esercitato la professione di dirigente industriale, ed è stato presidente della Camera
Industriale dal 1972 al 1975, nonché — dal 1975 al 1978 — presidente dell’Istituto Nicaraguense di Sviluppo, l’INDE, e del Consiglio Superiore del Settore Privato, il COSEO. In questa veste ha promosso e organizzato nel 1978 la serrata dell’industria privata diretta a protestare contro la politica del regime di Anastasio Somoza Debayle dopo l’assassinio del giornalista Pedro Joaquin Chamorro C., direttore del quotidiano di opposizione La Prensa. Nel marzo del 1978 ha fondato il Movimiento Democratico Nicaragüense, l’MDN, uno dei partiti di opposizione al regime somozista, di cui è tuttora presidente. Dopo la rivoluzione del 1979 è stato, fino al 22 aprile 1980, uno dei cinque membri della Giunta di Ricostruzione Nazionale, successivamente dissolta dopo il rifiuto dei due membri di minoranza — l’ingegner Robelo, appunto, e la signora Violeta Chamorro, vedova del giornalista assassinato — di avallare la sempre più chiara impostazione marxista e totalitaria della maggioranza rappresentata dai tre membri della Giunta appartenenti al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, Daniel Ortega, Moisés Hassan e Sergio Ramirez. Dopo aver rinunciato a ogni incarico di governo e avere tentato la via di una resistenza civica all’interno del Nicaragua, minacciato di arresto nel 1982 l’ingegner Alfonso Robelo si rifugia in Costarica, dove partecipa alla fondazione della UNO, la Unidad Nicaraguense Opositora, che riunisce ormai tutte le organizzazioni di qualche consistenza nella lotta politica o militare contro il regime sandino-comunista, e di essa è oggi uno dei tre responsabili, insieme al dottor Arturo J. Cruz e al dottor Adolfo Calero.
Abbiamo incontrato l’ingegner Robelo presso la sede della UNO a San José, in Costarica, e gli abbiamo posto alcune domande sullo stato della situazione in Nicaragua e sui suoi antecedenti storici.
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D. Vorremmo chiederLe, anzitutto, come valuta la sua partecipazione alla rivoluzione del 1979 e alla Giunta di Ricostruzione Nazionale. Di fatto, nonostante la partecipazione sua e della signora Violeta Chamorro, quella giunta aprì la strada all’attuale regime sandino-comunista. Che cosa ne pensa, oggi, di quella esperienza? Si ingannò o fu ingannato?
R. Dobbiamo anzitutto riconoscere — e io personalmente lo riconosco — che ci siamo ingannati e abbiamo sbagliato. Abbiamo accettato lo slogan popolare «imejor que Somoza cualquier cosa!», «qualunque cosa è meglio di Somoza!», che in ultima analisi era inesatto, perché la «qualunque cosa» che i sandinisti ci preparavano non è affatto migliore del regime di Somoza. Abbiamo anche sbagliato nel prestarci a collaborare con tutti gli oppositori al regime somozista senza una strategia precisa e prospettive chiare per il futuro; gli unici che avevano una strategia — i sandinisti — hanno così finito per prevalere. Mi sembra però importante chiarire, anzitutto a noi stessi, quali sono state le ragioni dei nostri errori. Distinguerei fra ragioni di ordine psicologico, economico e politico. Dal punto di vista psicologico, il fatto che il Nicaragua fosse dominato da quarant’anni dalla stessa famiglia, senza che nessuno osasse ribellarsi, creava un complesso di inferiorità nel mondo politico e imprenditoriale nicaraguense; sopportare per tanti anni il dominio dello stesso gruppo familiare era considerato quasi come una mancanza di virilità: un sentimento che forse è difficile comprendere fuori dell’America Latina. Dal punto di vista economico occorre rilevare che le idee di Anastasio Somoza Debayle e dei suoi ultimi consiglieri erano diverse da quelle del padre, Anastasio Somoza Garcia, e, soprattutto dopo il terremoto di Managua del 1972, con il pretesto della ricostruzione, andavano scivolando verso lo statalismo e la socializzazione. Dopo il 1972 gli espropri e le nazionalizzazioni si sono moltiplicate, rendendo pressoché omogenea l’opposizione dell’ambiente imprenditoriale nei confronti del governo. Dal punto di vista politico l’alleanza dei conservatori e dell’opposizione democratica con i comunisti del Fronte Sandinista per facilitare la caduta del regime somozista fu praticamente imposta dal presidente americano Carter, che ci fece sempre sapere che avrebbe aiutato soltanto un’opposizione unitaria, che comprendesse anche i marxisti. Identica era la posizione dei leader di altri paesi latinoamericani. Noi consideravamo questa imposizione americana non soltanto come una condizione, ma anche come una garanzia, una sorta di assicurazione: pensavamo che gli stessi americani che ci spingevano all’accordo con il Fronte Sandinista avrebbero continuato a sorvegliare la situazione e avrebbero certamente impedito la nascita di uno Stato comunista a così poca distanza da casa loro.
D. Come è nata in voi la decisione di rompere con il Fronte Sandinista e di passare alla resistenza armata?
R. L’accordo di ricostruzione nazionale, favorito dagli Stati Uniti e che anch’io avevo sottoscritto, prevedeva tre principi: il pluralismo politico, il non allineamento in politica estera e l’economia mista. Per economia mista intendevamo un’economia in cui sarebbe stata conservata la partecipazione statale nei settori dei servizi pubblici essenziali, e contemporaneamente garantito il ruolo della libera iniziativa privata. Che il Fronte Sandinista non prendesse sul serio i principi del pluralismo politico e del non allineamento è apparso chiaro dopo pochi mesi; per quanto riguarda l’economia mista, dopo qualche tempo è emerso il disegno strategico sandino-comunista di chiamare «mista» quella che io definirei invece «economia mescolata»: un sistema in cui una parvenza di iniziativa privata — affidata a imprenditori del tutto ligi alle direttive del regime — è conservata come facciata propagandistica per occultare quello che di fatto è un controllo statale totale della vita economica. La violazione degli accordi ha reso impossibile una lotta politica all’interno del governo; la stretta totalitaria nel paese ha poi reso impossibile anche la lotta politica all’esterno delle istituzioni e così, nel marzo del 1982, ho scelto la strada dell’esilio e della lotta militare.
D. La UNO raccoglie forze politicamente diverse e piuttosto eterogenee. È vero — come hanno scritto parecchi giornali occidentali — che l’unificazione è stata imposta dagli Stati Uniti?
R. Non è vero: se qualcuno ha fatto pressione perché tutte le forze della Resistenza, e in particolare della Resistenza armata, si unificassero sono stati gli stessi nicaraguensi, in patria e in esilio, e gli stessi combattenti. Come è tradizionale nella storia politica del Nicaragua la divisione fra varie organizzazioni si riferiva più a questioni di leadership che a vere differenze di carattere dottrinale. Non è neppure vero che i movimenti di resistenza si differenziassero per la loro disponibilità o meno ad accogliere ex esponenti dell’esercito somozista: la dirigenza politica di tutti i movimenti è sempre stata formata da persone che avevano partecipato alla lotta contro Anastasio Somoza, mentre, nei quadri militari, ufficiali dell’esercito «somozista» — ma, forse, sarebbe più esatto dire «dell’esercito così come esisteva nel 1979», perché non è affatto dimostrato che fosse integralmente composto da simpatizzanti somozisti — ne esistevano, in una misura mai superiore al dieci per cento, in tutte le formazioni della Resistenza. Lo stesso Edén Pastora aveva ufficiali dell’esercito pre-rivoluzionario fra i suoi più diretti collaboratori. Per inciso, Edén Pastora animava un piccolo gruppo della Resistenza che si è rapidamente rivelato del tutto inconsistente dal punto di vista militare; per questo è stato indotto a ritirarsi dalla lotta, anche se poi ha cercato giustificazioni di carattere strategico o dottrinale.
È chiaro che, come in ogni coalizione, nella direzione politica della UNO vi sono differenze, per esempio fra chi — come l’amico Adolfo Calero — si rifà alla tradizione del Partito Conservatore del Nicaragua, sempre all’opposizione nei confronti della famiglia Somoza, e chi parte invece da premesse dottrinali diverse; ma parlerei di «differenze» più che di «divergenze», posto che non è stato difficile trovare l’unità su un programma politico, sociale ed economico comune.
D. La stampa europea definisce spesso la sua posizione come «socialdemocratica». Si riconosce in questa definizione?
R. Potrei definirmi un socialdemocratico centroamericano, che non è esattamente la stessa cosa di un socialdemocratico europeo. Dal punto di vista politico ed economico sono certamente molto lontano dalla socialdemocrazia tedesca e da quella svedese, e anche dall’Internazionale Socialista. Dal punto di vista economico-sociale sono risolutamente contrario a qualunque forma di statalismo e mi riconosco pienamente nella formula del programma della UNO, che del resto deriva dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica: «Tanta società quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario».
D. Come vede la situazione militare della Resistenza? Quali sono le vostre speranze per il futuro?
R. La UNO conta attualmente su circa ventiduemila uomini, di cui diciassettemila organizzati nella UNO-FDN, sul Fronte Nord ai confini con l’Honduras, tremila nella UNO-SUD, ai confini con la Costarica, e duemila nella UNO-KISAN, composta da indiani miskitos, sumos e ramas e da creoli, che opera nella zona della Costa Atlantica. Recentemente abbiamo stipulato un accordo anche con l’ultimo gruppo effettivo della Resistenza che operava al di fuori della UNO, il BOS, il Blocco di Opposizione Sud, che è però un’associazione di politici e di intellettuali, con un piccolo corpo di volontari composto da circa duecento persone. La situazione militare sul Fronte Nord è, in relazione ai nostri obiettivi, soddisfacente. Non è neppure esatto dire che la Resistenza sia stata completamente sconfitta sul Fronte Sud, perché mantiene ancora buone posizioni nella zona di Nuova Guinea. Occorre considerare il fatto che da circa due anni manteniamo sostanzialmente le nostre posizioni, pur senza ricevere aiuti militari di nessun tipo da nessuno. Con l’aiuto approvato dagli Stati Uniti dovrebbe aprirsi una nuova era; infatti, da mesi siamo costretti a respingere potenziali combattenti — soprattutto contadini che fuggono dal Nicaragua — per mancanza di indumenti e di armi. Ora, invece, dovremmo essere in grado di accogliere tutti coloro che si presentano. Mi si chiede spesso se la UNO può vincere militarmente. È chiaro che non possiamo immaginare di sconfiggere in campo aperto l’esercito sandino-comunista, con i suoi consiglieri sovietici e cubani, cinque volte più numeroso e forse dieci volte meglio armato. Tuttavia le guerre di liberazione nazionale, le guerre popolari — e la nostra è una vera guerra popolare — hanno autentiche possibilità di vittoria se riescono a mantenere le loro posizioni, o meglio ancora a incrementarle, per un certo numero di anni: di fronte a una resistenza continua la piramide del potere totalitario si incrina e finalmente può spezzarsi. Contiamo su un effetto valanga: prolungando e migliorando le attività della Resistenza si moltiplicheranno le diserzioni nella milizia e nell’esercito sandino-comunista, in gran parte composto da giovani reclutati a forza e che non simpatizzano affatto con il regime; si moltiplicheranno le insurrezioni popolari, specialmente nelle zone rurali, e le fughe dal paese di contadini che vengono a ingrossare le nostre forze; non è neppure impossibile che, di fronte alla nostra pressione, si rompa la concordia all’interno della gerarchia politica e militare del Fronte Sandinista, e si creino divisioni che potranno affrettare il collasso del regime.
a cura di Massimo Introvigne e Salvatore Napoli