Alberto Mazza, Cristianità n. 129-130 (1986)
Intervista con il professor Sibghatullah Mujaddidi
«Europa, guarda l’Afghanistan!»
Nei giorni 29 e 30 novembre e 1 dicembre 1985 si è svolto a Torino il convegno internazionale Europa, guarda l’Afghanistan!, organizzato dal Comitato Torinese di Solidarietà con il Popolo Afghano e da altri comitati europei che sostengono la Resistenza afgana. Il convegno, articolato in chiave pluralistica, ha permesso a diverse forze culturali e politiche italiane e straniere di illustrare la loro posizione sul dramma dell’Afghanistan, e ha dato spazio a varie componenti della Resistenza afgana. Nella seduta del 30 novembre ho portato al convegno il saluto di Alleanza Cattolica e della CIRPO-Italia, la Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati, illustrando le attività svolte in Italia a sostegno delle «Resistenze dimenticate» e accennando ai motivi dottrinali che – sulla base dei princìpi della dottrina sociale della Chiesa in tema di «diritto di resistenza» – spingono i cattolici a schierarsi a fianco dei movimenti che difendono in armi la libertà dei popoli aggrediti dall’imperialismo socialcomunista. In occasione dell’incontro di Torino ho pure intervistato il professor Sibghatullah Mujaddidi, presidente del Fronte Nazionale di Liberazione dell’Afghanistan. Figura di primo piano della cultura afgana prima dei colpi di Stato comunisti, il professor Mujaddidi, che ha oggi cinquantotto anni, ha contribuito alla fusione di sette delle principali organizzazioni della Resistenza afgana nell’unione Islamica dei Mujaheddin d’Afghanistan: in pratica, la maggioranza dei combattenti, con l’esclusione soltanto dei gruppi legati esplicitamente all’Iran dell’ayatollah Khomeini, la cui politica estera ha conosciuto sul tema dell’Afghanistan pericolose ambiguità e oscillazioni. Nel professor Mujaddidi la maggioranza delle forze che resiste all’invasione sovietica ha oggi trovato quello che alla Resistenza afgana era mancato a lungo: un leader dotato di un prestigio largamente riconosciuto e di una sufficiente credibilità internazionale. A Torino, all’apertura del convegno, quando Sibghatullah Mujaddidi ha fatto il suo ingresso nella sala del Consiglio Regionale del Piemonte tutti i rappresentanti afgani – che pure appartenevano a movimenti diversi – si sono levati in piedi per salutarlo con un lungo e unanime applauso, esplicito riconoscimento della sua funzione oggi insostituibile nella battaglia per la libertà dell’Afghanistan.
* * *
D. Lei è giunto a Torino direttamente da Peshawar, sospendendo momentaneamente la sua importante attività di coordinamento della Resistenza anticomunista. Valeva la pena di fare questo viaggio?
R. Venendo a Torino da Peshawar sono passato da Ginevra dove, in occasione dei colloqui Reagan-Gorbaciov, ho potuto partecipare a una serie di iniziative di presentazione alla stampa della Resistenza anticomunista, insieme – tra l’altro – al presidente cambogiano Son Sann e al presidente della CIRPO-France Pierre Faillant de Villemarest. Direi che questi viaggi sono utili: in Europa, forse, sapete tutto sul Sudafrica, ma di quello che succede davvero in Afghanistan sapete l’uno o il due per cento.
D. Che cosa succede davvero in Afghanistan?
R. Ormai le nostre forze controllano l’ottantacinque per cento del territorio. L’Unione Sovietica non riesce a entrare in intere vallate e può rendersi presente solo con i bombardamenti aerei. Oggi, infatti, siamo più organizzati di ieri; e grazie alle vittorie anche l’unità tra noi si è rinsaldata. Abbiamo attaccato anche grandi città e, per due volte, l’aereoporto della capitale. Certo, i sovietici continuano a combattere con accanimento: ma non sono riusciti né a sconfiggerci né – fondamentalmente – a dividerci. L’Afghanistan costituisce per l’Unione Sovietica una continua emorragia di uomini e di mezzi. Inoltre, per la prima volta in questa guerra, i capi sovietici devono affrontare il problema delle numerose diserzioni. Molti giovani russi si consegnano alle forze della Resistenza e in alcuni casi passano addirittura a combattere per noi.
D. Qual è la situazione dei prigionieri di guerra dall’una e dall’altra parte?
R. Quando noi catturiamo un russo lo consegniamo alla Croce Rossa che lo porta in genere a Ginevra, dove rimane per un paio di anni. Dopo, chi può si rifugia in Europa o negli Stati Uniti. I sovietici non hanno invece mai rispettato alcun tipo di patto o di convenzione nei confronti dei nostri prigionieri. Ne sono caduti nelle loro mani circa quarantamila, e non ne abbiamo più saputo nulla. Sappiamo e possiamo provare che molti sono stati uccisi: alcuni sono stati gettati vivi dagli aerei e dagli elicotteri, con le mani legate, altri sepolti vivi. Lo scopo di questa barbarie è di intimorire i combattenti, di spezzare la loro volontà di combattere. Ma noi non abbiamo ceduto. E il problema non riguarda solo i combattenti o i prigionieri di guerra. Migliaia di bambini dei villaggi afgani sono stati rapiti e portati con la forza in Unione Sovietica per essere «rieducati» o avviati al lavoro forzato. Ma la fede del popolo afgano non è stata piegata e le nostre famiglie continuano a credere nella vittoria.
D. Il momento più importante del convegno di Torino è stata la presentazione al pubblico e alla stampa di un documento, redatto da una commissione internazionale di giuristi, che illustra le ragioni per cui già ora la Resistenza afgana potrebbe e dovrebbe essere riconosciuta dalle Nazioni Unite e dai governi occidentali come unica rappresentante legittima del popolo afgano, così come è avvenuto, almeno con riferimento all’ONU, per la Resistenza cambogiana. So che il documento dei giuristi è stato da voi attentamente esaminato. Che cosa ne pensate?
R. Lavorare per il completo riconoscimento giuridico internazionale della Resistenza afgana è fra le cose più importanti che voi europei potete fare per aiutarci. E sto parlando a nome di tutto il popolo afgano perché, come del resto viene correttamente sottolineato nel documento dei giuristi, la Resistenza è l’unica legittima rappresentante del popolo afgano; il «governo» fantoccio insediato dai sovietici a Kabul non rappresenta nessuno. D’altra parte – se posso permettermi di fare un’osservazione – avrei gradito una maggiore partecipazione delle organizzazioni della Resistenza afgana alla stesura del documento dei giuristi e anche all’organizzazione del convegno di Torino.
D. Si attende sviluppi positivi a breve scadenza per quanto riguarda il riconoscimento giuridico e diplomatico della Resistenza afgana?
R. Non mi faccio illusioni e non credo che vi saranno sviluppi particolarmente favorevoli alla nostra causa entro breve tempo. So, comunque, che una richiesta di riconoscimento dell’Unione Islamica dei Mujaheddin d’Afghanistan – che riunisce la maggioranza delle forze della Resistenza dopo un processo di federazione che io stesso ho promosso – sarà ora inoltrata a tutti i paesi della Comunità Economica Europea e alle Nazioni Unite, insieme al documento dei giuristi che può costituire una solida base per azioni in nostro favore.
D. Si parla molto di una possibile soluzione negoziata della questione afgana. Voi sareste disponibili a una trattativa con l’Unione Sovietica?
R. Certo, noi vogliamo la pace e la trattativa. Siamo stanchi di questa guerra crudele che sta distruggendo le nostre famiglie. Ma vogliamo essere noi afgani a trattare; non ci soddisfano le trattative in cui il Pakistan o gli Stati Uniti trattano con l’Unione Sovietica come delegati o mandatari della Resistenza. Non vogliamo interpreti: solo noi possiamo e dobbiamo negoziare il nostro futuro.
Chiediamo che l’Unione Sovietica ritiri le sue truppe dall’Afghanistan senza condizioni. Non è facile che i sovietici accettino: l’Afghanistan dal punto di vista strategico – anche se pochi in Occidente lo capiscono – è la porta per arrivare al Medio Oriente e all’Oceano Indiano. Per questo possiamo dire che non lottiamo solo per noi, ma per tutti i popoli, anche se siamo poveri e piccoli.
D. Si è letto di una presunta disponibilità dell’Unione Sovietica a una trattativa, purché sia garantito in Afghanistan un governo «amico»; si è anche parlato di una «finlandizzazione» dell’Afghanistan …
R. Non accetteremo che l’Unione Sovietica si ritiri in cambio di un governo «amico». Vogliamo un governo libero; vogliamo che sia il popolo afgano a decidere da chi deve essere rappresentato. Se posso dirlo, mi sembra di cogliere un limite in molte iniziative occidentali di solidarietà con la nostra Resistenza. Queste iniziative condannano l’invasione sovietica come violazione del diritto internazionale, ed è giusto. Ma deve essere chiaro che a noi non starebbe bene il ritorno alla situazione immediatamente precedente all’invasione sovietica, cioè a un governo comunista sia pure senza truppe straniere. Abbiamo cominciato la nostra lotta prima dell’invasione sovietica e la continueremo dopo il ritiro delle truppe dell’Unione Sovietica, se qualcuno tenterà di imporci un governo comunista. Io lotto contro il comunismo da quasi trent’anni, da quando l’Unione Sovietica, negli anni Cinquanta, cominciava a inondare il nostro paese di propaganda materialista e atea per distruggere la fede dei giovani.
D. La stampa ha parlato di aiuti americani per 250 milioni di dollari alla Resistenza afgana. Si tratta di una notizia esatta?
R. Per ora le forze dell’Unione Islamica, cioè la maggioranza delle forze della Resistenza, non hanno visto neppure un dollaro. I piccoli aiuti che ci arrivano sono totalmente inadeguati. Ho saputo anch’io che il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato il governo ad aiutarci; ringrazio i parlamentari americani e spero che gli aiuti arrivino davvero alla Resistenza, e al più presto.
D. In Italia, più che dal governo, molte iniziative di solidarietà con l’Afghanistan sono partite da associazioni civiche indipendenti, da qualche giornalista e soprattutto da movimenti cattolici. Come valuta l’azione del mondo cattolico nei vostri confronti?
R. Abbiamo molti valori in comune con i cattolici e condividiamo un impegno per la pace che non esclude la lotta armata per la libertà. Sono convinto che l’impegno del mondo cattolico per la Resistenza afgana sarà apprezzato da tutta la comunità islamica e favorirà una migliore comprensione reciproca. Devo aggiungere che, a mio avviso, i cattolici e, in genere, i leader religiosi del mondo libero potrebbero prendere iniziative ancora più incisive, soprattutto per denunciare la barbara violazione di ogni legge di guerra da parte dei sovietici.
D. Prima della rivoluzione e della successiva invasione sovietica, Lei era noto soprattutto come un leader religioso. Che peso ha la fede in Dio nella battaglia che state combattendo?
R. Un peso assolutamente fondamentale. Non è possibile parlare di una nazione afgana se si prescinde dalla religione del nostro popolo. E la nostra battaglia acquista ancora più valore proprio perché non è condotta solo contro un invasore straniero, ma contro forze che rappresentano il materialismo e la lotta contro la religione. Io sono insieme un capo politico, militare e religioso; in Afghanistan non potrebbe essere diversamente. E ogni giorno prego e mi metto nelle mani di Dio, perché è da Dio che dipende la vittoria.
a cura di Alberto Mazza