Giovanni Cantoni, Cristianità n. 320 (2003)
1. “Il realismo di Fini” in Italia…
Quando, nel mese di ottobre del 2003, il presidente di Alleanza Nazionale e vicepresidente del Consiglio dei Ministri, on. Gianfranco Fini, ha avanzato la proposta di ammettere all’esercizio del voto amministrativo gl’immigrati regolarmente presenti da oltre sei anni sul suolo della Repubblica Italiana, cioè in possesso della carta di soggiorno, ho ritenuto opportuno segnalare il “realismo di Fini” (1).
2. … poi in Israele e ancora in Italia
Torno a parlare dello stesso uomo politico dopo le dichiarazioni da lui rilasciate — ulteriore manifestazione di realismo — durante la visita in Israele e al ritorno, in Italia, a fronte delle polemiche nate nel suo partito e ampliate — forse a dismisura —dai mass media, che vi hanno pure “saputo” aggiungere qualche insinuazione su un presunto “opportunismo” di tali dichiarazioni.
Che cos’ha detto il presidente di AN?
In Israele, ha anzitutto qualificato “la memoria della Shoah […] [come] simbolo perenne dell’abisso di ferocia in cui può cadere l’uomo quando disprezza Dio” (2). Poi, “alla condanna per i carnefici di ieri — ha detto — va accompagnata la coscienza che ci viene dall’insegnamento della storia dei giusti. Essi dimostrano che non può esservi alcuna giustificazione non soltanto per chi uccise, ma anche per chi poteva salvare un innocente e non lo fece. Certo, così come il miracolo dei giusti, invocato da Abramo, non salvò Sodoma e Gomorra, così le azioni, i comportamenti di uomini come Giorgio Perlasca non impedirono la Shoah. Eppure è con il loro esempio che deve confrontarsi la nostra coscienza nazionale di italiani. Dobbiamo farlo per conoscere i nostri Giusti e per tramandarne l’esempio. Dobbiamo farlo per denunciare le pagine vergognose che ci sono nella storia del nostro passato.
“Dobbiamo farlo — ha insistito — per capire la ragione per la quale ignavia, indifferenza, complicità o viltà fecero sì che tantissimi italiani, nel 1938, nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal fascismo” (3).
Quindi, in Italia, in coerenza con le scelte fatte a Fiuggi nel 1995, ha ribadito la denuncia dell’Olocausto e di quanti, in qualche modo, ne sono stati partecipi: “[…] se l’olocausto rappresenta il male assoluto, ciò vale anche per gli atti del fascismo che hanno contribuito alla Shoah. Sappiamo che nella storia complessa del fascismo ci sono anche tanti altri momenti, ma se vogliamo che siano riconosciuti da tutti gli italiani senza che scatti il riflesso condizionato della accusa di revisionismo storico è indispensabile per noi essere intransigenti nel denunciarne i misfatti e le tragedie” (4).
3. La detribalizzazione del corpo politico
Se l’on. Fini non è uno storico, e non lo vuole neppure sembrare, è però un politico, cioè non lo sembra soltanto e non ne esercita solamente le funzioni. Quindi si è limitato a dare espressione, nel modo comprensibile al popolo italiano nella sua grande maggioranza, per non dire nella sua totalità, nonché a ogni pubblico mediatizzato, a un giudizio di condanna di uno degli avvenimenti più tragici del secolo XX, se non del più tragico, rilevante di un duplice rilievo: uno politico e l’altro culturale e, quindi, anche religioso (5).
Ma non ha così sconfinato, addentrandosi in un terreno propriamente storico e culturale, quindi non suo? La domanda ha fondamento in tesi, in abstracto, se il popolo italiano — come tutti i popoli che escono da due secoli di morbo ideologico, quindi di guerra civile — non fosse una rissosa convivenza fra tribù ideologiche, o almeno ideologizzate, nell’atmosfera plumbea del “tutto è politica” (6). E ciò rende indispensabile che il quadro — rectius, il ring, anche quello ovattato del talk show — venga rotto, sfacciatamente rovesciato come talora un tavolo da gioco nei film western, spezzato anche, da un uomo politico, da un uomo di partito, dal capo di una tribù ideologica, l’unico — in quanto uomo di partito — percepito dalla gente come legittimo, come al suo posto accanto a quel tavolo. Solo così, dopo decenni — secoli forse — di cultura organica al potere o ai poteri, gl’intellettuali, i “chierici”, potranno smettere di essere traditori della verità e della sua ricerca, venduti o asserviti al potere stesso oppure ignorati, nell’ipotesi che traditori non siano né vogliano essere (7).
E potranno ricominciare tutti a provare il gusto della ricerca della verità, teoretica e di fatto, per la verità. E — ancora — il rapporto fra storia e politica, non radicale separazione, ma semplice distinzione, potrà rivedere il primato logico della storia, la sua allocazione epistemologica come luogo dell’esperienza, come paesaggio di memoria che aiuta a vedere, a prendere coscienza dei tratti materiali e psico-sociali di un popolo, di un soggetto storico di lunga durata.
L’incomprensione — e le conseguenti turbolenze — di cui il gesto dell’on. Fini, e le parole che l’hanno accompagnato, sono state oggetto nel primo cerchio dei suoi uditori, testimoniano il permanere in esso — ma appare soltanto in esso, perché si tratta di un’esperienza di parte, quindi anche parziale — di elementi abbondantemente umorali e di ampie sacche di non riflessione. Comunque — e mi limito a osservazioni relative alla parte e al partito in questione —, posto che si tratta di far politica oggi e nella prospettiva del futuro, non al passato ed eventualmente in stato di necessità, merita di essere ricordato che non è segno di particolare coerenza umana fare l’apologia — o addirittura “vantarsi” — del falso ambasciatore spagnolo a Budapest Giorgio Perlasca (1910-1992) (8) o del vero commissario e questore reggente italiano di Fiume Giovanni Palatucci (1909-1945) (9), quindi di chi ha eluso determinati orientamenti operativi, quando non legislativi, delle autorità del suo tempo, e apprezzare contemporaneamente senza riserve di sorta chi tali orientamenti ha dato o tali leggi ha emanato.
Finalmente, chi intende dichiararsi di destra dovrebbe aver presente — e ne trarrebbe indubbio vantaggio — quanto afferma lo storico tedesco naturalizzato statunitense George L. Mosse e cioè che, per esempio in Francia, “l’antisemitismo era stato un fenomeno di sinistra piuttosto che di destra sin dai tempi dei primi socialisti” (10).
4. La purificazione della memoria storica
Dunque, nel secolo XX, quando l’epidemia ideologica ha toccato i propri punti più alti ricadendo da guerra civile europea (11) in guerra civile nazionale, vi sono stati italiani che, per salvare o promuovere l’autorità, si sono trovati a essere compagni di strada di soggetti, di “lucignoli” storici non particolarmente raccomandabili. Così — e non è detto solo argumentandi gratia, per il piacere di discutere — vi sono stati italiani che, per salvare o per promuovere la libertà, quanto a compagni di strada non sono andati incontro a minor sventura, cioè non hanno avuto assolutamente miglior sorte.
La purificazione della memoria storica del popolo italiano, che l’on. Fini ha coraggiosamente avviato da uomo politico, giustamente preoccupato di rappresentare — lui e chi come lui, quindi ogni uomo politico, italiano e non — un popolo e non solo un partito, può portare alla riscoperta d’italiani disposti ad avanzare sulla via del bene comune, che si può perseguire solo nell’equilibrio sempre periclitante fra libertà e autorità, piangendo i propri e gli altrui morti, orgogliosi dei propri eroi e ammirando quelli altrui, nel rispetto della realtà storica nella misura in cui è in qualche modo, cioè sempre perfettibilmente, ricostruibile.
Per quanto dice poi relazione a una parte consistente della materia in esame, cioè alla Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), “verrà il momento di riconoscere — l’affermazione è del politologo don Gianni Baget Bozzo e fatta propria dall’on. Fini — che essa fu tutt’altro che una storia di violenza e di crimini e che alla base della risposta alla chiamata alle armi della Repubblica sociale e all’adesione alle sue formazioni non ci fu una gamma di sentimenti ignobili. Furono coscienze libere quelle che si impegnarono per la fedeltà all’alleato, anche se questo era divenuto un massacratore di italiani” (12). E, quanto alla Resistenza contemporanea (1943-1945), se “la Repubblica sociale non fu soltanto crimine […] la Resistenza non fu solo battaglia per la libertà di tutti” (13).
Comunque, “purificazione della memoria” è il nome vero del processo in questione, indispensabile per ogni organismo, anche di origini dirette ben più nobili di un popolo, un segmento di umanità in un momento storico, quale, per esempio, la Chiesa cattolica: “indispensabile premessa per un ordine […] di pace” (14), internazionale e nazionale.
La strada della purificazione della memoria è lunga e faticosa, quindi richiede, da parte di chi intende percorrerla, straordinaria pazienza storica (15). Non basta il pur importante e preventivo scavo apologetico; serve una lunga e metodica riscoperta e seminagione anzitutto di verità di fatto — non a caso si tratta di storia — nella prospettiva della restaurazione di una dieta, cioè di un regime alimentare, quindi — nel caso — di un regime culturale, coerente con la natura storica, perciò anche datata, di tutto un popolo, conforme al suo ethos, e dell’impegno in primis per la sua conservazione come nazione. Senza dimenticare, anzi ricordando che ethos ed etica non sono assolutamente estranei e che, dunque, tale opera non solo può, ma dev’essere selettiva (16).
Di questo impegno corale costituisce avanguardia naturale un’autentica cultura di destra, i cui operatori possono solo gioire a fronte dell’avviata purificazione della memoria storica del Ventennio fascista dagli aspetti criminali, da accompagnare a quella dai momenti ideologici socialisti e liberali ottocenteschi e novecenteschi di tale periodo, senza ricorrere alla risibile lettura del fascismo come “una parentesi di venti anni” (17), che vorrebbe nascondere l’equivalenza secondo cui “la Rivoluzione francese sta a Napoleone come il Risorgimento sta a Mussolini” (18).
Quindi si deve auspicare che altrettanto venga operato in relazione alla Resistenza, offuscata — per dire il meno — da fatti come quelli verificatisi, per esempio, in Emilia e in Istria alla fine della seconda guerra mondiale, cioè dalla presenza e dall’opera dei socialcomunisti. Magari alla luce di quel patto di non aggressione stipulato il 23 agosto 1939 fra il Terzo Reich germanico e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e che diede via libera all’invasione nazionalsocialista della Polonia, innescando la seconda guerra mondiale, noto dal nome dei suoi firmatari come Patto Molotov [Vjaãeslav Michajloviã Skrjabin detto (1890-1986)]-Ribbentropp [Joachim von (1893-1946)] e la cui portata metapolitica illuminante è troppo spesso — forse sempre — trascurata.
5. Alla riscoperta del popolo italiano e della sua storia
Comunque, quale il risultato dell’opera di scavo e del restauro? Il ritrovamento del popolo italiano, da sottoporre alla non meno indispensabile purificazione dell’Unità dal Risorgimento (19) ma, soprattutto, all’adeguata valorizzazione, autenticamente fondativa, della resistenza e della reazione alla Rivoluzione detta francese costituita dall’Insorgenza (20), il moto di spontanea difesa popolare de “l’Italia cattolica, controriformista, barocca” (21): “Ma il primo passo per la (ri)costruzione della patria — sostiene il sociologo della religione Pietro De Marco — esige la consapevolezza che non si può prendere le mosse né dal secondo né dal primo Risorgimento, in virtù del troppo di storia che hanno escluso o rimosso. Il prius materiale, il corpo politico primo, della patria è nella cifra dei molti istituti e delle molte storie (già nazionali e già moderne) dell’Italia cattolica della grandezza e della decadenza” (22).
“E basta?”, dirà qualcuno polemicamente e, insieme, ironicamente. Sì, trattandosi di storia e non di cronaca, se grosso modo basta non avanza. Ma — sia ben chiaro — non si tratta di una scelta, ma di una decisione dettata da una constatazione importante, forse fondamentale: quella per cui una pace, nazionale e internazionale, è possibile solo quando i contendenti si siano ritrovati al punto in cui da conviventi sono diventati appunto contendenti e hanno tratto dalla diversità ragioni non d’integrazione indispensabile, ma di contrasto.
Per questo quando le nazioni spontanee (23), le nazioni come si configuravano prima dei secoli XIX e XX, le “nazioni deboli”, sono di-ventate “nazioni forti”, cioè il nazio-nalismo ha avuto la meglio sul patriottismo, la nazione è stata intro-nizzata, s’è fatta unico destinatario di lealismo politico e da società sto-rica culturalmente alimentata è dive-nuta veicolo d’ideologia. Ma la nazione è instabile, di sua natura “sconfinata”, nel senso di “senza confini” anche se talora fa appello a cosiddetti, terribili “confini naturali”, e può pensare di espandersi, mentre la patria è stabile come le chiese e le tombe, e non si espande: “Patria — sentenzia il pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) —, senza chiacchiera nazionalista, è solamente lo spazio che un individuo contempla all’intorno salendo una collina” (24).
Perciò meglio indicare il problema da risolvere come “follia o eclissi della nazione” piuttosto che come “morte della patria”, dal momento che la patria non può morire, per sua natura. Perciò occorre tornare a quella fase confermativa della storia della nazione italiana e delle nazioni europee, ripercorrere culturalmente quel passaggio nodale per riscoprire nell’Insorgenza transatlantica — aperta dalla Guerra d’Indipendenza nordamericana nel 1775 e chiusa con la fine delle Guerre di Secessione iberoamericane, non dopo il 1826 — e che comprende l’Insorgenza europea — a sua volta aperta dalla Guerra delle Alpi nel 1792 e chiusa non prima del 1813 —, il segno della comunione di sentire, premessa della comunione di volere.
“Il tema della nostra separazione è, dunque — suggeriva il pensatore nicaraguense Julio César Ycaza Tigerino (1919-2001) nel 1947 per relazione ai rapporti da ristabilire fra il mondo iberico e quello iberoamericano —, il tema della nostra unione. Dobbiamo unirci dove ci siamo separati, senza con questo voler dire che possiamo prescindere da un secolo di separazione e di evoluzione politica e sociale diversa; dobbiamo riannodare il filo storico del nostro destino” (25).
6. Verso una comunità di cultura cristiana
E, al termine, peraltro mai definitivo, di quest’opera di ritessitura di ogni contesto nazionale e internazionale, all’orizzonte si staglia, come istituzione di pace sostenibile, una confederazione, un impero, non esito forzato di aggressione imperialistica (26), ma frutto maturo di volontaria adesione a una comunità di cultura cristiana, aperta a quanti dei valori fondativi di tale cultura intendono fare la base e l’orizzonte del proprio vivere civile e del proprio convivere interstatuale. “L’Unione Europea continua ad allargarsi — leggo nell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa, pubblicata nel 2003 da Papa Giovanni Paolo II —. Hanno vocazione per parteciparvi a breve o lunga scadenza tutti i popoli che ne condividono la stessa eredità fondamentale” (27). E — confesso — non mi riesce di pensare solo all’Europa di Bruxelles.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. il mio Gl’immigrati, la destra e la realtà, in Cristianità, anno XXXI, n. 319, settembre-ottobre 2003, pp. 19-20, anticipato senza note e con il titolo Il realismo di Fini, in Il Foglio quotidiano, Milano 15-10-2003.
(2) Gianfranco Fini, Il tempo della responsabilità, discorso pronunciato a Yad Vashem, del 24-11-2003, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, Roma 25-11-2003.
(3) Ibidem.
(4) Fini: una scelta di coerenza, intervento a Roma, del 27-11-2003, ibid., Roma 28-11-2003.
(5) Cfr. Alain Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., con prefazione di Vittorio Mathieu, Ideazione, Roma 2000.
(6) Antonio Gramsci (1891-1937), Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana (1919-2000), vol. secondo, Quaderni 6 (VIII)-11 (XVIII), Quaderno 7 (VII). 1930-1931 (Appunti di filosofia II e Miscellanea), § 35, Einaudi, Torino 1975, p. 886.
(7) Cfr. Gustave Thibon (1903-2001), Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, trad. it., in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi di fisiologia sociale, con prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con considerazioni introduttive di Marco Respinti, Effedieffe, Milano 1998, pp. 7-145 (pp. 97-99); e Julien Benda (1867-1956), Il tradimento dei chierici, trad. it., Torino, Einaudi 1977.
(8) Cfr. Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano 2003.
(9) Cfr. don Michele Bianco e Antonio De Simone Palatucci, Giovanni Palatucci. Un olocausto nella Shoàh, Accademia Vivarium Novum-Edizioni Dragonetti, Montella (Avellino) 2003.
(10) George L. Mosse, voce Razzismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 1052-1063 (p. 1056); cfr. Idem, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 165-167.
(11) Cfr. Ernst Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea. 1917-1945, trad. it., con introduzione di Gian Enrico Rusconi, Rizzoli, Milano 1996.
(12) Don Gianni Baget Bozzo, Fini consegna la RSI alla storia, in il Giornale, Milano 27-11-2003; cfr. Fini: una scelta di coerenza, cit.
(13) Don G. Baget Bozzo, art. cit.; cfr., per la parte imputabile, Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Sperling & Kupfer, Milano 2003; e, per quella “oscurata”, Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, con prefazione di Sandro Fontana, Ares, Milano 2003.
(14) Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti al convegno del Pontificio Comitato di Scienze Storiche su Leone XIII e gli studi storici, del 28-10-2003, n. 4, in L’Osservatore Romano, 1°-11-2003, parzialmente trascritto, con il titolo La Chiesa, la storia e la “purificazione della memoria”, in Cristianità, anno XXXI, n. 319, settembre-ottobre 2003, p. 32.
(15) Cfr., in specie, il mio La memoria storica degli italiani in questione, in Cristianità, anno XXIV, n. 252-253, aprile-maggio 1996, pp. 3-4 e 30; e, in genere, pure il mio La “purificazione della memoria” e la devozione al Cuore Immacolato di Maria per la Nuova Evangelizzazione, ibid., anno XXX, n. 313, settembre-ottobre 2002, pp. 25-30.
(16) Cfr. Massimo Introvigne, L’”ethos” italiano e lo spirito del federalismo, con presentazione di Pierferdinando Casini, Gruppo Parlamentare Centro Cristiano Democratico — Camera dei Deputati-Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1995.
(17) Benedetto Croce (1866-1952), La libertà italiana nella libertà del mondo, discorso del 28-1-1944, in Idem, Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Laterza, Bari 1963, pp. 49-58 (pp. 56-57).
(18) Cfr. una ricostruzione della storia d’Italia, dalla seconda metà del secolo XVIII alla prima metà del secolo XX, nel mio L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, con lettere di encomio di mons. Romolo Carboni (1911-1999), nunzio apostolico, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50, soprattutto pp. 19-29.
(19) Cfr. la mia Introduzione a Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia, con presentazione di mons. Andrea Gemma F.D.P., vescovo di Isernia-Venafro, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002, pp. 9-14.
(20) Cfr. un primo accostamento, in Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), Minchella, Milano 1997, con una premessa di Oscar Sanguinetti, che fa stato della problematica storica e storiografica.
(21) Pietro De Marco, Cattolicesimo patrio. Appunti sull’identità italiana, <http://213.92.16. 98/ESW_articolo/0,2393,41962,00.html>.
(22) Ibidem.
(23) Cfr. Mario Albertini (1919-1997), Lo Stato nazionale, il Mulino, Bologna 1997, p. 154; cfr. pure F. Pappalardo, La cultura politica italiana preunitaria e il concetto di “nazione spontanea”, in Cristianità, anno XXVI, n. 273-274, gennaio-febbraio 1998, pp. 13-18, ora, riveduto, in O. Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001, pp. 45-53.
(24) Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito II, Instituto Colombiano de Cultura, Bogotá 1977, p. 266; cfr. pure ibid., p. 92; e Mauro Ronco, Sull’amor di patria, in Cristianità, anno XXVII, n. 285-286, gennaio-febbraio 1999, pp. 11-13, ora in O. Sanguinetti (a cura di), op. cit., pp. 29-33.
(25) Julio César Ycaza Tigerino, Génesis de la independencia hispanoamericana, Editado por la revista Alférez, Madrid 1947; oggi in <w ww.filosofia.org/>.
(26) Cfr. la problematica, in Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it. Garzanti, Milano 2000, pp. 34-35; cfr. pure Robert Cooper, The Post-Modern State and the World Order, Demos, Londra 1996; Idem, L’impero prossimo venturo, trad. it., in Ideazione. Rivista bimestrale di cultura politica, anno nono, n. 1, Roma gennaio-febbraio 2002, pp. 53-63; e Idem, Stati mancati e imperialisti mancanti, trad. it., in Aspenia. Rivista di Aspen Institute Italia, anno 8, n. 16, Roma aprile 2002, pp. 61-69.
(27) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale “Ecclesia in Europa”, del 28-6-2003, n. 110; a commento, cfr. il mio “Europa de cultura christiana”, in Cristianità, anno XXXI, n. 318, luglio-agosto 2003, pp. 3-6.