Giovanni Cantoni, Cristianità n. 327 (2005)
Testo annotato dell’intervento letto il 1° dicembre 2004 a Milano, nella Sala Colonne di Palazzo Affari ai Giureconsulti, in occasione della presentazione dell’opera di Alfredo Mantovano, Ritorno all’Occidente. Bloc-notes di un conservatore, con Introduzione di Giuliano Ferrara e Prefazione di Gianfranco Fini (Spirali, Milano 2004, pp. 312, € 20,00).
Quindici anni fa, il 9 novembre 1989, con l’apertura di una breccia nel Muro di Berlino, il volto politico del mondo è abbondantemente mutato. Meglio: è cambiata la prospettiva politica sul mondo intero, cioè quanto grosso modo cade sotto la voce “politica internazionale”. La percezione di un mondo bipolare si è necessariamente trasformata — è stata costretta a trasformarsi — in una percezione multipolare dello stesso mondo, esito di una strana “matematica” secondo la quale due meno uno non dà uno ma, piuttosto e inequivocabilmente — come propone l’uomo politico statunitense Henry Alfred Kissinger —, almeno quattro, un quattro costituito dai “sistemi” occidentale, mediorientale, asiatico — a sua volta suddivisibile in quattro “sottosistemi”: Cina, Giappone, India e Russia — e africano (1). Inoltre, a un modello bipolare principalmente politico-militare a background ideologico, esteso a tutto l’orbe terracqueo, è subentrato un modello soprattutto politico-culturale. E tutti stiamo cominciando — è d’obbligo l’incoativo, cioè l’uso dell’azione del verbo che ne sottolinea l’inizio —, tutti stiamo cominciando — dicevo — più o meno rapidamente, soprattutto “meno rapidamente”, ad avere una percezione geoculturale del mondo stesso, a trovarci a parlare di aree culturali, di “grandi aree” culturali. Dopo l’11 settembre 2001 a New York, negli Stati Uniti d’America, dopo l’11 marzo 2003 a Madrid, nel Regno di Spagna, e dopo il 3 settembre 2004 a Beslan, in Ossezia, nella Federazione Russa, anzitutto da proteggere militarmente, quindi da organizzare o da ri-organizzare politicamente.
Dieci anni fa, il 27 marzo 1994, il volto politico dell’Italia, del popolo organizzato nella Repubblica Italiana, è altrettanto abbondantemente cambiato. Dopo Tangentopoli a partire dal 1992 e dopo l’introduzione del regime elettorale maggioritario nel 1993, la cosiddetta “scesa in campo” del cav. Silvio Berlusconi ha mutato il quadro politico nazionale in modo significativo. Infatti il nuovo collage, benché evidentemente costruito con importanti e maggioritari brandelli del quadro precedente — né poteva essere diversamente in assenza, felice, di epurazioni di massa o addirittura di stragi —, ha rivelato una novità strutturale, quella di essere segnato dalla presenza di un protagonista di estrazione non politica né, tanto meno, direttamente partitica qual è lo stesso cav. Berlusconi, e di altri attori comparsi — contestualmente o in tempi successivi — per la prima volta sulla scena politica nazionale e pure non provenienti dalla militanza partitica. Fra essi si situa l’on. Alfredo Mantovano, eletto come indipendente nelle liste del Polo delle Libertà e del Buon Governo appunto nel 1996, e che ha aderito ad Alleanza Nazionale solo nel 1997. Quindi è ancora “in ombra” sia in occasione della costituzione di AN nel 1994, sia al momento cruciale della svolta di Fiuggi nel 1995, e non è noto alle cronache politiche neppure giovanili.
Entrambi i mutamenti brevemente evocati vengono talora altrettanto brevemente sintetizzati nella formula “crollo delle ideologie”, un crollo intellettualmente percepito, con notevole sensibilità culturale e con encomiabile capacità previsionale, non profetica, dal sociologo statunitense vivente Daniel Bell nel 1960 nell’opera La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi (2). E di Bell si dice essere uno dei maestri, uno degli autori di riferimento dei neoconservatori americani. Sia detto di passaggio: la differenza fra prevedere e profetizzare sta, nel primo caso, nell’immaginare il possibile svolgimento venturo di elementi presenti nell’attuale contesto socio-culturale, nel secondo caso nel descrivere esiti futuri radicalmente infondati in tale contesto.
Purtroppo decenni — forse secoli — d’immersione a bagnomaria in un contesto ideologico fanno sì che il cambiamento venga tradotto nella formula o sia considerato equipollente alla formula, assolutamente erronea, secondo la quale il crollo delle ideologie equivale alla scomparsa delle idee e degl’ideali. Quando è vero esattamente il contrario. L’egemonia, la tirannia di un’unica idea, ché questo è il fatto dell’ideologia, assunta come interpretazione e come cifra appunto unica della realtà — nel caso, della realtà politica internazionale e nazionale —, viene rovesciata dai fatti: la realtà entra in collisione con il progetto che la riguarda ma non si confronta con essa, anzi, tenta perfino di produrla artificialmente, di “costruirla”, con il progetto che — comunque — prova almeno a ingabbiarla; il vino nuovo spacca gli otri vecchi (3). E “nascono”, fanno la loro comparsa, uomini “colpiti dalla realtà” oppure fanno la loro comparsa — novità apparente sì che meglio sarebbe esprimersi in termini di “ri-comparsa” —, cioè cominciano nuovamente a rilevare, dopo una lunga parentesi storica, ad avere di nuovo rilievo sociale uomini che non hanno mai abbandonato la realtà, ma che questa fedeltà alla realtà ha fatto classificare per lunghi lassi di tempo come “selvaggi”, come estranei, come “indomati” — meglio sarebbe stato “indomiti” —, come non convertiti all’ideologia e alla prospettiva ideologica e costruttivistica.
I parametri che ho descritto sono utili per accostare l’opera Ritorno all’Occidente. Bloc-notes di un conservatore e il suo autore, l’on. Mantovano. In un “mondo libero” che si riscopre Occidente — luogo del tramonto oppure, piuttosto, luogo del compimento, della realizzazione se non della “perfezione”? —; in un’Italia alla quale sono improponibili abiti vecchi ma, soprattutto, obsoleti — piuttosto, di nuovo e dantescamente, qualificabile come “giardino” di una grande area culturale, “seminario” di un’area imperiale (4) —, possono riemergere idee e ideali. Né turbi il riferimento a un impero, ché pare non esservi niente di più puntuale e di più attuale (5). E la politica può ritornare — sempre incoativamente — a essere esercizio della classica virtù della prudenza (6). E — ancora — la prudenza non è la pratica, se non addirittura la tecnologia, del compromesso, ma sforzo, talora eroico — il che significa “determinato fino al sacrificio della vita”, non obbligatoriamente cruento —, di declinare i princìpi — senza intaccarli — non in proclami o in manifesti — oppure almeno non solo in proclami o in manifesti —, ma in azioni possibili. Certo, la verità non cambia, la verità non ha storia: la storia della verità è solo storia della nostra comprensione della verità. Michele Federico Sciacca (1908-1975), uno dei maggiori filosofi italiani del secolo XX, ha scritto: “Non c’è storia della verità, ma dell’umana scoperta di essa” (7), Ma se i princìpi non cambiano né possono cambiare in quanto iscritti nella natura dell’uomo “essere vivente sociale”, tali princìpi, i princìpi di diritto naturale — proposti sinteticamente nel decalogo ma non rivelati nel decalogo —, necessitano di essere trattati come princìpi, cioè come punti di partenza cui far riferimento nell’accostare i fatti, i fatti nella palude della storia, nel mare della storia: la palude dei fatti, il mare dei fatti. Ma non è forse vero — la felicissima notazione è dello scrittore e filosofo latino di origine iberica Lucio Anneo Seneca (4/1 a. C.-65 d. C) — che “[…] un’asta drittissima, quando è immersa nell’acqua, appare a chi guarda curva e spezzata” (8)?
Perciò, quando accosterete Ritorno all’Occidente. Bloc-notes di un conservatore non sorprendetevi se non troverete un manifesto, cioè una serie più o meno ben articolata di propositi. Perché è altro: infatti si tratta di una serie di appunti, di una serie di letture, d’interpretazioni, d’ipotesi talora già operative — dopo gli anni d’impegno politico dal 1996 —, nei quali tralucono le tesi corrispondenti, non esposte sistematicamente, ma che verificano l’affermazione di Seneca. Infatti — ancora — si tratta dei princìpi descritti quando si curvano e — in apparenza — si spezzano a contatto con la realtà. Però si tratta di princìpi non compromessi dalle difficoltà realizzative, dalle vischiosità di traduzione in pratica, neppure dall’eventuale fallimento operativo, dall’eventuale mancata realizzazione, ma guardati sempre, utilizzati sempre, appunto, come princìpi. E, se osserverete tali note nell’ottica, nella prospettiva che vi sto proponendo, vi apparirà chiaro che quanto in esse e con esse viene esposto frammentariamente nell’opera costituisce invece un tessuto unitario, un piccolo ma significativo tessuto unitario dei riflessi di “un’asta drittisima” o che — almeno — tale intende essere.
Né turbi quel “conservatore”, di cui spero di aver offerto un’ipotesi di lettura implicita. Che però voglio, conclusivamente, esplicitare citando un brano di uno dei fondatori del Partido Conservador colombiano, José Eusebio Caro Ibáñez (1817-1853): “Siamo conservatori — scriveva il 4 ottobre 1849 — e ci denominiamo così con orgoglio perché vi è molto da conservare, va conservato l’individuo, va conservata la dignità della persona umana, va conservata la famiglia, va conservata la proprietà, va conservato il diritto, va conservata la giustizia, va conservata la società, va conservata la repubblica. Il nome conservatore significa che quanti appartengono al partito vogliono conservare la civiltà, la cultura e i valori essenziali della nazionalità” (9).
Note:
(1) Cfr. Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the Twenty-First Century, ed. riveduta, Free Press, New York 2002, pp. 25-26; la tesi è rielaborata in Vittorio Emanuele Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2003, pp. 63-67.
(2) Cfr. Daniel Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, 1960, trad. it., Sugarco, Milano 1991.
(3) Cfr. Mt. 9, 17: “Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti”; cfr. pure Mc. 2, 22; Lc. 5, 37 e ibid. 5, 38.
(4) Cfr. Dante Alighieri (1265-1321), La Divina Commedia, Purgatorio, canto VI, v. 105.
(5) Cfr., per esempio, Robert Cooper, L’impero prossimo venturo, trad. it., in Ideazione. Rivista bimestrale di cultura politica, anno nono, n. 1, Roma gennaio-febbraio 2002, pp. 53-63.
(6) Cfr. Josef Pieper (1904-1997), La prudenza, trad. it., con prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano 1999; e Russell Kirk (1915-1994), La prudenza come criterio politico, trad. it., a cura di Pio Colonnello e Pasquale Giustiniani, con Appendice di Anthony Costantini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002.
(7) Michele Federico Sciacca, L’interiorità oggettiva, 5ª ed., L’Epos, Palermo 1989, p. 18.
(8) Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, libro VIII, lettera 71, 24, in Idem, Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di Giovanni Reale con la collaborazione di Aldo Marastoni, Monica Natali e Ilaria Ramelli, pp. 819-871 (p. 823).
(9) <www.conservatismocolombiano.org/historia1.htm>, visitato il 30-11-2004.