don Pietro Cantoni, Cristianità n. 322 (2004)
Testo riveduto e annotato della comunicazione Mystère, compréhension et participation, presentata il 20-11-2003 al convegno internazionale liturgico Liturgie, participation, musique sacrée. Centenaire du motu proprio de saint Pie X sur la musique sacrée du 22 novembre 1903, organizzato dal CIEL, il Centre International d’Etudes Liturgiques, dall’associazione Una Voce, dalla parrocchia di Saint-Eugène e Sainte-Cécile e dalla Schola Sainte-Cécile, e svoltosi nella chiesa di Saint-Eugène, a Parigi, dal 20 al 23-11-2003, sotto la presidenza di S. Em. il card. Jorge Medina Estevez, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino, che il 22 ha celebrato una Messa pontificale secondo il rito del 1962.
A partire dal motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, emanato da Papa san Pio X (1903-1914) nel 1903, la nozione di “partecipazione” e di “partecipazione attiva”, “actuosa participatio” (1), risulta uno dei motivi più importanti del Movimento Liturgico (2), se non proprio il motivo dominante e determinante. Certamente esso ha svolto nella Riforma liturgica entrata in vigore nel 1969 un ruolo difficilmente sopravvalutabile.
Mi propongo di riflettere sulla portata di una partecipazione liturgica “cosciente, attiva e fruttuosa” — questi sono i termini della costituzione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium — (3) soprattutto in relazione alla “comprensione” che essa deve necessariamente comportare e alla res nei confronti della quale è necessario partem habere, cioè il mistero liturgico. Si potrebbe affrontare il tema dal punto di vista generale del rapporto d’”intelligenza” che è indispensabile intrattenere — per partecipare attivamente alla liturgia — con tutte le realtà simboliche che la compongono: linguaggio, gesti, oggetti e luoghi.
Ora voglio però affrontare il tema più concretamente — per maggior sintonia con il carattere concreto della liturgia — partendo dall’elemento che, a proposito di comprensione, si presenta come — insieme — il più ovvio e il più problematico: la parola, cioè la lingua liturgica.
In quel capolavoro della letteratura magnoeuropea del secolo XX che è Il Signore degli Anelli dello scrittore e filologo inglese John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), si trova un dialogo assai suggestivo per questa riflessione. Il protagonista Frodo — pur potendo usare una lingua franca — si rivolge agli elfi nel loro antico e arcano linguaggio, che lui aveva appreso dallo zio Bilbo, e l’elfo Gildor allora gli risponde piacevolmente sorpreso: “È bello sentir frasi dell’Antica Lingua sulle labbra di altri viandanti in giro per il mondo” (4). Da notare che una delle pochissime, forse l’unica “preghiera” contenuta in tutta l’opera, è un frammento di un inno in elfico sindarin, una delle tante affascinanti “lingue inventate” di Tolkien: “A Elbereth Gilthoniel!” (5).
Qui s’incontra il concetto di lingua sacra. La lingua sacra può essere concepita come mezzo per esprimere e, quindi, per partecipare a un “mistero”, cioè a un’azione che trascende l’agire comune, “profano”; oppure come strumento di un’azione magica. Da una parte espressione di fede, dall’altra di tecnica e di potere. Un esempio di uso “magico” della parola si trova nel Nuovo Testamento, nell’episodio degli esorcisti ambulanti ebrei, i figli di Sceva (cfr. At. 19, 13-20), dove il santo nome di Gesù, che comprende l’ineffabile nome di Dio accanto al termine “salva”, è usato come talismano per scacciare gli spiriti, quindi senza fede. I Papyri Magici attestano l’ampiezza della diffusione del fenomeno nel mondo antico (6).
Sulla scia della metodologia inaugurata dal fenomenologo e storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986), si possono distinguere due tipi di rapporto con il Sacro: chi cerca l’esperienza del sacro per sé stessa e chi tende a servirsi di esso in un desiderio di potenza; questi due atteggiamenti descrivono fenomenologicamente la differenza fra prospettiva religiosa e prospettiva magica e l’utilizzo di una lingua “antica” può dunque trovarsi soggetto a un possibile rischio: quello di cadere in una prospettiva magica, cioè “cratofanica” (7). Questo uso è attestato e il rischio è quindi reale. Ma non si è per ciò stesso autorizzati a identificare in questo modo l’uso di una lingua antica. Da una parte è possibile un altro utilizzo, non in una prospettiva cratofanica, ma teofanica o epifanica. Dall’altra anche la lingua dei rapporti familiari — la lingua “profana” — può orientare a un’analoga pratica deviante, quella della comunità celebrante che si chiude in sé stessa, che diventa autoreferenziale, in cui il celebrante propizia il prodursi di sentimenti e di emozioni senza prospettiva trascendente e gusta in ciò un ambiguo senso di potenza.
Il cristianesimo non dispone di una lingua sacra (8). In questo si differenzia dal giudaismo, dall’islam e dall’induismo. Le parole di Gesù sono tradotte in greco nel testo canonico del Nuovo Testamento e anche l’Antico Testamento è citato nella versione dei Settanta — iniziata ad Alessandria d’Egitto su richiesta del re Tolomeo Filadelfo (285-247 a. C.) e portata a termine nel secolo II d. C. —, di valore e di significato enormi per il cristianesimo.
Se non conosce una lingua sacra, per il suo carattere strutturalmente universale, come religione del Logos che illumina ogni uomo veniente in questo mondo e che supera quindi escatologicamente lo stadio “etnico” del popolo della promessa, ciò non toglie che anche il cristianesimo conosca più lingue sacre, cioè “antiche lingue”: le lingue liturgiche. Le grandi tradizioni apostoliche dell’antichità cristiana si cristallizzano attorno a lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia. Vi è anzitutto la Tradizione Antiochena con il siriaco — un dialetto dell’aramaico orientale —, la lingua della traduzione detta Peshitta; a questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale — detta anche “assira” o “caldea” —, che in India è divenuta la liturgia siro-malabarese. Vi è poi la Tradizione Bizantina con il greco, la lingua della traduzione dei LXX; a questa tradizione appartengono le liturgie di san Basilio (330 ca.-379) e di san Giovanni Crisostomo (349 ca.-407). Vi è quindi la Tradizione Alessandrina che si esprime in copto: il copto deriva dall’antica lingua degli egiziani e in essa è celebrata la liturgia di san Marco; da questa liturgia — con influssi antiocheni — deriva la liturgia etiopica, celebrata nell’etiopico antico, il ghe’ez. In ghe’ez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi diversi libri apocrifi giunti solo attraverso questa traduzione.
Vi è finalmente la Tradizione Romana, a cui corrisponde ovviamente il latino con la traduzione Vetus Latina e la più nota Vulgata; in questa lingua sono — o furono — celebrate venerabili liturgie: romana, ambrosiana, celtica, gallicana e visigotico-mozarabica.
Si usa spesso, per connotare queste “antiche lingue” o “lingue sacre”, l’espressione “lingua morta”, ma non è esatto. Una lingua non è morta finché è utilizzata. È morto, per esempio, il sumerico, perché ormai è solo oggetto di studio, ma non viene più utilizzato da nessuno. Così come l’antica lingua di Ugarit o dell’impero egiziano. Il latino invece — come il greco, il copto e il siriaco — è ancora utilizzato nella liturgia e anche nei documenti del magistero ecclesiastico. Qua e là fa ancora capolino addirittura come lingua di comunicazione corrente, quindi “viva” a pieno titolo, come nel caso del Giornale Radio finlandese, di cui esiste un’edizione latina.
Altra semplificazione indebita sta nel contrapporre la lingua liturgica al linguaggio “familiare”. Una lingua dispone sempre di diversi registri espressivi. Pur essendo unica conosce il linguaggio dei micro-rapporti familiari, quello dei macro-rapporti pubblici e quello, in generale, delle sfere d’interesse più elevate, in cui rientra anche “il sacro”. Così ci si trova davanti a un’ambiguità quando s’incontra l’espressione “lingua familiare”. Può essere “familiare” perché riguarda l’ambito dei rapporti e delle relazioni più intime oppure perché questo linguaggio ci tocca nell’intimo, quindi ci è familiare. Così, per esempio, per uno studioso di greco, il linguaggio di Omero (secc. VIII-VII a.C. ca.) o di Demostene (384-322 a.C.) può assumere caratteri familiari e far vibrare le corde più intime del cuore assai più del linguaggio di tutti i giorni della sua lingua materna. Può diventare familiare come il linguaggio di un giornalista sportivo per un tifoso di calcio. Una lingua liturgica, anche se antica, anche se diversa dalla lingua materna, può benissimo diventare familiare per chi la pratica, anche se è padroneggiata in modo molto imperfetto o addirittura grossolano nelle sue strutture grammaticali e nel suo bagaglio lessicale.
A questo proposito vale la pena di prender atto di una stranezza: il termine più familiare nel Nuovo Testamento — forse in tutta quanta la Bibbia — è conservato dall’agiografo proprio in una lingua altra rispetto a quella familiare almeno per il lettore. È il famoso caso di Abbà, uno dei pochi termini aramaici conservati come tali nel testo greco (cfr. Mc. 14, 36; Rm. 8, 15; Gal. 4, 6) (9).
La prassi della Chiesa rispetto alle “antiche lingue” nelle varie tradizioni è stata diversa. La Chiesa latina ha mantenuto il latino, anche se in modo non assolutamente esclusivo, almeno nel rito romano, come testimoniano i casi dello slavo con scrittura glagolitica, del cinese mandarino, dell’armeno classico, del georgiano, dell’arabo classico, e così via (10) — dai tempi del pontificato di san Damaso (366-384) fino al Concilio Ecumenico Vaticano II compreso. Sottolineo questo “compreso” anche di fronte — per esempio — alla lapidaria affermazione di Karl Rahner S.J. (1904-1984): “[…] il Concilio è stato la causa dell’abolizione della lingua cultuale latina comune. Senza di esso — sentenzia Rahner —, lo possiamo dire tranquillamente, avremmo ancora il latino come lingua cultuale in tutto il mondo” (11); infatti, se non si può negare che lo sviluppo postconciliare dà ragione al teologo tedesco, è da provare se dia ragione del Concilio, per cui “l’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini” (12). Questo punto — nonostante tutti i tentativi di aggirarlo — rimane una questione ancora aperta di ermeneutica conciliare e postconciliare, la cui portata va oltre la stessa questione della lingua: che cosa vuol dire essere fedeli — o infedeli — al Concilio?
Dal canto suo, la Chiesa bizantina ha sempre ammesso la possibilità di traduzioni totali o parziali. Sono così nate le liturgie bizantino-slava, bizantino-rumena, e così via.
Le Chiese orientali hanno ammesso — nel tempo — traduzioni parziali. Sia i copti, per esempio, che i maroniti, passano alternativamente dall’arabo alla lingua liturgica copta o siriaca.
Si pone qui il non facile problema della traduzione. Che cosa vuol dire tradurre? Il greco hermeneuo significa sia “interpretare” che “tradurre”. Come il latino interpretari. Tradurre è — in ultima analisi — un procedimento linguistico finalizzato a “far comprendere”. Ma, appunto, “che cosa far comprendere”?
Si tratta di un mistero: questo è ciò che dev’essere capito. Ma non è contraddittorio “capire il mistero”? Qui sono indispensabili alcune precisazioni. Anzitutto il mistero della rivelazione biblica non è propriamente una “cosa”, ma un’azione. Un’azione la si capisce propriamente se — almeno in qualche modo — vi si partecipa. Non si deve poi intendere il mistero come ciò in cui “non vi è niente da capire”, ma esattamente come il contrario: “ciò in cui vi è troppo da capire”. Non quindi mistero come realtà “opaca”, come somma di oscurità, ma come eccesso di luce. Il buio è — secondo l’efficace metafora usata da Aristotele (384-322 a.C.) — l’effetto che fa la luce del sole sull’occhio della nottola, cioè dell’animale notturno, del pipistrello o della civetta: “Infatti — nota il filosofo greco —, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte” (13). Davanti all’effetto di buio del mistero si rimane stupiti e quindi silenziosi. Myo in greco vuol dire “tacere” — è un verbo che esprime bene lo sforzo di due labbra che premono l’una contro l’altra — e di lì viene il termine mysterion.
Si tratta quindi di un mistero, ma di un mistero da capire almeno un poco, perché bisogna parteciparvi. Anche qui sarebbe opportuna una distinzione fra capire — o sapere — e comprendere, che non sono affatto la stessa cosa. Per sant’Agostino (354-430), anzi, il comprendere — quando è in gioco il mistero di Dio — diventa paradossalmente un ostacolo per il capire. “Che cosa dunque diremo di Dio, fratelli? Se infatti ciò che vuoi dire lo hai capito, non è Dio. Se sei stato capace di capirlo, hai compreso una realtà diversa da quella di Dio. Se ti pare d’essere stato capace di comprenderlo, ti sei ingannato a causa della tua immaginazione. Se dunque lo hai compreso, Dio non è così; se invece è così, non lo hai compreso” (14). In quest’ordine di cose, infatti, “[…] se comprendi, non è Dio” (15) e “questa devota ignoranza è preferibile a una scienza presuntuosa” (16). Per capire bisogna dunque far attenzione che vi sia qualcosa che non si capisce, pena il non capire del tutto (17)! A sant’Agostino fa eco sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), che riconduce anzi il compito della “comprensione” razionale a evidenziare l’incomprensibilità di Dio: “[…] ha compreso razionalmente che è incomprensibile in quale modo la somma sapienza conosca le cose che ha creato” (18). Viene spontaneo il collegamento con le parole di Papa Giovanni Paolo II, che fissa proprio nel “senso del Mistero” uno degli obiettivi della Nuova Evangelizzazione (19). Il mistero, dunque, va conosciuto come quanto non può essere compreso. La partecipazione segue ovviamente a questa intelligenza, ma — trattandosi di un’azione — l’intelligenza piena dell’azione la si può avere solo partecipandovi. Qui più che altrove vale il “crede ut intelligas”, “credi se vuoi capire” (20), considerando la fede dal punto di vista “performativo”, cioè come actio, che certamente le compete. L’actio ritualis è dunque un momento importante, fontale, del vivere cristiano, proprio in quanto a essa appartiene in radice l’esercizio della fede, dal momento che la Chiesa è istituita “per fidem et fidei sacramenta”, “per mezzo della fede e dei sacramenti della fede” (21).
Un’affermazione può quindi e dev’essere fatta in tutta sicurezza: la Chiesa in tutte le sue tradizioni ammette come plausibile pregare in una lingua che non tutti conoscono (22). La lingua “antica” e relativamente sconosciuta diventa cioè un simbolo liturgico. Un “oggetto” liturgico che si affianca agli altri: altare, vesti, vasi, e così via. Come la traduzione è un procedimento al servizio della comprensione, la lingua un poco “sconosciuta” diventa un dispostivo al servizio del mistero.
A questo punto della riflessione sarebbe però banale e fuorviante concludere che la funzione di una “antica lingua” nel mistero liturgico sia quella di “nascondere” e di propiziare così il senso del mistero. La funzione del linguaggio liturgico in generale non è principalmente quella di nascondere “sotto il velo dei simboli”, come d’altronde suggerisce l’etimologia stessa di “simbolo”, da sun-ballein, “unire”, “accostare”, ma piuttosto il suo contrario: introdurre, far comprendere. Il mistero in oggetto, infatti, è un’azione che viene dall’alto, diversa da quanto si sperimenta nella vita corrente, oscura però non per difetto d’intelligibilità, ma per un suo eccesso, sproporzionato rispetto alle abituali facoltà dell’uomo. Se il mistero non è tale innanzitutto in senso negativo, ma assolutamente positivo, allora la funzione del linguaggio liturgico dev’essere anagogica, elevante. Il luogo del mistero è il chiaroscuro, la soglia tra l’orizzonte abituale delle facoltà umane e un’apertura verso un “oltre” dall’uomo confusamente intuito, ma non compreso e percepito come eccedente le sue disponibilità. Il chiaroscuro può essere crepuscolare o aurorale. Vi è un chiaroscuro ambiguo, dove il polo attraente non è la luce ma l’oscurità, dove l’oscurità si ammanta del fascino sinistro dell’indistinto, dell’indifferenziato, del confuso. A ciò corrisponde spesso una visione del mondo, più o meno nascosta e implicita, di stampo monistico e panteistico. L’unione con il divino è qui colta in modo impersonale, come fusione con l’uno-tutto, come perdita d’identità e regressione dalla coscienza personale. Ma vi è anche un chiaroscuro aurorale, dove il polo d’attrazione è la luce, dove il fascino non è costituito tanto dall’oscurità in sé stessa, quanto dall’affacciarsi di una luce assolutamente eccedente la nostra povera capacità di comprensione e, proprio per questo, annuncio di una bellezza inconcepibilmente grande, grande perché sempre più grande rispetto a ciò che — per quanto grande sia — è pur sempre umanamente misurabile. Il “poco” della luce qui affascina non per la sua limitatezza, ma perché dischiude e apre nella direzione di quel di più, sempre di più, che solo può veramente appagare la sete d’infinito, di luce e di essere dell’uomo. Aristotele a questo proposito ci fa dono di uno di quei rari momenti — nell’insieme delle sue opere esoteriche di scuola, per lo più molto aride — in cui traspare un fugace ma significativo momento passionale e affettivo: “Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano” (23).
In questa prospettiva una comprensione ovvia e scontata, “alla portata”, diventa un oggettivo ostacolo. L’ovvietà nasconde e la conseguente banalità respinge. Ecco allora che l’”antica lingua” non nasconde, ma rivela, nel senso che aiuta a “sollevare il velo” dell’ovvio e del banale, per introdurre al mistero, cioè per svolgere opera autenticamente mistagogica. Già sant’Agostino vedeva nella difficoltà del testo biblico un’essenziale funzione stimolante dell’impegno e della ricerca, senza le quali non vi può essere effettiva ed elevante penetrazione del testo: “Quelli che leggono la Scrittura a cuor leggero vengono tratti in inganno dalle sue molte e svariate oscurità e ambiguità, e prendono una cosa per un’altra. In certi passi non riescono a trovare nemmeno la materia per false congetture: tanta è l’oscurità con cui alcune cose sono state dette che le si debbono ritenere coperte da densissime tenebre. Tutto questo non dubito che sia avvenuto per una disposizione divina, affinché con la fatica fosse domata la superbia umana e l’intelletto fosse sottratto alla noia, dal momento che il più delle volte le cose che esso scopre facilmente le considera di poco conto” (24). Come per san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) l’uso di metafore nella Sacra Doctrina — e di metafore grossolane, tali cioè da suggerire immediatamente la necessità di non fermarsi all’immediato — era funzionale all’elevazione per sensibilia ad invisibilia, che costituisce la struttura di fondo del pensare analogico e quindi teologico (25).
Non ci troviamo qui però, di nuovo, ancorati a una distinzione — quella fra “sacro” e “profano” — che ormai da più parti ci si assicura essere stata definitivamente superata dal cristianesimo? Penso che certamente il cristianesimo abbia superato un certo modo d’intendere il sacro e il profano. Posto l’evento centrale dell’Incarnazione, i termini “sacro” e “profano” non corrispondono più a “immateriale” e “materiale”, “corporeo” e “incorporeo”, secondo la dialettica platonica della Seconda Navigazione (26); non l’ha però annullato, bensì trasposto su un altro e superiore livello: “Siccome infatti la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona, la ragione deve servire alla fede” (27). Dopo Cristo e in virtù dell’Incarnazione e del Mistero Pasquale si apre la prospettiva di un “mondo rinnovato”, che è questo mondo materiale e corporeo trasfigurato e redento, di cui il corpo del Risorto rappresenta l’anticipazione e il compimento. Ma, già durante la vita terrena di Gesù non era “ovvio” riconoscerlo nella sua identità di Figlio naturale di Dio: “Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”” (Mt. 16, 16-17). E anche dopo la Pasqua l’identità del Risorto non è affatto ovvia e il riconoscimento richiede un certo itinerario nella fede (cfr. Lc. 24, 13-35). Se prima della Pasqua faceva problema la divinità di Gesù, dopo la Pasqua sono la sua umanità e l’identità dell’umanità glorificata con l’umanità terrena (cfr. ibid. 24, 36-42). La “differenza”, dunque, rimane e proprio nel mistero liturgico viene espressa e — insieme — superata nel dono della grazia che si compie per mezzo di segni sensibili e nella libera risposta di fede con cui solo vi si può realmente partecipare. Ecco allora che la liturgia mette in opera una simbologia fatta di gesti, oggetti, luoghi e parole “diversi”.
A questo aspetto se ne aggiungono altri a esso coessenziali. La lingua antica può favorire il sun-ballein non solo nel senso della trascendenza e dell’”alterità” del mistero, ma anche in senso sincronico e diacronico. Il mistero della liturgia è il mistero della Chiesa. L’azione liturgica non è mai azione privata, nel senso di strettamente individualistica. Pregare avendo coscienza che così — esattamente con le stesse parole — hanno pregato generazioni e generazioni di cristiani nel lontano e ininterrotto fluire di una tradizione liturgica costituisce certamente un forte aiuto a nutrire questo importante senso liturgico, un aiuto a cogliere, nel variare dei modi e delle forme, “la perennità della tradizione” (28). Così come scoprire una profonda unità nella preghiera, anche attraverso il visibile vincolo di un linguaggio comune, da parte di soggetti che appartengono a tradizioni linguistiche molto lontane, può essere visto come un rinnovarsi del miracolo della Pentecoste, che è il miracolo della Chiesa delle genti. Ricordo ancora con emozione il giorno in cui, nel 1987, durante una lunga giornata di confessioni all’aperto accanto alla chiesa di Medugorje, mi si avvicinò un anziano signore dicendomi: “Ego sum sacerdos hungaricus, volo confiteri…”.
Nel cammino accidentato del Movimento Liturgico vi è stata anche una serrata polemica sui rapporti fra preghiera personale e preghiera comunitaria. Penso che i protagonisti della polemica — Maurice Festugière O.S.B. (1870-1950), Jean-Joseph Navatel S.J. (1863-1935), Odo Casel O.S.B. (1886-1948) e altri — non siano riusciti a mantenere sempre un corretto equilibrio nel modo di affrontarla; il problema però è reale e coinvolge la difficile questione di porre in una relazione soddisfacente il momento personale e soggettivo con quello comunitario e oggettivo della vita cristiana, che è — per tutti — chiamata a un’unione mistica con Dio. Indubbiamente l’oggettività di un linguaggio antico e condiviso può svolgere un ruolo importante.
La lingua antica ha anche una certa relativa fissità. Il linguaggio della vita di tutti i giorni presenta — da sempre, ma oggi con velocità crescente — una mobilità e una plasticità sconcertanti. Ora, il mistero che dev’essere liturgicamente rivissuto è eterno nella sua origine e definitivo nella sua orientazione escatologica: “Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4, 18). L’evento centrale della liturgia — cioè il mistero pasquale della morte e risurrezione del Signore — ha qualcosa di ormai immutabile e insuperabile. Il Catechismo della Chiesa Cattolica descrive ciò in termini estremamente efficaci e persuasivi: “Nella Liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principalmente il suo Mistero pasquale. Durante la sua vita terrena, Gesù annunziava con il suo insegnamento e anticipava con le sue azioni il suo Mistero pasquale. Venuta la sua Ora, egli vive l’unico avvenimento della storia che non passa: Gesù muore, è sepolto, risuscita dai morti e siede alla destra del Padre “una volta per tutte”. È un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma è unico: tutti gli altri avvenimenti della storia accadono una volta, poi passano, inghiottiti nel passato. Il Mistero pasquale di Cristo, invece, non può rimanere soltanto nel passato, dal momento che con la sua morte egli ha distrutto la morte, e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente. L’evento della croce e della Risurrezione rimane e attira tutto verso la Vita” (29).
La traduzione della liturgia nelle lingue “volgari”, soprattutto quando è vissuta come la chiave di volta della comprensione necessaria a una partecipazione attiva, si scontra proprio a questo proposito con una difficoltà enorme. La lingua, qualunque lingua, quando è assunta al ruolo di lingua liturgica tende inevitabilmente a fissarsi, a stilizzarsi e a “estraniarsi” rispetto all’uso comune. Lo si è constatato non solo nei casi della lingua slava e rumena assunte nella Liturgia di San Giovanni Crisostomo, ma anche nella vicenda dei riti della Riforma: il tedesco e l’inglese liturgico — come quello della Bibbia di Martin Lutero (1483-1546) e della King James Version (1611) — si sono allontanati molto presto dai corrispettivi parlati. Ora, se lo scopo non è quello di dar vita a una nuova tradizione liturgica, ma quello di rendere la liturgia “familiare”, nel senso d’”immediatamente comprensibile”, si profila la necessità di una continua rincorsa del linguaggio parlato, che sempre sfugge. Le traduzioni si devono moltiplicare e — infine — diventare qualcosa come “traduzione permanente” (30). Un po’ come la “rivoluzione permanente” delle Guardie Rosse di Mao Zedong (1893-1976) nella terribile stagione della Rivoluzione Culturale cinese, cominciata nella seconda metà degli anni 1960.
Qui si profilano con sufficiente chiarezza due concezioni alternative e contrapposte di participatio actuosa. Essendo chiaro e fuori discussione che una partecipazione attiva liturgica non si può ridurre di norma a qualcosa di puramente interiore — e questo per la natura stessa della liturgia — si può puntare principalmente sulla variazione delle espressioni liturgiche, per renderle sempre più in consonanza con quanto è “familiare”, cioè in sintonia con il comportamento secolare, con l’ovvio e lo scontato della vita di tutti i giorni in una società che si è progressivamente spogliata di ogni visibile riferimento al sacro; oppure sulla formazione liturgica, cioè sulla mistagogia. In quest’ultimo caso “si tratta di rendere capace la comunità di partecipare attivamente alla liturgia e non di “formare” la liturgia secondo il principio della partecipazione attiva di tutti in quanto principio ultimativo” (31). L’esperienza pastorale insegna che il puntare sulla variabilità e sulle variazioni in genere porta piuttosto a scoraggiare che a favorire la partecipazione: “Un’eccessiva varietà è nemica di ogni partecipazione popolare” (32). Negli anni 1990 qualcuno è giunto persino a proporre di editare un nuovo Messale ogni 25/30 anni (33). L’accelerazione del tempo che caratterizza il mondo contemporaneo fa pensare però che i tempi siano inesorabilmente destinati a restringersi. Non si profila forse, allora, l’inquietante immagine di un fedele che, all’ingresso della Chiesa parrocchiale, si vede porgere un foglio contenente non gli avvisi del giorno, ma il Messale del giorno? Se tale prospettiva si dovesse però realizzare, allora sarebbe proprio la morte di quella viva ed efficace partecipazione che ci si era pur proposti come scopo all’inizio del processo.
Il filosofo e teologo italiano don Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), che si può ascrivere a pieno titolo fra i personaggi non secondari delle vicende del Movimento Liturgico, lamentava nel 1848 una situazione di separazione del popolo dal culto e auspicava un’attiva partecipazione di tutti i fedeli — clero e popolo — alla liturgia. È uno dei temi da lui trattati nella famosa opera Delle cinque piaghe della santa Chiesa (34). Prendendo spunto da una metafora utilizzata da Papa Innocenzo IV (1243-1254), paragona la situazione della Chiesa del suo tempo — come faceva Innocenzo IV per la Chiesa del suo — al Crocifisso e — contemplandone le cinque piaghe — le riferisce ad altrettanti aspetti della crisi di cui il Corpo di Cristo soffre. La piaga della mano sinistra è la lontananza del popolo dalla liturgia anche a causa della lingua liturgica, il latino da esso non più conosciuto. Comunemente, la posizione di Rosmini è stata interpretata come proposta pura e semplice di tradurre la liturgia nelle lingue volgari ma, in realtà, la sua posizione è ben più profonda e articolata. Le difficoltà di una traduzione e dell’abbandono dell’antica lingua liturgica non erano assolutamente assenti dalla sua considerazione: “Quantunque noi abbiamo esposto lo svantaggio provenuto dall’esser cessata nel popolo l’intelligenza della lingua latina, tuttavia è alieno dall’animo nostro il pensiero che la sacra liturgia si convenga tradurre nelle lingue volgari” (35). I rimedi proposti da Rosmini erano fondamentalmente due: rafforzare e diffondere l’insegnamento del latino nell’ordinamento scolastico e spiegare al popolo il significato dei riti, anche attraverso libri e sussidi. Bisogna riconoscere che la realizzazione della prima parte del programma presenta oggi difficoltà di ben diversa consistenza rispetto ai tempi di Rosmini.
Se una lingua antica ben si presta a una funzione mistagogica nell’ambito del mistero liturgico, dev’essere però una lingua non del tutto estranea, non “astrusa”. Non è necessario che tutti la conoscano di una conoscenza compiuta e “sufficiente” ad altre funzioni comunicative, ma è certo necessario che alcuni la conoscano bene, fra loro i presbiteri ai quali compete, oltre all’essenziale funzione di agere in persona Christi, anche quella di “presiedere” e, quindi, di guidare l’assemblea liturgica. È necessario che il linguaggio antico sia apprezzato, sia in qualche modo “familiare” anche se non di quella familiarità propria del linguaggio di tutti i giorni. Se in una participatio actuosa compiutamente intesa non rientra solo il partecipare al rito nel suo svolgimento ma anche la formazione previa per poterne cogliere in pienezza lo spirito e la lettera (36), questo è uno dei compiti di una formazione liturgica degna di questo nome e una delle prospettive di quel Nuovo Movimento Liturgico da molti auspicato con crescente convinzione (37).
don Pietro Cantoni
Note:
(1) San Pio X, “Motu proprio” “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, del 22-11-1903, in Ugo Bellocchi (a cura di), Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, vol. VII, Pio X (1903-1914), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 49-56 (p. 50); cfr. pure Giovanni Paolo II, Chirografo per il centenario del “Motu proprio” “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, del 22-11-2003, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 4-12-2003.
(2) Cfr. una storia complessiva, in Olivier Rousseau O.S.B. (1898-1984), Storia del movimento liturgico. Lineamenti storici dagli inizi del sec. XIX fino ad oggi, 1945, ed. it. con importanti aggiunte, Edizioni Paoline, Roma 1961; più recenti Burkhard Neunheuser O.S.B. e Achille Maria Triacca S.D.B. (1935-2002), voce Movimento liturgico, in Idem, Domenico Sartore C.S.J. e Carlo Cibien S.S.P. (a cura di), Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2001, pp. 1279-1293; e soprattutto Arnold Angenendt, Liturgik und Historik. Gab es eine organische Liturgie-Entwicklung? [Liturgia e storia. Vi è stato uno sviluppo organico della liturgia?], Herder, Friburgo-Basilea-Vienna 2001, pp. 17-106.
(3) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra liturgia, del 4-12-1962, n. 11: “scienter, actuose et fructuose”; cfr. A. M. Triacca S.D.B., voce Partecipazione, in Idem, D. Sartore C.S.J. e C. Cibien S.S.P. (a cura di), Liturgia, cit., pp. 1427-1449 con bibliografia; sulla costituzione conciliare, cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica “Spiritus et sponsa” nel XL anniversario della Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla Sacra Liturgia, del 4-12-2003, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 7-12-2003.
(4) John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli, trad. it. di Vicky Alliata di Villafranca, riveduta a cura della Società Tolkieniana Italiana, condotta sulla seconda edizione riveduta britannica del 1966, con la prefazione a quella edizione, ed. it. a cura di Quirino Principe, introduzione di Elémire Zolla (1926-2002) e illustrazioni di Alan Lee, Bompiani, Milano 2003, p. 112.
(5) Ibid., pp. 793-794; dal testo si evince facilmente il carattere d’invocazione e, quindi, di preghiera: “A Elbereth Gilthoniel / o menel palandiriel, / le nallon sí di’nguruthos! / A tiro nin, Fanuilos! [O Elbereth, tu che sei Colei che accese le stelle e che dal cielo guardi lontano, te imploro ora nell’ombra della morte. Rivolgi a me il tuo sguardo, o Semprebianca!]“.
(6) Cfr. Karl Prümm S.J. (1890-1981), Religionsgeschichtliches Handbuch für den Raum des Altchristlichen Umwelt. Hellenisch-Römische Geistesströmungen und Kulte mit Betrachtung der Eigenlebens der Provinzen [Manuale di storia delle religioni nell’area del cristianesimo antico. Correnti spirituali ellenistico-romane e culti con riferimento alla vita propria delle province], Pontificium Institutum Biblicum, Roma 1954, pp. 366-464.
(7) Cfr. Massimo Introvigne, Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo, SugarCo, Milano 2003, p. 10.
(8) Cfr. René Guénon (1886-1951), A proposito delle lingue sacre, in Idem, Sull’esoterismo cristiano, trad. it., Luni, Milano 2004, pp. 9-13; naturalmente, nella prospettiva del perennialismo di Guénon, questo rappresenta un difetto non trascurabile.
(9) Cfr. Joachim Jeremias (1900-1979), Abbà, trad. it., Paideia, Brescia 1968.
(10) Cfr. Jean Michel Hanssens S.J. (1885-1976), Lingua liturgica, in Enciclopedia Cattolica, vol. 7, coll. 1377-1382.
(11) Karl Rahner S.J., Il significato permanente del Concilio Vaticano II, 1979, trad. it., in Idem, Sollecitudine per la Chiesa. Nuovi Saggi. VIII, Edizioni Paoline, Alba (Cuneo) 1982, pp. 362-380 (p. 365).
(12) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra liturgia, cit., n. 36, § 1: “Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur”.
(13) Aristotele, Metafisica, libro secondo, 993 b 9-11, trad. it. con saggio introduttivo, testo greco con traduzione a fronte e commentario a cura di Giovanni Reale, ed. maggiore rinnovata, vol. II, Testo greco con traduzione a fronte, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 71.
(14) Sant’Agostino, Sermo LII, 6, 16, trad. it., Discorso 52. Sulla Trinità, in Idem, Discorsi. II/1 (51-85). Sul Nuovo Testamento, testo latino dell’edizione maurina e della edizione postmaurina, traduzione e note di Luigi Carrozzi C.R.S., Città Nuova, Roma 1982, pp. 58-85 (p. 75).
(15) Idem, Sermo CXVII, 3, 5, trad. it., Discorso 117, in Idem, Discorsi. III/1 (117-150). Sul Nuovo Testamento, testo latino dell’edizione maurina e della edizione postmaurina, traduzione di Marcella Recchia O.S.A., indici di Franco Monteverde O.S.A., Città Nuova, Roma 1990, pp. 2-27 (p. 7).
(16) Ibidem.
(17) Cfr. Idem, De anima et ejus origine, 4, 11, 15, trad. it., L’anima e la sua origine, in Idem, Natura e grazia. II. Gli atti di Pelagio. La grazia di Cristo e il peccato originale. L’anima e la sua origine, testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, introduzioni e note di Agostino Trapè O.S.A. (1915-1987), traduzioni di Italo Volpi, indici di F. Monteverde O.S.A. e Idem, in appendice Frammenti riuniti di opere pelagiane, Città Nuova, Roma 1981, pp. 287-479 (p. 439): “Intellige quid non intelligas, ne totum non intelligas”, “[…] cerca con la tua intelligenza di capire che cosa vada al di là della tua intelligenza”.
(18) Sant’Anselmo, Monologion, 5, 64, trad. it., Monologio, in Anselmo d’Aosta, Monologio e Proslogio. Gaunilone Difesa dell’insipiente. Risposta di Anselmo a Gaunilone, testo latino a fronte, introduzione, traduzione, note e apparati di Italo Sciuto, Bompiani, Milano 2002, pp. 5-229 (p. 191).
(19) Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al primo Convegno nazionale sul tema Missioni al Popolo per gli anni ’80, del 6-2-1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 1, pp. 233-237 (p. 236): “Soprattutto oggi bisogna far sentire ed inculcare il “senso del Mistero””.
(20) Cfr. Sant’Anselmo, Proslogion, trad. it., in Idem, op. cit., pp. 310-315 (p. 315): “Neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam”, “Infatti non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere”.
(21) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIIa, q. 64 a. 2.
(22) La verità di questa affermazione, oltre che dalla prassi liturgica, è ricavabile anche da esplicite prese di posizione del Magistero: cfr. Concilio di Trento (1545-1563), Sessione 23a, cap. 8 e can. 9, in Heinrich Denzinger (1819-1883), Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue, a cura di don Peter Hünermann, trad. it., EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1995, nn. 1749 e 1759; e Pio VI (1775-1799), Costituzione “Auctorem fidei” a tutti i fedeli, del 28-8-1794, ibid., n. 2633.
(23) Aristotele, Parti degli animali, I, 5, in Idem, Parti degli animali. Riproduzione degli animali, trad. it., 2a ed., Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 1-149 (p. 21).
(24) Sant’Agostino, De doctrina christiana, II, 6, 7, trad. it., La dottrina cristiana, testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, introduzione generale di don Mario Naldini (1922-2000), Luigi Alici, Antonio Quacquarelli (1920-2001) e Prosper Grech O.S.A., traduzione di Vincenzo Tarulli, indici di F. Monteverde O.S.A., Città Nuova, Roma 1992, p. 65.
(25) Cfr. san Tommaso d’Aquino, op. cit., Ia, q. 1, a. 9 c. e ad 3.
(26) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, vol. 1, Antichità e Medioevo, La Scuola, Brescia 1985, pp. 97-99.
(27) Cfr. san Tommaso d’Aquino, op. cit., Ia, q. 1, a. 8 ad 2.
(28) A. M. Triacca S.D.B., voce cit., p. 1437.
(29) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1085; la sottolineatura è mia.
(30) Cfr. Winfried Haunerland, Liturgiesprache [Lingua liturgica], in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 6, Herder, Friburgo in Brisgovia 1997, coll. 988-989.
(31) Don Michael Kunzler, La liturgia all’inizio del terzo millennio, in Comitato Centrale del Grande Giubileo dell’anno 2000, Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, a cura di mons. Rino Fisichella, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 217-224 (p. 223).
(32) Archimandrita Robert F. Taft S.J., L’apport des liturgies d’Orient à l’intelligence du culte chrétien, in Paul De Clerck (a cura di), La liturgie lieu théologique, Beauchesne, Parigi 1999, p. 112.
(33) Cfr. Reinhard Meßner, Eduard Nagel e Rudolf Pacik (a cura di), Bewahren und erneuern. Studien zur Messliturgie f. H. B. Meyer z. 70. Geburtstag [Conservare e rinnovare. Studi sulla liturgia della Messa per festeggiare il 70° compleanno di Hans Bernard Meyer S.J. (1924-2002)], Tyrolia, Innsbruck-Vienna 1993, cit. in Vincenzo Raffa F.D.P., Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Centro Liturgico Vincenziano, Roma 2003, 2ª ed., p. 11, n. 4.
(34) Cfr. Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della santa Chiesa, 1848, a cura di Alfeo Valle I.C., 2a ed. riveduta, in Opere edite ed inedite di Antonio Rosmini, vol. 56, Istituto di Studi Filosofici, Roma-Centro di Studi Rosminiani, Stresa (Verbania) e Città Nuova Editrice, Roma 1998.
(35) Ibid., p. 64
(36) A. M. Triacca S.D.B., voce cit., pp. 1433 e 1442-1444.
(37) Cfr. il mio Per un “nuovo” movimento liturgico, in Cristianità, anno XXX, n. 309, gennaio-febbraio 2002, pp. 5-14 e 16-18.