Da Il Foglio. Foto da vaticannews
A furia di rincorrere la cronaca si rischia spesso di perdere di vista altre vicende non meno, anzi diciamo sicuramente più importanti di una pur grave epidemia. Ad esempio, il fatto che un uomo, un principe di santa romana chiesa, al secolo George Pell già capo della Segreteria per l’Economia, stia scontando una condanna a sei anni di carcere nella prigione di massima sicurezza di Barwon, in Australia, a seguito della sentenza emessa a dicembre 2018 che lo ha riconosciuto – dopo un processo a dir poco grottesco e nonostante una ventina di testimoni a favore -colpevole quando era arcivescovo di Melbourne di aver abusato nella sacrestia della cattedrale di Saint Patrick di due membri del coro all’epoca (1996) tredicenni. Dopo un primo appello respinto ad agosto 2019, a novembre dello stesso anno l’Alta corte di Canberra ha accettato il secondo ricorso del card. Pell, che ora verrà nuovamente – e definitivamente – giudicato. La Corte suprema australiana ha fissato per oggi e domani l’udienza dove sarà ridiscusso il caso. E c’è solo da sperare che stavolta le cose vadano diversamente da come la vicenda è stata gestita, soprattutto durante il primo processo, e che ha portato a una delle condanne più assurde della storia recente dove un acre e pungente odore di fumus persecutionis è stato avvertito da più parti. Che sia in atto una vera e propria caccia alle streghe, con Pell nella parte del classico capro espiatorio, ne è convinto, tra gli altri, una delle voci più autorevoli del giornalismo aussie. Stiamo parlando di Andrew Bolt, conduttore su Sky News del seguitissimo show “The Bolt Report” nonché del più seguito blog politico del paese. In una recente intervista a Tempi, Bolt non ha usato mezzi termini per descrivere cosa stia succedendo: “Sta pagando (il card. Pell, ndr) sulla sua pelle l’odio sempre più diffuso in questo paese verso il cristianesimo e i conservatori in generale. E’ incredibile che questo processo sia arrivato all’Alta corte perché non è solo improbabile che il cardinale abbia commesso gli abusi dei quali viene accusato, è letteralmente impossibile”. E perché sia impossibile Bolt – tra l’altro dichiaratamente agnostico e, quindi, insospettabile di qualsivoglia partigianeria – lo spiega subito dopo squadernando le prove dell’innocenza del card. Pell. Prima fra tutte, la prova cosiddetta “cronometrica”. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto Bolt cita una serie di “fatti inusuali” che “sarebbero dovuti accadere, e ancora più improbabile, sarebbero dovuti accadere tutti contemporaneamente”. Tra questi, il fatto che “Il cardinale sarebbe dovuto essere così pazzo da assalire due giovani nello stesso momento in una stanza con la porta aperta, la sacrestia, sapendo che quella stanza al termine della messa di solito brulica di gente”. Non solo. Pell avrebbe dovuto anche “…con grande temerarietà, assalire due ragazzi che non conosceva, senza sapere se i loro genitori erano avvocati o poliziotti che magari li stavano aspettando fuori dalla chiesa o dalla sacrestia”. E ancora: “Avrebbe dovuto in qualche modo riuscire a tenere i due giovani fermi con una mano, mentre con l’altra cercava di tirare fuori i genitali dalle mutande coperte da due strati di paramenti vescovili.
Avrebbe dovuto anche, nel caso del secondo assalto, essere così stupido da aggredire un ragazzo in un corridoio stretto davanti a più di 50 persone. E nessuno di loro avrebbe dovuto accorgersene”. A questo punto Bolt ricorda poi il fatto forse più assurdo di tutta questa vicenda, ossia che “…uno dei due giovani disse a sua madre di non essere mai stato abusato. L’unica ‘vittima’ che accusa il cardinale non è stato poi in grado di ricordare la data esatta in cui è stato abusato, ha dichiarato che il vino liturgico che voleva trafugare era rosso (mentre in realtà era bianco) e che non stava bene mentalmente”. Caso mai non fosse chiaro: dei due presunti abusati, uno (morto nel frattempo per overdose prima che il caso esplodesse, ndr) ha detto alla madre di non esserlo mai stato, e l’altro – di cui, a rendere ancora più inverosimile tutto il castello accusatorio, non è mai stata rivelata l’identità (sic!) – non ha ricordato quando il fattaccio sarebbe avvenuto ed era pure “confuso”, diciamo così, circa l’oggetto della sottrazione che voleva compiere. Fin qui l’antipasto. Il piatto forte di Bolt a sostegno dell’innocenza del cardinale sta infatti nella già citata prova “cronometrica”. Secondo l’accusa l’abuso sarebbe avvenuto in sacrestia, nei cinque o sei minuti successivi alla messa quando questa era vuota, e sarebbe durato cinque minuti. Ma, sottolinea Bolt, “l’accusatore ha sostenuto che dopo la messa ha partecipato alla processione del coro e con tutti gli altri membri è uscito dalla cattedrale e ha fatto il giro per raggiungere l’entrata posteriore. A quel punto si è staccato dal coro, è tornato indietro verso un’entrata laterale della cattedrale e da lì è entrato in sacrestia, dove lui e il suo amico hanno trovato il vino liturgico, prima che Pell li sorprendesse. Io ho rifatto lo stesso identico percorso e, cronometro alla mano, posso dire che ci vogliono circa cinque minuti e mezzo. Dunque, non c’era più tempo materiale per l’abuso”. Questo è il primo elemento: se è vero quel che dice l’accusatore, il cardinale non aveva tempo materiale per commettere l’abuso. Ma c’è anche un altro elemento che gioca a favore di Pell, ed è che la sacrestia non poteva essere vuota. Spiega infatti Bolt: “Quando i due giovani hanno lasciato il coro, i chierichetti in testa alla processione erano ad appena 10 o 15 secondi di distanza dalla sacrestia, dove dovevano riportare la croce. E’ impossibile che non siano entrati in sacrestia prima dei due ragazzi. Di conseguenza, la sacrestia non poteva essere libera affinché Pell abusasse dei due giovani per cinque minuti”. Insomma, per Bolt gli elementi che dimostrano l’innocenza del cardinale Pell ci sono tutti, sono lì, impossibile non vederli. Se ciò fino ad ora non è accaduto è perché evidentemente non si voleva che accadesse. Col risultato di aver messo un innocente in galera e, attraverso di lui, la chiesa intera alla gogna. E dire che proprio dall’Australia neanche tanto tempo fa è arrivata una notizia che avrebbe dovuto e dovrebbe far riflettere, e parecchio, tutti coloro che ogni due per tre inarcano inorriditi il sopracciglio davanti a casi di presunta pedofilia nella chiesa. Si dà infatti il caso che dopo ben cinque anni di lavoro il rapporto finale della Royal Commission, l’organo creato ad hoc in Australia per indagare sui casi di pedofilia e più in generale su tutti gli ambiti in cui un minore può interagire con un adulto (sia esso insegnante, medico, allenatore, psicologo, ecc.) ha stabilito, tra le altre cose, non solo che il 95 per cento di tutti gli abusi avviene all’interno della famiglia, ma anche che, udite udite, il celibato non porta a comportamenti di abuso in senso strettamente causale. A riprova, il fatto che il 99,9 per cento degli abusatori non viveva una vita celibataria. Questo per ribadire un paio di verità spesso e volentieri omesse dalla narrativa mainstream: a) la pedofilia, numeri alla mano, resta un fenomeno assolutamente marginale e statisticamente irrilevante tra le fila del clero, con buona pace dei sanculotti in servizio permanente effettivo secondo cui accusa = condanna; b) checché se ne dica la chiesa, già a partire dal pontificato di Wojtyla (come ebbe a ricordare in un’intervista a Repubblica l’ex portavoce Navarro Valls), ha fatto passi da gigante nella lotta alla pedofilia, mentre non risulta che altre istituzioni abbiano fatto altrettanto. Oltretutto, c’è un aspetto che va tenuto ben presente tutte le volte che la pedofilia viene associata alla chiesa, ed è che il brodo di coltura di certo prurito moralizzatore è lo stesso della “mitica” rivoluzione sessuale di sessantottarda memoria che, tra le altre cose, puntava (e punta) proprio alla “normalizzazione” della pedofilia (leggere per credere, tanto per fare un esempio, il documentatissimo e agghiacciante saggio “Unisex”, scritto a quattro mani da Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, in particolare il capitolo 9 su “Ideologia gender e pedofilia”); dal che suona intollerabilmente ipocrita lo scandalo di quegli ambienti che vorrebbero la pedofilia un orientamento sessuale come gli altri salvo poi stracciarsi le vesti quando questo orrendo peccato (perché di questo si tratta) riguarda qualche uomo di chiesa. Al solito, due pesi e due misure. Tornando alla storia da cui siamo partiti, a far pesare il sospetto che tutta l’operazione sia stata una messinscena orchestrata ad hoc, c’è anche il fatto – è ancora Bolt a ricordarlo – che sul card. Pell la polizia cominciò a indagare “un anno prima di ricevere la denuncia per abusi. La polizia era alla ricerca di qualcuno che si lamentasse di lui. Questo basta a far capire che voleva far condannare Pell e che non è mai stata imparziale”. I motivi di questa implacabile caccia alle streghe, tale da rendere la vicenda in questione molto simile al più celebre “affaire Dreyfus”, con il cattolico Pell al posto dell’ebreo Dreyfus, se per un verso sono ascrivibili ai “…peccati e ai crimini commessi dalla chiesa negli ultimi 50 anni, durante i quali molti sacerdoti hanno abusato sessualmente di bambini”, dall’altro e più in generale si spiegano perchè “…c’è un odio diffuso verso il cristianesimo e i conservatori. George Pell non era solo un leader della chiesa forte, ha avuto anche il coraggio di criticare la nuova religione del riscaldamento globale, che qui è fortissima. Molti media lo detestano per questo e gliel’hanno giurata”. Per Bolt, come per tantissimi altri, non ci sono dubbi: il processo non andava neanche fatto, mancando del tutto anche solo i presupposti per portare Pell alla sbarra (il quale, sia detto a suo merito, in questa prova terribile ha sempre tenuto un atteggiamento di assoluta compostezza e dignità, testimoniando con i fatti prima ancora che con le parole cosa significa ultimamente essere cristiano). Ma così non è avvenuto. E nonostante decine di testimoni a favore i giudici hanno preferito credere all’unico accusatore di Pell, la cui identità resta tuttora ignota al pubblico. Una piccola crepa in questa colossale operazione mediatico-giudiziaria si è aperta il 21 agosto 2019 quando in sede di appello, dei tre giudici chiamati a pronunciarsi due hanno confermato il verdetto ma non il terzo, motivando la sua decisione con una “dissenting opinion” di oltre duecento pagine. Una goccia d’acqua nel deserto, e un gesto oltremodo coraggioso visto il clima ostile. Ma sempre meglio di niente. Ora la palla è nelle mani dei giudici della Corte suprema. Per Bolt le probabilità che Pell venga assolto sono buone. Staremo a vedere. Certo quanto accaduto sino ad ora non lascia ben sperare. Ma mai come in questa occasione siamo pronti a essere felicemente smentiti.
Luca Del Pomo