Roberto de Mattei, Cristianità n. 14 (1975)
Il 1º ottobre 1975 l’Istituto Affari Internazionali di Roma (IAI) rilasciava un comunicato stampa – riportato il giorno seguente da tutti i maggiori quotidiani – in cui si annunciava che l’incontro organizzato dallo stesso IAI e dal Council on Foreign Relations (CFR) “tra una delegazione rappresentativa dell’Italia di oggi e di domani e un’analoga delegazione americana“, che avrebbe dovuto tenersi a New York dal 24 al 26 ottobre, era stato rinviato “a prossima data da definirsi“, dal momento che il dipartimento di Stato americano non avrebbe concesso il visto d’ingresso all’on. Sergio Segre del Partito Comunista Italiano, partecipante con altre illustri personalità all’incontro (1).
Sergio Segre, “ministro degli Esteri” del PCI, era evidentemente l’ospite di maggiore rilievo di un incontro accuratamente preparato fin dall’estate. “Era luglio, meno di tre mesi fa – ricorda la rivista Tempo – Dagli Stati Uniti arrivò a Bellagio in provincia di Como, Zygmunt Nagorski, uno dei sei direttori del Council on Foreign Relations. Da Roma andarono subito a trovarlo alcuni dirigenti del partito. Segre invitò Nagorski a visitare la scuola del PCI a Como. Nagorski pronunciò parole di elogio, poi partì. “Ci vediamo a Nuova York”, pare avesse detto a Segre” (2).
All’incontro di luglio tra il prof. Zygmunt Nagorski e l’on. Sergio Segre, svoltosi nella Villa Serbelloni di Bellagio, sede italiana della Fondazione Rockefeller, aveva fatto seguito una dichiarazione sulla situazione politica italiana, contenente lusinghieri apprezzamenti sul PCI, che, rilasciata dallo stesso Nagorski al New York Times, era stata, per qualche settimana di agosto, al centro dei commenti della stampa europea.
Intervistato da l’Europeo, Nagorski definiva i comunisti italiani “socialdemocratici di tipo nordico, o laboristi sul modello britannico“, auspicando la necessità di un dialogo tra il PCI e gli Stati Uniti. “Sarebbe interessante – concludeva – che questa necessità fosse riconosciuta ed espressa anche da altre forze politiche italiane” (3).
“Gli sviluppi della politica italiana – dichiarava in una successiva intervista a Panorama – sono troppo interessanti perché gli americani possano permettersi di ignorarli. Anche perché possono avere importanti riflessi internazionali: un’Italia, una Spagna influenzate dai comunisti, perfino una Francia retta un giorno da un fronte popolare, potrebbe stabilire nell’Europa occidentale una specie di terza forza politica ed economica sempre meno dipendente dai due blocchi” (4).
Il peso di questo genere di dichiarazioni è evidentemente proporzionale al peso pubblico di chi le rilascia. L’Europeo informa che il Council on Foreign Relations, l’istituzione di cui Nagorski è portavoce, può essere considerata “la più prestigiosa istituzione americana di studi di politica estera” e Nagorski “un personaggio pubblico in piena funzione“. “D’accordo – aggiunge l’articolista – il Council non è il governo americano ma è arcinoto che le sue impressioni, i suoi sondaggi, le sue esplorazioni esercitano una influenza straordinaria nel processo di decisione della politica estera americana” (5). Il corrispondente da New York del Messaggero assicura che l’istituto “esercita una influenza determinante sulla formulazione delle direttive a lunga scadenza della politica estera del paese..” (6); il Corriere della Sera definisce il CFR “il più grande laboratorio di idee di cui dispongano gli Stati Uniti, in materia di problemi internazionali” (7); il CFR è analogamente per Panorama “la più efficiente Think Thank, laboratorio delle idee, di cui dispongano il governo, l’industria e l’alta finanza degli Stati Uniti e, insieme, il foro prescelto dei leaders politici di tutto il mondo, da Willy Brandt a Indira Gandhi (nel 1959 ci andò anche Kruscev), per dibattere con gli americani delicati problemi nella discrezione più assoluta, a porte chiuse” (8).
A questo punto vale la pena, mi sembra, di chiedersi che cosa sia il CFR, questa misteriosa istituzione che, operando “nella discrezione più assoluta, a porte chiuse“, esercita “una influenza straordinaria nel processo di decisione della politica estera americana“; fino a che punto sia interessata alla politica interna del nostro paese, e sia in grado di influire su di essa; che cosa sia l’IAI, l’istituto che in Italia gli assicura appoggio e collaborazione.
In un articolo del noto columnist progressista americano Joseph Kraft, membro del CFR, apparso nel 1958 sulla rivista Harper’s Magazine con il significativo titolo di School for statesmen, viene offerta una rara panoramica su “the best club in New York“, di cui “la maggior parte degli americani non ha mai sentito parlare” (9).
La nascita ufficiale del CFR, ricorda Kraft, va fatta risalire a una serie di incontri svoltisi durante la conferenza di Parigi del 1919 tra un ristretto gruppo di membri delle delegazioni inglese e americana al fine di creare le basi di una svolta in chiave progressista della politica estera dei rispettivi paesi.
Nel 1921 furono così creati il Royal Institute for International Affairs in Inghilterra e il Council on Foreign Relations, branca americana di questo. I finanziamenti necessari furono assicurati dalle fondazioni Ford, Carnegie, Rockefeller. Fu un dono di quest’ultima l’attuale sede del CFR, The Harold Pratt House, 58 East 68th Street in New York, di fronte all’ambasciata sovietica. I legami tra il mondo dell’alta finanza americana (rappresentata soprattutto dai Morgan e dai Rockefeller) e certi ambienti di intellettuali progressisti (Kraft ricorda il nome di Walter Lippman) si intrecciarono del resto immediatamente.
Negli anni tra le due guerre, ma sopratutto con l’amministrazione Roosevelt, il CFR accrebbe gradatamente la sua influenza. Alla conferenza di San Francisco, nel 1945, più di 40 membri della delegazione americana (tra cui John Foster Dulles, Adlai Stevenson, Nelson Rockefeller, John Mc Cloy, Dean Acheson etc.) ne erano membri. Determinante l’apporto dell’istituzione alle conferenze di Teheran, Postdam, Yalta e nella nascita e organizzazione dell’ONU.
L’articolo di Kraft si arresta al 1958 (segnalando una giovane promessa del CFR: Henry Kissinger), ma le sue conclusioni confermano quanto già sapevamo:
“È innegabile che il Council, agendo come un corpo politico organizzato, ha influenzato la politica americana con effetti di ampia portata sul cittadino medio […] Le sue operazioni sono lontane dal controllo pubblico e di fatto refrattarie ad ogni esame dettagliato. Così, almeno in teoria, il Council si avvicina ad essere un organo di quel che C. Wright Mills ha chiamato l’élite al potere – un pugno di uomini, simili per interessi e prospettive, che manovrano gli avvenimenti da posizioni invulnerabili dietro le quinte” (10).
Da quando Kraft scriveva queste righe, sono passati diversi anni, ma il CFR continua, a quanto pare, a essere “the best club in New York” e a costituire il cuore e il presidio del cosiddetto Establishment americano, l’élite supercapitalista che ha i suoi pilastri nelle dinastie dell’alta finanza internazionale (i Rockefeller, i Lazard, i Rotschild), nelle Università di Harvard e di Yale, nelle colonne del New York Times e del Washington Post. Il suo presidente è oggi David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e tra i 1500 membri sono annoverati i nomi più noti del mondo politico, economico e accademico degli Stati Uniti. Democratici come lo storico Arthur Schlesinger, l’economista John Kenneth Galbraith, il politologo Theodore Sorensen; repubblicani come il vicepresidente Nelson Rockefeller, il presidente della Banca Federale Arthur Burns, il direttore del Policy Planning Staff del dipartimento di Stato Zbigniew Brzezinski.
Se è vero che tutte le iniziative del CFR vanno considerate in una luce realmente pubblica, resta da chiedersi quale sia il senso dell’incontro tra Nagorski e Segre e del progettato viaggio di quest’ultimo a New York.
L’Europeo ammette senza difficoltà che il viaggio della delegazione italiana a New York avrebbe avuto “lo stesso significato di consultazione decisiva dell’intervento di Arthur Schlesinger jr. negli anni sessanta, al convegno del Mulino a Bologna, allorché l’eminente giovane storico amico di John Kennedy si fece convincere dagli amici italiani che si doveva dar via libera all’esperimento di centro-sinistra” (11).
Sorge spontanea a questo punto un’inquietante domanda: come è nato il centro-sinistra? La rivista Tempo conferma che “la miccia che fece deflagrare la barriera antisocialista” fu “un piccolo avvenimento“: l’incontro a Bologna, nel 1961, in occasione del convegno de Il Mulino su La politica estera degli Stati Uniti e le responsabilità dell’Europa, tra Arthur Schlesinger Jr., membro del CFR, e consigliere di Kennedy, e il dott. Fabio Luca Cavazza, uno dei fondatori de Il Mulino, strettamente legato alla Fondazione Agnelli. “Cavazza convinse Schlesinger che il centrosinistra era l’unica strada per recuperare i socialisti nell’area democratica. E Schlesinger convinse Kennedy che diede il “via libera”” (12).
L’incontro è ricordato dallo stesso Schlesinger nel suo volume I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca (13). Schlesinger ricorda ancora come dovette condurre “una battaglia senza fine” per imporre l’apertura a sinistra agli esperti della sezione italiana del dipartimento di Stato “convinti che i socialisti nenniani non erano anticomunisti e che il loro successo avrebbe rafforzato l’antiatlantismo in Italia” (14).
Si trattò di una battaglia a lieto fine. “Con la nomina di Averell Harriman a sottosegretario per gli Affari politici, nella primavera del 1963, il problema trovò finalmente una soluzione: con la sua profonda conoscenza delle cose italiane e con le sue capacità direttive, Harriman ebbe la meglio sulla burocrazia. Allorchè, nel dicembre 1963, Nenni e il suo partito entrarono a far parte del governo italiano, anche il dipartimento di Stato era finalmente d’accordo” (15).
Inutile sottolineare come Averell Harriman fosse una figura di primo piano del CFR; gli Schlesinger difendevano ieri l’anticomunismo dei socialisti come oggi i Nagorski difendono il laburismo dei comunisti: il dipartimento di Stato oggi, come ieri, fa qualche difficoltà, di forma più che di sostanza; la battaglia potrà essere lunga, ma “il problema” troverà anche questa volta “una soluzione“. L’incontro con Segre, afferma perentorio Il Messaggero, si farà. “Non alla data prevista (24-26 ottobre) e, se sarà inevitabile, nemmeno nella sede prevista, New York. Ma si farà. I due istituti promotori […] sembrano decisi a superare tutte le difficoltà” (16).
Resta da dire qualcosa, a questo punto, del secondo istituto promotore, il nostro IAI, canale privilegiato per questa nuova apertura. “Si tratta – secondo Panorama – di un organismo privato di studio e ricerca, fondato a Roma nel 1966 che si regge quasi unicamente sui contributi delle associazioni degli industriali, di alcune grosse aziende petrolifere (Esso, Eni, BP) e di qualche banca” (17). Panorama dimentica che l’IAI fu fondato da Altiero Spinelli grazie al cospicuo finanziamento di una fondazione americana e in Italia ha oggi i suoi appoggi più rilevanti nella Fondazione Agnelli e nella casa editrice Il Mulino, che ne pubblica la rivista Lo spettatore internazionale.
Direttore, dal 1970, è Cesare Merlini, un ingegnere industriale di Torino; vicedirettore Stefano Silvestri, scelto – notiamo per inciso – da Newsweek, rivista dell’Establishment americano, come il più autorevole commentatore italiano, assieme all’on. Sergio Segre, della recente conferenza di Helsinki (18).
La figura di maggiore rilievo dello IAI resta comunque, Altiero Spinelli, oggi commissario per la tecnologia e l’industria alla CEE. È noto come Spinelli (cognato di un alto dirigente della Chase Manhattan Bank, la banca dei Rockefeller) abbia apertamente sostenuto in sede comunitaria la necessità di un’apertura al PCI e come abbia offerto la sua mediazione per gli incontri svoltisi a Bruxelles tra l’avvocato Gianni Agnelli e gli onorevoli Sergio Segre e Giorgio Amendola del PCI (19).
Queste manovre di avvicinamento del supercapitalismo internazionale alla setta comunista non devono meravigliarci. Sappiamo che il supercapitalismo, nel suo folle sogno di costruzione di una Repubblica Universale in cui ogni aspetto della realtà sociale sia controllato da pochi operatori economici illuminati, vede il suo reale avversario nella proprietà privata e nella libera iniziativa, e non già nel socialismo di Stato comunista.
Sappiamo d’altra parte che anche il comunismo vede il suo nemico mortale nella proprietà privata e nella libera iniziativa, e non già nel capitalismo monopolista, cercando di far dimenticare che “proprio questo capitalismo lo favorisce e che vuole ereditarlo, chiamando “di Stato” quello che prima è monopolio di pochi, senza chiarire che lo Stato sarà di nuovo di “pochi” travestiti da “tutti”” (20).
Ma, applicandoci a studiare l’analogia dei fini, non dimentichiamo di considerare l’analogia dei mezzi: come i settari comunisti, anche i supercapitalisti, che all’interno della dinamica rivoluzionaria potrebbero essere identificati con i rivoluzionari di velocità lenta di cui parla Plinio Corrêa de Oliveira, non solo esistono e agiscono, ma si organizzano e cospirano. Solo in questa prospettiva potremo comprendere l’”influenza straordinaria” che “nella discrezione più assoluta, a porte chiuse” esercitano “laboratori di idee” e “prestigiose istituzioni” come quelle di cui ci siamo interessati.
ROBERTO DE MATTEI
Note:
(1) IAI, Informazioni per la stampa, Roma, 1º ottobre 1975. “Per l’incontro in questione – comunica ancora l’IAI – erano stati invitati a far parte della delegazione italiana: l’Avv. Gianni Agnelli, Presidente della Confindustria, il Dr. Aldo Bonaccini della CGIL, l’On. Antonio Giolitti del PSI, il Sottosegretario agli esteri On. Luigi Granelli della DC, l’Onorevole Giorgio La Malfa del PRI, il Dr. Arrigo Levi, Direttore de “La Stampa”, il Prof. Cesare Merlini, Direttore dell’IAI, il Prof. Giuseppe Petrilli, Presidente dell’IRI, l’On. Carlo Russo della DC, l’On. Sergio Segre del PCI, il Dr. Stefano Silvestri dell’IAI, il Dr. Bruno Storti, Segretario Generale della CISL, il Dr. Michele Tito, Vicedirettore del “Corriere della Sera” e l’On. Paolo Vittorelli del PSI“.
(2) Tempo, 17-10-1975.
(3) L’Europeo, 11-7-1975.
(4) Panorama, 21-8-1975.
(5) L’Europeo, 5-9-1975.
(6) Il Messaggero, 4-10-1975.
(7) Corriere della Sera, 2-10-1975.
(8) Panorama, 21-8-1975.
(9) JOSEPH KRAFT, School for Statesmen, in Harper’s Magazine, luglio 1958. Varrà la pena di soffermarsi successivamente su quelle che furono le origini non ufficiali, ma reali, del CFR, attingendo al recente prezioso volume del prof. Carrol Quigley, Tragedy and hope, A historv of the world on our time, The MacMillan Company, New York – Collier Mac Millan limited, Londra 1966.
(10) JOSEPH KRAFT, School for Statesmen, cit., p. 68.
(11) L’Europeo, 5-9-1975.
(12) Tempo, 7-8-1975.
(13) ARTHUR M. SCHLESINGER Jr., A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House, Houghton Mifflin Company Boston. The Riverside Press, Cambridge, 1965, tr. it. Rizzoli: Milano 1966.
(14) Ibidem, p. 873.
(15) Ibidem, p. 875.
(16) Il Messaggero, 5-10-1975. Apprendiamo dai giornali che una delegazione parlamentare italiana, comprendente tra gli altri il sen. Franco Calamandrei e l’on. Sergio Segre del PCI, visiterà Washington e altri centri americani, a partire dal 2 novembre.
(17) Panorama, 6-11-1975.
(18) Newsweek, 11-8-1975.
(19) Cfr. ALTIERO SPINELLI, L’Europa farà un prestito all’Italia: ma a quale Italia?, in l’Espresso, 1-9-1974, pp. 6-7. Spinelli capeggiò una delegazione dell’IAI che incontrò nel 1971 a Mosca un’analoga delegazione dell’Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali (IEMRI) sovietico. La commissione italiana era composta da Altiero Spinelli, Cesare Merlini, Stefano Silvestri, Paolo Calzini, Barbara Spinelli dell’IAI; dai deputati Silvio Leonardi del PCI, Luigi Granelli della DC, Luciano De Pascalis del PSI, Vittorio Orilla indipendente di sinistra; dai giornalisti Arrigo Levi della Stampa e Alfonso Sterpellone de Il Messaggero; da Luigi Vittorio Ferraris, funzionario del ministero degli esteri, Alberto Benzoni dell’IRI e Sergio Rossi della Fondazione Agnelli.
(20) GIOVANNI CANTONI, Piccola proprietà e grande capitale, in Cristianità, Piacenza, novembre-dicembre 1974, anno II, n. 8.