Alleanza Cattolica si occupa da decenni della straordinaria figura di Rolando Rivi (1931-1945), il seminarista martire ucciso il 13 aprile 1945, da alcuni partigiani comunisti in provincia di Reggio Emilia: in particolare ricordiamo il pellegrinaggio alla tomba del giovane martire avvenuto il 29 settembre 2002. Oggi, 75 anni dopo il delitto, ci piace ricordare il giovane seminarista, venerato come beato dal 5 ottobre 2013, con l’intervista dell’amico giornalista polacco Wlodzimierz Redzioch con padre Antonio Maffucci, assistente spirituale del Santuario del Beato Rolando Martire nel comune di Castellarano (Reggio Emilia) e membro del Comitato Amici di Rolando Rivi.
D. Siamo nella pieve di San Valentino a Castellarano dove il 7 gennaio 1931 è nato il futuro beato Rolando Rivi. Come era la sua infanzia?
R. La famiglia di Rolando è stata la prima culla della sua umanità e della sua fede. Era una grande famiglia, unita e serena, dove la nonna Anna, mamma del papà di Rolando, Roberto, scandiva il tempo con la preghiera: ogni giorno si recitava insieme il Santo Rosario.
Rolando era un bambino allegro, vivacissimo, sempre in moto, un fuoco ardente. Nessuno riusciva a tenerlo fermo. Entusiasta della vita, intelligente e dotato di una memoria straordinaria, era il più scatenato nei giochi e il più veloce nelle corse, instancabile nell’inventare sempre nuove birichinate e, per questo, il preferito dagli amici per ogni svago.
Osservando quel bambino che non conosceva mezze misure e si gettava con foga in ogni nuova avventura, la nonna Anna ripeteva spesso: “Diventerà un santo o un brigante”. Quando poi terminata la scuola elementare, a 11 anni, dopo averne parlato con il suo parroco, Rolando annunciò in casa che avrebbe voluto continuare gli studi in seminario, la nonna Anna recitò un rosario di ringraziamento, perché era segno che brigante non lo sarebbe diventato.
D. Come era la vita spirituale del giovane Rivi?
R. La spiritualità di Rolando è espressa bene da quattro parole che, dopo l’ingresso in seminario, spesso ripeteva: “Io sono di Gesù”. In questo modo, con la semplicità di un bambino, ma con la profondità di un santo, esprimeva l’essenza stessa dell’essere cristiani: noi apparteniamo al Signore che ci ha creati, che ci ama, che ci attende. La consistenza dell’io è appartenere a Cristo, come un bambino che appartiene al padre e alla madre. Ma queste parole non esprimevano per Rolando solo la chiarezza di un giudizio, ma anche la profondità di una fede diventata amore ardente per il Signore e, in questo amore che sostiene tutta la vita, gioia e passione per la testimonianza. Appartenenza, amore, testimonianza: “Io sono di Gesù”. Tutta la vita di questo ragazzo, sino al martirio, è stata incarnazione di queste parole.
D. San Pio X, il papa dell’Eucaristia ai bambini, un giorno previde: “Ci saranno tanti ragazzi santi e tanti chiamati al sacerdozio, grazie a Gesù Eucaristico adorato e santamente ricevuto da loro”. Si può dire che la vocazione sacerdotale del ragazzo Rolando è nata grazie a questa “pedagogia eucaristica” voluta da san Pio X?
R. Rolando ha fatto la sua prima comunione nella Pieve di San Valentino il 18 giugno 1938. Di quell’evento conserviamo ancora il “ricordino”, con una bella immagine del Cristo, al centro, circondato da bambini, attorno alla mensa dell’altare. Rolando aveva allora sette anni e da quel giorno l’incontro con Gesù eucaristico è diventato per lui un appuntamento quotidiano, partecipando ogni giorno alla Santa Messa. Rinunciare a questo incontro sarebbe stato per lui il più grande sacrificio. La gioia che nasceva dall’amicizia quotidiana con il Signore era in Rolando così prorompente che egli desiderava portarla a tutti. Questo era evidente non solo nei rapporti in famiglia e con gli altri ragazzi, ma anche nella volontà più volte manifestata di voler diventare sacerdote missionario, per condividere l’esperienza cristiana anche con le persone più lontane che ancora non avevano conosciuto il Signore.
Certamente la vocazione al sacerdozio di Rolando trova radici in questa “pedagogia eucaristica”, insieme all’incontro con il suo parroco, Don Olinto Marzocchini (1888-1972), suo primo maestro, uomo di grande umanità, di carità concreta e di profonda spiritualità: i testimoni ricordano che spesso di notte in chiesa rimaneva accesa la luce, perché Don Olinto passava ore in preghiera davanti al Santissimo Sacramento.
D. Come è cambiata la vita di Rolando in seguito all’occupazione tedesca e all’attività dei partigiani “rossi”?
R. Rolando è stato vittima di una delle due “grandi ideologie del male” del secolo scorso, come le ha definite San Giovanni Paolo II: il nazismo e il comunismo.
Nell’estate del 1944 i nazisti occuparono il seminario vescovile di Marola, in provincia di Reggio Emilia – frequentato da Rolando – per farne una base militare lungo la “Linea gotica”. Le attività di quel luogo di formazione religiosa furono bruscamente interrotte sino alla fine della guerra. Tornato a casa Rolando decise però di continuare a studiare e a fare vita da seminarista vestendo sempre l’abito talare. Questa scelta però era diventata pericolosa perché in alcune formazioni di partigiani, in particolare sull’Appennino reggiano e modenese, si era affermata l’ideologia comunista. Queste formazioni partigiane “rosse” avevano maturato il progetto di fare della fine della guerra non il ritorno alla pace e alla libertà (come desideravano i partigiani cattolici amici di Rolando), ma l’inizio di una rivoluzione violenta per affermare con la forza delle armi la dittatura del proletariato in Italia. Di questo progetto faceva parte anche la volontà di cancellare Dio dalla storia e dal cuore dell’uomo, eliminando i più ardenti e coraggiosi testimoni della fede.
Rolando fu ucciso perché testimoniava Cristo in modo così umanamente affascinante da attirare gli altri ragazzi all’ esperienza cristiana e questo l’ideologia comunista non poteva sopportarlo.
D. Perché Rolando, anche fuori dal seminario, ci teneva tanto a portare la veste talare?
R. Rolando amava la sua veste talare da seminarista e non se ne spogliava mai, neanche durante le partite a pallone o quando si arrampicava sugli alberi, perché era il segno visibile della sua appartenenza al Signore e alla sua Chiesa.
D. Cosa sappiamo della dinamica dell’assassinio del seminarista?
R. Rolando fu sequestrato da due partigiani comunisti la mattina del 10 aprile 1945, mentre, dopo essere stato alla Santa Messa nella Pieve di San Valentino, stava studiando da solo ai margini di un boschetto, poco lontano da casa. Privato della libertà e sotto la minaccia delle armi, fu condotto a Piane di Monchio (MO), dove la formazione partigiana, cui appartenevano i due sequestratori, si era acquartierata, in un casolare isolato. Qui il giovane seminarista, ingiustamente accusato, fu insultato, frustato, torturato, seviziato. Infine, venerdì 13 aprile 1945, alle tre del pomeriggio, lo stesso giorno e la stessa ora della morte del Signore, dopo essere stato spogliato a forza della sua veste talare che tanto amava, fu condotto in un bosco vicino al casolare. Quando Rolando capì che i suoi sequestratori non avrebbero avuto pietà, chiese di pregare per il suo papà e la sua mamma. Mentre in ginocchio pregava, il commissario politico di quella formazione partigiana, l’uomo incaricato di indottrinare gli altri all’ideologia comunista, gli sparò due colpi di pistola, uno alla testa e uno al cuore.
D. Che fine ha fatto il corpo martoriato di Rivi?
R. Dopo aver ucciso il giovane seminarista, i partigiani comunisti ne nascosero il corpo in una fossa, coprendolo con terra e foglie secche. Il papà Roberto e il giovane parroco Don Alberto Camellini (1919-2009), stavano cercando Rolando dal momento del sequestro, ma raggiunsero il bosco del martirio solo sabato 14 aprile, quando ormai il terribile assassinio era stato compiuto. Con il cuore trafitto dal dolore e con le lacrime agli occhi, disseppellirono il corpo del ragazzo e, aiutati da alcuni contadini, lo portarono nella chiesa di Santa Maria Assunta, a Monchio. Qui fu celebrato il funerale cristiano e al ragazzo fu data una prima provvisoria sepoltura nel vicino cimitero.
Qualche settimana dopo, a guerra ormai finita, il 29 maggio 1945, il papà Roberto, riportò al suo paese, San Valentino, il corpo del figlio, su un biroccio trainato da un cavallo. Il popolo cristiano gli andò incontro in località Montadella. Da lì, gli amici portarono a spalla la bara sino alla Pieve di San Valentino e spontaneamente riconobbero Rolando come martire della fede. Dopo la celebrazione della Santa Messa il giovane seminarista fu sepolto nel locale cimitero. Il 29 giugno 1997, solennità dei Santi Martiri Pietro e Paolo, i resti mortali di Rolando furono riesumati dal cimitero, traslati all’interno della Pieve di San Valentino e collocati in uno spazio sotto il pavimento della chiesa, un tempo usato per la sepoltura dei Canonici.
Nel maggio del 2014, dopo la Beatificazione e la ricognizione canonica delle reliquie, il corpo di Rolando, avvolto in seta bianca e nastri rossi in un’urna di cristallo, è stato collocato sotto la mensa dell’altare maggiore della Pieve di San Valentino, dove si celebra l’eucaristia. Così avveniva anche nei primi tempi del cristianesimo, quando sopra le reliquie dei martiri era posto l’altare, quasi a fare un corpo unico tra l’Ostia consacrata e il dono totale di sé al Signore. Sul lato anteriore dell’altare un bassorilievo scolpito a mano raffigura la gloria di Rolando in cielo.
D. Come la tragica morte di Rolando fu vissuta nella sua famiglia?
R. La morte di Rolando, il figlio prediletto, fu per i genitori causa di immenso dolore. La mamma Albertina ne fu scossa in modo cosi profondo, nel fisico e nello spirito, da dover rimanere a letto per alcuni mesi, prostrata da una sofferenza indicibile che le impediva anche di camminare. Analogo il dolore del papà Roberto che, dal giorno del ritrovamento del corpo martoriato del suo figliolo, iniziò un cammino sempre più intenso di penitenza e di preghiera, in memoria di Rolando, di cui parlava sempre come di un ragazzo “innamorato di Gesù”.
Attraverso questa domanda quotidiana a Dio e nell’amore al figlio, che per Gesù aveva dato la vita, anche i pensieri di odio e di vendetta, che pure si erano affacciati nel cuore del papà Roberto si dissolsero, aprendo la strada alla possibilità del perdono. Una grazia che si è rinnovata quando, il 15 aprile del 2018, la figlia del partigiano che alzò la mano armata contro il giovane seminarista è venuta qui, nella Pieve di San Valentino e, di fronte al Vescovo della Diocesi di Reggio Emilia, Monsignor Massimo Camisasca, ha chiesto perdono per il gesto compiuto dal papà. A questa domanda i familiari ancora viventi di Rolando (la sorella Rosanna e i cugini Sergio e Alfonso) hanno risposto con l’abbraccio e il dono del perdono.
D. Per cominciare il processo di beatificazione di una persona, la Chiesa richiede una diffusa larga “fama sanctitatis” del candidato agli altari. Tale fama si è verificata anche nel caso di Rolando Rivi?
R. Certamente, sì. Tuttavia, nel dopoguerra, il dominio politico del Partito Comunista in Emilia-Romagna, la Regione in cui si trova San Valentino, insieme all’affermarsi, dopo il ’68, di una cultura dominante di ispirazione marxista, hanno reso molto difficile parlare di certi eventi legati alla Resistenza in Italia. Così la fama di santità del giovane seminarista si esprimeva in modo molto discreto, quasi sotterraneo, ma rimaneva ed era diffusa. Quando però nel marzo del 2004 un gruppo di amici coraggiosi ha indetto a Reggio Emilia un convegno pubblico dal titolo “Rolando Rivi martire bambino”, ciò che era sotterraneo è venuto chiaramente alla luce. La partecipazione di pubblico è stata straordinaria e la grande Sala degli specchi nel teatro cittadino non è bastata a contenere tutte le persone presenti, che hanno gremito anche una sala attigua e parte delle scale di accesso.
Era un segno evidente che il popolo cristiano considerava Rolando come martire e chiedeva implicitamente che il tesoro della sua testimonianza di fede potesse brillare pubblicamente per tutti. Motivati da questo segno, gli organizzatori di quel convegno hanno dato vita al Comitato Amici di Rolando Rivi che ha promosso la causa di beatificazione e che ora continua il suo lavoro per far conoscere il Beato Rolando nel mondo, anche in vista dell’auspicata canonizzazione.
D. Rolando Rivi è stato beatificato il 5 ottobre 2013. Che cosa può dire all’uomo di oggi, particolarmente ai giovani e giovanissimi, questo nuovo beato?
R. Il giorno dopo la beatificazione, all’Angelus di domenica 6 ottobre 2013, Papa Francesco, in Piazza San Pietro, davanti a decine di migliaia di persone, ha definito Rolando con queste parole: “Quanti giovani di quattordici anni, oggi, hanno davanti agli occhi questo esempio: un giovane coraggioso, che sapeva dove doveva andare, conosceva l’amore di Gesù nel suo cuore e ha dato la vita per Lui. Un bell’esempio per i giovani”.
Per tutti noi, per tutti i giovani e i giovanissimi, Rolando è un esempio, un amico vero che, con tutta la semplicità, l’entusiasmo e la concretezza della sua esistenza, ci indica ciò che veramente conta nella vita: appartenere al Signore, amarlo con gioia, testimoniarlo con coraggio. “Io sono di Gesù”.
Martedì, 14 aprile 2020