Carlo Emanuele Manfredi, Cristianità n. 7 (1974)
Le armate rivoluzionarie del Bonaparte discese in Italia nella primavera del 1796 incontrarono non poche spontanee resistenze nelle popolazioni che erano venute a “liberare”. Le insurrezioni che accompagnarono la marcia del pur vittorioso esercito francese e che crearono difficoltà alle municipalità collaborazioniste e alle repubbliche giacobine della penisola, rappresentano ancora per la nostra storiografia ufficiale un argomento fastidioso e imbarazzante, che viene trattato di sfuggita o, più volentieri, dimenticato.
Può infatti sembrare strano che gli storici post-risorgimentali, così attenti a cogliere sussulti di nazionalità repressa o aneliti di indipendenza in eventi anche minuscoli, nella loro quasi totalità non abbiano esaltato l’eroica resistenza condotta da centinaia di migliaia di italiani contro un esercito invasore.
La ragione dei silenzi è evidente: questi combattenti militarono dalla parte sbagliata, non erano veri patrioti, anzi “patrioti” erano i collaborazionisti che, protetti dalle baionette del Bonaparte, innalzavano nelle piazze gli alberi della libertà e bruciavano i Libri d’Oro della nobiltà.
Di contro alla storiografia liberale del passato che liquida sbrigativamente gli insorgenti antifrancesi definendoli “bande reazionarie” abbiamo, in questi anni, un rinnovato interesse per la resistenza antigiacobina da parte di storici che guardano a quegli avvenimenti con un’ottica marxista, riducendo le insurrezioni contro-rivoluzionarie a episodi della lotta di classe che oppose contadini reazionari a borghesi patrioti.
La storiografia marxista, che tenta di fornire una reinterpretazione in chiave di lotta di classe delle insorgenze antifrancesi e antigiacobine, si basa su di una ricca documentazione, ma è costretta a forzare le testimonianze storiche sottolineando preferibilmente i fatti che servono di sostegno alla tesi secondo la quale le insurrezioni sono dovute esclusivamente a cause economiche e gli insorgenti si oppongono ai francesi e ai loro fautori unicamente in quanto vedono in loro il nemico di classe.
Significativo a questo riguardo è un recente volume di Gabriele Turi sulla reazione in Toscana durante l’ultimo decennio del Settecento (1).
Questo testo offre un’ottima documentazione sulle insorgenze antifrancesi, a proposito delle quali l’autore sostiene la tesi che “le difficili condizioni economico-finanziarie e i contrasti sociali – fenomeni di origine prerivoluzionaria accentuati dall’occupazione francese – sono componenti essenziali di tutte le insorgenze contadine della penisola. […] in questo senso esse furono spontanee, perché nate da una situazione oggettiva di crisi senza che i loro protagonisti fossero “consapevoli in modo scientifico della loro situazione e delle loro aspirazioni” e il loro obiettivo antifrancese fu forma più che sostanza: sommosse popolari per i viveri o il possesso di terre comuni si ebbero infatti anche prima e dopo l’occupazione francese nelle stesse zone teatro dei moti reazionari” (2). E più avanti: “le forze dirigenti reazionarie, sostenitrici dell’antica “economia morale” e riunite attorno alla Chiesa di Roma […] poterono così egemonizzare le masse, che nei patrioti vedevano unicamente gli esponenti degli odiati principi borghesi” (3).
Se della Contro-Rivoluzione italiana non è ancora stata tracciata una storia autentica e veridica lo si deve, in parte, anche all’estremo grado di frammentarietà delle vicende stesse che male si prestano a essere organizzate in maniera unitaria. Fatta eccezione per l’epopea del Cardinal Ruffo, del 1799, gli altri episodi non presentano un filo conduttore unico e, ancora meno, reciproci collegamenti: ognuno di essi è una vicenda a sé stante. Ciò non toglie tuttavia che se ne possa dare una interpretazione d’insieme che oltrepassa l’interesse puramente locale ed erudito, che sino a un recente passato ha caratterizzato le ricerche su tali temi.
Le rivolte contro-rivoluzionarie, iniziate nel 1796 durante l’invasione francese e proseguite per un ventennio circa in tutta la penisola, con esplosioni di durata variabile ma tali comunque da dover essere represse dall’esercito e non con semplici operazioni di polizia, hanno tutte lo stesso carattere: sono la reazione armata di comunità cattoliche, prevalentemente rurali, che spontaneamente insorgono contro il nuovo ordine rivoluzionario.
L’interpretazione in chiave di lotta di classe e l’aggancio alla crisi economica, considerata il fondamentale presupposto della sollevazione, rappresentano un’autentica impostura storica. Non è infatti attendibile la tesi di coloro che sostengono una conflittualità sociale così diffusa, sempre con gli stessi caratteri e stranamente limitata ai solo ventennio napoleonico, da parte di popolazioni ben differenti fra loro, rette da governi diversi, situate in contesti geo-economici non certo uniformi e con tradizioni le più varie.
Propugnare la tesi marxista significa negare l’evidenza, che invece non sfuggiva agli stessi francesi invasori: “È proprio la Vandea!” scrive nel 1799, in un rapporto al Direttorio, il Generale Garnier, riferendosi all’insurrezione nelle campagne laziali (4).
L’insorgenza antifrancese è quindi soprattutto un moto di natura religiosa, e le cause economico-sociali, da sole, non riescono a spiegare le sollevazioni che dilagarono per l’intera penisola e che per coloro che ne furono protagonisti significarono, in primo luogo, difesa della religione e della monarchia tradizionale contro l’assalto dei novatori giacobini. Per poter meglio cogliere l’intimo nesso tra il sentimento religioso della popolazione, offeso dall’empietà rivoluzionaria, e la spontanea reazione armata contro i persecutori della fede, francesi e giacobini locali, è necessario approfondire settorialmente il discorso. La Contro-Rivoluzione italiana presenta infatti caratteri di frammentarietà, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, notevoli: la suddivisione politica della penisola, la tradizione municipalistica ancora viva, la mancanza di quadri dirigenti contro-rivoluzionari che avessero una visione allargata della situazione e favorissero una strategia d’insieme, sono le cause dell’episodicità e quindi anche dell’insuccesso della reazione contro-rivoluzionaria.
Una delle vicende meno note della resistenza antifrancese fu l’insurrezione che si verificò nell’inverno del 1805-1806 sulle montagne del piacentino. Tale evento, di cui gli storici locali hanno trattato con una certa ampiezza (5), ma senza tuttavia comprenderne il vero significato e le cause autentiche, forma l’oggetto del presente studio; di esso verranno illustrate le fasi principali, sulla base delle indagini storiche già citate e con particolare attenzione al suo carattere autenticamente contro-rivoluzionario.
Prima tuttavia di affrontare il tema proposto gioverà soffermarci a considerarne gli antecedenti, cioè la situazione del ducato nella seconda metà del Settecento e durante i primi anni dell’occupazione francese.
Nello Stato piacentino, estintasi la dinastia Farnese, era salito al trono, nel 1748, un ramo borbonico di Spagna nella persona dell’infante don Filippo, secondogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese.
Il duca Filippo fu un principe riformatore, secondo la tendenza del secolo, e si avvalse per la sua politica innovatrice del ministro Du Tillot, un francese impregnato di spirito illuministico che fu il vero padrone dello Stato, rimanendo al potere per oltre vent’anni.
Le riforme attuate in questo periodo mirarono a sovvertire l’assetto religioso, politico, sociale ed economico del ducato; il risultato di questi interventi fu la graduale laicizzazione dello Stato e l’abolizione di quelle libertà concrete, di origine medioevale, che erano godute dalle comunità locali, dai corpi intermedi e dagli enti ecclesiastici. In campo culturale il filosofismo alla moda si diffuse notevolmente, grazie anche alla presenza del Condillac, chiamato a Parma quale precettore del principe ereditario don Ferdinando (6), mentre la politica scolastica venne influenzata dal teatino padre Paolo Paciaudi, notoriamente simpatizzante per il giansenismo (7).
Questo primo tentativo di “rivoluzione incruenta” – come giustamente il de Oliveira definisce quei movimenti formalmente non violenti ma sostanzialmente diretti a sconvolgere un ordine legittimo sostituendolo con uno stato di cose illegittimo -, venne a cessare nel 1771 con il licenziamento del Du Tillot da parte del giovane duca don Ferdinando, il cui profondo sentimento religioso mal sopportava la politica anti-ecclesiastica del ministro francese.
Dopo l’allontanamento del Du Tillot le riforme intraprese non vennero proseguite; nel settore ecclesiastico si fece anzi opera di restaurazione, e il governo ducale, deposti gli ambiziosi programmi che avevano caratterizzato la conduzione politica precedente, si limitò a una buona amministrazione delle risorse che offriva lo Stato.
L’invasione francese del 1796 non sconvolse l’assetto politico del ducato, il duca Ferdinando venne lasciato sul trono; gli fu imposto però un pesante trattato di pace, poiché Bonaparte aveva dichiarato di considerare il ducato alleato degli austriaci e quindi in situazione di belligeranza con la Repubblica Francese.
Oltre alle fortissime indennità di guerra, sia in danaro che in natura, e al sequestro, o meglio al furto, delle somme depositate e dei preziosi che si custodivano nel Monte di pietà di Piacenza, venne imposta la cessione di venti quadri di autore, a scelta del Bonaparte.
La permanenza del duca Ferdinando nei propri Stati, sia pure in una posizione di vassallaggio politico ed economico nei confronti della Francia, è da attribuirsi alla protezione che sul ducato esercitava la Spagna, che nel 1795 aveva firmato con la Repubblica Francese la pace di Basilea ed era successivamente entrata nell’orbita della politica francese.
L’alto patronato che sul nostro ducato esercitava la Spagna garantì al duca Ferdinando il trono ma non certo il pieno esercizio del potere; il governo ducale venne, in quegli anni, gradualmente esautorato, poiché doveva, di fatto, uniformarsi alle decisioni dei francesi. La situazione si aggravò nel 1801, dopo la conclusione del trattato di Aranjuez tra Francia e Spagna, con il quale si stabiliva che il duca di Parma avrebbe rinunciato al ducato a favore della Repubblica Francese, ricevendo in cambio, non per sè ma per il figlio, il granducato di Toscana. Il duca Ferdinando, che veniva così privato dal suddetto trattato dei suoi Stati, non venne neppure interpellato; egli per altro non riconobbe il trattato di Aranjuez e continuò a regnare. Bonaparte non insistette per una immediata abdicazione del duca e per l’annessione di Parma e Piacenza; la situazione politica era ancora estremamente fluida e il destino delle due città poteva essere rimandato di qualche tempo; importante era averne la libera disponibilità e l’effettivo controllo.
Per tale ragione nel marzo del 1801 venne inviato a Parma, con l’incarico di facilitare la successione e il trapasso dei poteri, un funzionario francese: Moreau de Saint-Méry. Costui non dovette a lungo attendere il compiersi degli eventi poiché nell’ottobre 1802 il duca Ferdinando morì quasi improvvisamente; questa morte, giunta così a proposito, fece nascere il sospetto che egli fosse stato avvelenato da un emissario di Bonaparte.
Scomparso il duca, Moreau prese possesso degli Stati di Parma in nome della Repubblica Francese, con il titolo di amministratore generale. Il ducato non venne infatti immediatamente annesso alla Repubblica Francese poiché Bonaparte non ne aveva ancora deciso la sistemazione definitiva e quindi preferì rinviare ogni decisione, ricorrendo alla formula dell’amministrazione provvisoria da parte di un funzionario francese.
Nel ducato il passaggio dal governo borbonico al nuovo ordine di cose venne accolto con reazioni diverse dalle varie categorie sociali; nelle due città la nobiltà e il clero avevano visto con dolore l’avvento della dominazione francese, tuttavia, pur rimpiangendo il trascorso regime, cercavano di adattarsi ai nuovi tempi. La borghesia, dapprima avversa ai francesi per i loro eccessi, visto che i saccheggi e le violenze delle milizie del Direttorio non sarebbero state ripetute da quelle del Consolato, accettava senza entusiasmo, ma anche senza avversione, il nuovo ordine di cose che non avrebbe danneggiato i suoi interessi.
La classe dirigente applicava quindi la tattica del “cedere per non perdere” (9).
Nei ceti popolari urbani, e soprattutto in quelli rurali, si notava invece un certo astio contro gli occupanti, poiché il popolo profondamente religioso, aveva serbato intatta la sua fede ai Borbone e inalterato il suo affetto al vecchio duca, dal quale era stato generosamente beneficato; nelle campagne, specialmente, il rancore contro i francesi era più radicato e profondo. Questi diversi sentimenti, nutriti dalla popolazione del ducato, nei confronti dei francesi occupanti influirono sul loro comportamento negli anni successivi.
L’attività amministrativa del Moreau de Saint-Méry ebbe una chiara impronta illuministica, più che materialmente rivoluzionaria; egli era infatti un moderato ed un filomonarchico e le sue riforme mirarono a proseguire l’opera iniziata, quarant’anni prima, dal Du Tillot. Tra i più significativi provvedimenti presi ricordiamo il richiamo in vigore della Prammatica sulla manomorta, cioè il divieto di cessione di beni immobili a enti ecclesiastici, e la concessione dei diritti civili agli ebrei. Tuttavia le riforme attuate non sconvolsero completamente l’assetto politico-sociale del ducato, poiché continuarono a sussistere le corporazioni e la giurisdizione feudale.
Questa situazione ibrida venne però a cessare nel 1805, allorché Napoleone emanò, nei mesi di giugno e luglio, una serie di decreti che promulgarono nel ducato le più importanti leggi francesi, inserendolo nel sistema amministrativo dell’Impero.
Il nuovo codice venne reso esecutivo dal 1° luglio 1805 e da quella data rimasero soppressi i diritti di giurisdizione feudale e vennero abolite le corporazioni; un riordinamento dell’amministrazione finanziaria introdusse nuove imposte: quella personale e quella sulle porte e finestre che, unite all’imposta fondiaria già esistente, venivano incamerate dal fisco francese. Ricordiamo infine che nel giugno dello stesso anno vennero soppressi numerosi conventi – nel solo ducato di Piacenza furono 21-, e ai religiosi forestieri fu imposto l’allontanamento, mentre gli indigeni poterono scegliere tra la riduzione allo stato laicale e il ricovero nei pochi monasteri rimasti.
Così, con alcuni decreti emanati nell’estate del 1805, Napoleone abolì quella poca autonomia che rimaneva ancora al ducato e lo ridusse de facto ad una provincia dell’Impero.
Per completare la serie dei provvedimenti eversivi, che sconvolsero un assetto politico e sociale secolare, venne introdotta la coscrizione obbligatoria, del tutto sconosciuta prima d’allora.
Fu appunto quest’ultima imposizione la causa prossima dell’insurrezione che esplose nell’inverno del 1805.
CARLO EMANUELE MANFREDI
NOTE
(1) Cfr. GABRIELE TURI, “Viva Maria” – La reazione alle riforme leopoldine (1790-1799). Olschki, Firenze 1969. Sull’insurrezione della Calabria durante il periodo napoleonico è stata recentemente pubblicata un’eccezionale documentazione da ATANASIO MOZILLO nell’opera Cronache della Calabria in guerra (1806-1811), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972, voll. 3. Anche il Mozzillo, nella lunga introduzione che inquadra la situazione della Calabria nel primo decennio dell’ottocento, pur facendo giustizia dell’equivoco del “brigantaggio”, non coglie la radice religiosa dell’insurrezione e preferisce sottolineare le ragioni socio-economiche della lunga rivolta.
(2) IDEM, op. cit., pp. 291-92.
(3) IDEM, p. 297.
(4) La citazione è tratta dalla Storia d’Italia a cura di Nino Valeri, U.T.E.T., Torino 1965, vol. 3°, p. 293.
(5) Cfr.:
– VINCENZO PALTRINIERI, I moti contro Napoleone negli Stati di Parma e Piacenza (1805-1806), Zanichelli, Bologna 1927, pp. 148.
– VINCENZO PANCOTTI, Un episodio della rivolta piacentina contro il governo francese, in rivista Ars Nova, Piacenza, ottobre 1924, pp. 434-444.
– LENY MONTAGNA, Il dominio francese in Parma (1796-1814), Arti grafiche Favari, Piacenza 1906, cap. III.
– FRANCESCO GIARELLI, Storia di Piacenza, Porta, Piacenza 1889, vol. II, cap. X.
– EMILIO OTTOLENGHI, Storia di Piacenza dalle origini sino all’anno 1918, Porta, Piacenza 1947, vol. III, cap. V.
(6) L’erede al trono avrebbe dovuto essere allevato nel più genuino spirito della filosofia illuministica, libero da ogni superstizione religiosa ed unicamente guidato dalla “ragione”. Interessante a questo proposito è una frase contenuta in una lettera scritta da Voltaire a Rousseau il 17 novembre 1760 “l’infant parmesan sera bien entouré: il aura un Condillac et un Delaire: si avec cela il est bigot il faudra que la grace soit fort” (cfr. F. GIARELLI, op. cit., vol. II, p. 47). Ma stavolta il sarcasmo di Voltaire fu un vaticinio. Proprio così: la grazia fu così forte che dalle mani di Condillac e di Delaire, un altro dei suoi pedagoghi francesi miscredenti, non uscì il preconizzato libero pensatore, ma un sovrano di grande pietà religiosa.
(7) Sul giansenismo e la sua funzione preparatoria della Rivoluzione, cfr. il saggio di mons. ANTONIO DE CASTRO MAYER, Il Giansenismo e la terza forza, in Cristianità, Piacenza, settembre-ottobre e novembre-dicembre 1973, nn. 1 e 2.
(8) Cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., Cristianità, Piacenza 1972, p. 85.
(9) Su questo tema cfr. l’articolo di PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, L’insidia neocomunista di Roger Garaudy, in Cristianità, novembre-dicembre 1973. n. 2.