ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 211 (1992)
“La paralisi c’è stata […] su tutti i fronti. La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere connesse a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro alcuna garanzia di successo immediato, ha compreso che a breve aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. E ha preteso quindi di fronteggiare un fenomeno di tale gravità coi soliti pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno della società civile” (1): in questi termini Giovanni Falcone riassumeva, pochi mesi prima di essere ucciso, l’atteggiamento tenuto dallo Stato italiano nei confronti della criminalità organizzata, e in particolare della mafia. Parole dure, per la sostanza e per l’autorevolezza della fonte, che richiamano alla memoria quelle pronunciate a Siracusa il 30 settembre 1990 dall’altro magistrato rimasto vittima di un attentato nel 1992, Paolo Borsellino, che con Giovanni Falcone aveva fatto parte del “pool antimafia” dell’Ufficio Istruzione di Palermo: “Non si può dire che lo Stato si sia arreso nella lotta contro il crimine organizzato perché ci si può arrendere solo dopo aver combattuto, e lo Stato non ha mai combattuto questa battaglia. Non c’è mai stata da parte della classe politica la volontà di reagire alla mafia, quella volontà che venne trovata per il terrorismo” (2).
Gli assassinii dei due giudici, avvenuti con modalità terroristiche a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro, nonostante le scorte e gli apparati di sicurezza che per entrambi erano stati predisposti, sembrerebbero confermare tragicamente e nel sangue la verità della tesi da loro espressa, sanzionando l’ineluttabile soccombenza dello Stato di fronte alla mafia. Altri eventi però, succedutisi nei mesi estivi del 1992, appaiono contraddire questa conclusione: la cattura di pericolosi latitanti appartenenti ad associazioni di tipo mafioso, con posizioni di rilievo al loro interno; il varo di significative modifiche alle norme del codice di procedura penale, contenute nel cosiddetto “decreto antimafia Scotti-Martelli” (3); gli sforzi per rendere effettivo il coordinamento fra le varie forze di polizia; il decremento segnalato dall’ISTAT, l’Istituto Centrale di Statistica, quanto al numero dei reati nel primo trimestre dell’anno, in particolare in alcune zone a elevata densità delinquenziale; lo scioglimento di numerosi consigli comunali ritenuti “inquinati” dalla malavita organizzata; e, last but not least, le dimensioni che, partendo da Milano, hanno assunto in tutta la penisola le indagini sui delitti commessi da pubblici amministratori.
Basta per poter ravvisare un’inversione di tendenza nella lotta al crimine? In realtà, i segnali provenienti dai vari ambiti istituzionali sono tutt’altro che univoci: infatti, se è vero che nelle settimane immediatamente seguenti gli omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino Governo e Parlamento sono stati impegnati a lungo per la conversione in legge del “decreto antimafia”, è pur vero che, proprio sul terreno delle modifiche legislative, sono state contestualmente avanzate proposte contrastanti, si sono ipotizzati nuovi provvedimenti di amnistia e di condono, e da ambiti particolarmente qualificati si è ripreso a sostenere una revisione sostanziale della disciplina degli stupefacenti. Per non parlare dei comportamenti: non tutte le forze politiche sono sembrate concordi nel sostenere l’opera della magistratura, e anzi più di un esponente politico, da posizioni tutt’altro che marginali, ha ritenuto opportuno riprendere vecchie polemiche e accenderne nuove, dando dimostrazione di scarsa compattezza istituzionale, assai pericolosa per i tempi.
È quindi opportuno, nei limiti del possibile, riflettere sull’insieme dei dati offerti dall’ora presente, per comprendere se ci si trova di fronte a reali segnali di ripresa della “legalità”, lato sensu considerata, ovvero se quelle che appaiono indicazioni positive sono occasionali sussulti, provocati dalla necessità di rispondere a emozioni popolari: una riflessione tanto più opportuna quanto più l’accavallarsi e il succedersi delle notizie dei singoli avvenimenti è talmente frenetico da far spesso perdere il quadro di riferimento nel quale vanno collocati, e alla stregua del quale è possibile una loro attendibile interpretazione.
1. La “qualità” del crimine
A. Gli omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino
Direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia e candidato all’incarico di Procuratore Nazionale Antimafia dopo essere stato, fra l’altro, giudice istruttore e Procuratore della Repubblica aggiunto a Palermo, Giovanni Falcone era sicuramente il magistrato italiano più conosciuto e stimato nel mondo, quello che per primo era riuscito — in stretta collaborazione con i colleghi che insieme a lui avevano lavorato all’interno del pool antimafia, e fra questi anzitutto Paolo Borsellino — a condurre a termine, nella prima metà degli anni Ottanta, l’istruttoria formale a carico dei capi e dei gregari di Cosa Nostra siciliana, utilizzando per la prima volta le informazioni fornite dai “pentiti”: un’istruttoria il cui impianto ha retto in tutti i gradi del giudizio, fino alla Corte di Cassazione (4).
La sua attività professionale lo aveva portato a interessarsi anche delle relazioni esistenti fra Cosa Nostra e i vari tipi di organizzazioni criminose esistenti in Italia e all’estero, acquisendo un bagaglio informativo, una capacità di comprensione dei fenomeni associativi delinquenziali, e un metodo di lavoro — che non escludeva il ricorso alle tecnologie più sofisticate — tali da farne un punto di riferimento sicuro a livello internazionale.
A sua volta Paolo Borsellino, dopo essere stato con Giovanni Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo, aveva diretto la Procura della Repubblica di Marsala, ed era quindi tornato a Palermo quale Procuratore della Repubblica aggiunto; dopo che Giovanni Falcone aveva accettato l’incarico al ministero di Grazia e Giustizia, trasferendosi a Roma, Paolo Borsellino era diventato nel capoluogo siciliano il magistrato responsabile delle indagini più delicate sulla criminalità mafiosa, e nei mesi precedenti la sua morte lavorava avvalendosi delle informazioni fornite da pentiti che avevano ripreso a collaborare con la giustizia.
È certo quindi che, pur se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati i soli a occuparsi con efficacia e con successo delle istruttorie a carico di Cosa Nostra, la tragica scomparsa dell’uno e dell’altro ha rappresentato di per sé una perdita gravissima sul fronte della lotta alla mafia e un evento di spessore elevatissimo — sicuramente, per la statura delle vittime, non comparabile con altri, pure di peso notevole, accaduti in passato — sotto il profilo della qualità del crimine. Nella logica mafiosa la loro eliminazione, oltre a liberare Cosa Nostra dagli uomini il cui impegno professionale dava più fastidio e ostacolava le trame illecite, ha lanciato un inequivoco “messaggio” della propria potenza e della capacità di colpire chiunque, ovunque e in qualsiasi condizione, anche in presenza di scorte nutrite e nel cuore della città. Un messaggio rivolto contemporaneamente ai vertici dello Stato, quasi a voler dimostrare l’inutilità degli sforzi istituzionali contro l’illecito, e alla gente, invitata a tener conto di chi è realmente il più forte, e quindi a regolarsi di conseguenza nella scelta di campo e nei comportamenti quotidiani.
E tuttavia, sempre quanto alla qualità raggiunta dal crimine, le stragi di Capaci e di via D’Amelio si inseriscono in una lunga teoria di omicidi “eccellenti” che ha interessato negli anni magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, imprenditori e politici (5) e che è tragicamente proseguita nel 1992: ci si è forse già dimenticati, per fare due esempi fra i tanti, che poche settimane prima dell’assassinio di Giovanni Falcone, il 4 aprile 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, era caduto sotto i colpi dei killer il maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, in forza alla sezione di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Agrigento, conosciuto e stimato per le doti di investigatore e per la conoscenza della realtà mafiosa nella zona dove operava, mentre otto giorni dopo l’omicidio di Paolo Borsellino, il 27 luglio 1992, veniva ammazzato a Catania Giovanni Lizzio, ispettore in servizio alla locale Squadra Mobile, particolarmente impegnato nella lotta alle estorsioni.
B. Le ramificazioni internazionali dell’illecito
Oltrepassando i confini della Sicilia, la considerazione del livello qualitativo cui è giunta la delinquenza in Italia non può trascurare, insieme con le “gesta” di Cosa Nostra, almeno tre indici significativi:
a. il ciclone che ha investito il mondo dei rapporti fra imprenditoria privata e amministratori pubblici a partire dall’”inchiesta sulle tangenti”, promossa a Milano dal sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale, dottor Antonio Di Pietro, fino a interessare esponenti di rilievo nazionale dei più importanti partiti politici;
b. le preoccupanti dimensioni assunte dalla delinquenza minorile;
c. le prospettive di collegamenti a livello internazionale del crimine organizzato.
Quest’ultimo aspetto, pur non essendo stato finora sufficientemente studiato, meriterebbe approfondimento sia quanto alle “alleanze”, e comunque ai rapporti esistenti fra le varie realtà di malavita organizzata italiane e quelle di altri paesi — i “cartelli” colombiani, Cosa Nostra degli USA, gli yakuza giapponesi, le triadi cinesi, la cosiddetta “mafia” di Mosca (6) —, rapporti funzionali alla realizzazione combinata di traffici illeciti, e in particolare del commercio degli stupefacenti, sia quanto alla penetrazione in Italia di associazioni malavitose i cui esponenti provengono da altre nazioni. A Roma, a Firenze e a Milano rapine ed estorsioni non sono più oggi attività gestite in modo esclusivo dalla malavita locale: quando sulle saracinesche di locali o di esercizi commerciali compaiono piccoli dipinti con vernice raffiguranti il sole rosso, o il drago, si tratta di messaggi estorsivi, di esortazioni a pagare per evitare problemi: spesso i destinatari sono esercenti provenienti dall’Estremo Oriente; i “mittenti” sono quasi sempre cinesi o giapponesi: ciò è emerso, per esempio, nel maggio del 1992, quando la Questura di Roma ha posto termine all’attività di due bande di orientali dedite alle estorsioni, arrestandone i componenti (7). Costituisce d’altra parte un interessante riscontro in questa direzione il dato, aggiornato al mese di giugno del 1992, secondo il quale il 15% della popolazione carceraria italiana è di nazionalità straniera (8).
L’apertura delle frontiere, a partire dal 1° gennaio 1993, farà cadere un ulteriore residuo ostacolo — certo, oggi non insuperabile — agli scambi e alle relazioni fra le organizzazioni criminali. Scriveva in proposito Giovanni Falcone: “Per sopravvivere e svilupparsi la criminalità organizzata ha bisogno di appoggiarsi a particolarismi locali e culture arcaiche, che le garantiscano una sufficiente impermeabilità nei riguardi del mondo esterno, e di creare nello stesso tempo modelli universalmente validi su cui basare i futuri accordi internazionali. Nella pericolosissima prospettiva di una omologazione dei modelli di organizzazione criminale, in cui si arrivasse al punto di non distinguere più tra i metodi degli yakuza, delle triadi cinesi e di Cosa Nostra, si attuerebbe un modello di mafia universale ed io mi chiedo come ci si potrebbe opporre” (9). Ciò che finora ha in parte impedito “questa grandiosa unificazione” (10) è stata, secondo lo stesso Giovanni Falcone, “[…] la barriera linguistica. Come fanno a comunicare persone che parlano il dialetto siciliano con altre che si esprimono nel cinese di Canton o di Hong Kong?” (11). Senza trascurare la consistenza delle difficoltà derivanti dal parlare lingue diverse, va però considerato che non dovrebbe essere impossibile, per organizzazioni criminali che sono riuscite a far crescere al proprio interno chimici altamente specializzati nella raffinazione dei vari tipi di sostanze stupefacenti — tale, per esempio, era il ruolo di Francesco Marino Mannoia —, o consulenti finanziari pronti ad adoperare le tecniche più raffinate di riciclaggio, assegnare a propri uomini il compito di apprendere questo o quell’idioma, prestandosi a fare all’occorrenza da interprete o da intermediario.
L’ultima riprova in ordine di tempo dell’entità dei collegamenti e delle ramificazioni è venuta, nel mese di settembre del 1992, dall’operazione di repressione del narcotraffico denominata Green ice, condotta in collaborazione dalle polizie, dai servizi segreti e dalle magistrature di diversi Stati, e che ha portato, contemporaneamente negli Stati Uniti d’America, in Inghilterra e in Italia, al sequestro di centinaia di chilogrammi di cocaina, di miliardi di lire e di milioni di dollari in contanti, di oro e di gioielli, e all’arresto di duecentouno persone, fra i quali boss colombiani del traffico degli stupefacenti, funzionari di banca e titolari di aziende di import-export (12).
C. La delinquenza dei minorenni e quella di Tangentopoli
La delinquenza minorile non accenna a decrescere, sotto il duplice profilo delle iniziative delittuose delle bande giovanili e dello sfruttamento da parte della criminalità “adulta”, grazie a un insieme di fattori, cui è tutt’altro che estraneo lo sgretolamento del tessuto familiare, ma fra i quali va incluso, non all’ultimo posto, il trattamento di estremo favore — quanto alla risposta punitiva — di cui gode l’infradiciottenne: nei primi tre mesi del 1992 sono stati denunciati all’autorità giudiziaria per reati di vario tipo 6.328 minorenni: il 5,1% in più rispetto al medesimo periodo del 1991 (13). Se è vero che il dato, rapportato ai primi sei mesi del 1992 e confrontato con il medesimo periodo del 1991, ha segnalato un decremento pari all’8,1%, non va però trascurato il numero assoluto dei denunciati, 12.310 minori, comunque assai rilevante (14).
Se le sanzioni più miti e l’esistenza di istituti di clemenza come il perdono giudiziario, insieme con gli altri introdotti parallelamente alla riforma del codice di procedura penale, partono dall’ovvia constatazione di una maturità non completa, cui evidentemente non può corrispondere per intero lo stesso trattamento riservato ai maggiorenni, e hanno lo scopo di evitare il più possibile, o comunque di contenere, l’impatto con il carcere o anche solo con il processo penale, è pur vero che la sovrabbondanza di queste misure ha prodotto, unitamente a un forte incremento delle pratiche delittuose da parte dei minori (15), un mutamento di mentalità, riconosciuto dagli stessi addetti ai lavori: “I giovani possono arrivare a convincersi — è il parere del dottor Francesco Mazza Galanti, giudice al Tribunale per i minorenni di Genova —, a torto o a ragione poco importa, di poter delinquere impunemente sapendo che sarà loro riconosciuta senza difficoltà l’incapacità di intendere e di volere o concesso il perdono giudiziario” (16).
Superata la soglia dei diciotto anni, chi si sia già avviato al crimine godendo del margine di impunità garantitogli dalla legislazione esistente, e comunque provenendo da un contesto nel quale i valori non esistono nemmeno a livello di mero richiamo deformato — come invece avveniva fino ad anni recenti in taluni ambienti malavitosi —, è molto più pericoloso di colui che ha percorso per tappe progressive la strada della delinquenza, il cui contesto di partenza non era del tutto de-moralizzato e desacralizzato, e la cui prospettiva di ricupero proprio per questo è più seria e meno improbabile. Il “codice di comportamento” del mafioso di Cosa Nostra siciliana, di cui parlava Giovanni Falcone (17), anche se già negli anni Ottanta registrava un certo degrado quanto al rispetto di esso da parte di taluni fra gli affiliati, ha consentito, nel contatto con mafiosi poi pentitisi, di contare su qualche punto di riferimento comune con il magistrato incaricato delle indagini, e quindi di impostare un dialogo, pur in presenza di altri presupposti, a cominciare dalla reciproca lealtà; quel “codice”, affievolito se non inesistente in realtà criminose organizzate di tipo diverso — e soprattutto di più recente costituzione —, è, per le ragioni cui prima accennavo, del tutto assente fra le giovani leve di queste ultime: e ciò oggi rende più difficile non soltanto la comprensione dei fenomeni e lo svolgimento delle indagini, ma anche il concreto ricupero della persona.
Il fatto nuovo del 1992, anche — ma non solo — sotto il profilo della “qualità” del crimine, è però costituito dall’”inchiesta sulle tangenti” che, iniziata a Milano, si è allargata ad altri uffici giudiziari dell’Italia Settentrionale e Centrale, fino a interessare alcune fra le più “calde” città di quella Meridionale, a cominciare da Reggio Calabria; non che prima nessuno indagasse sui casi di corruzione e di concussione, e più in generale sugli abusi di pubblici amministratori (18): tuttavia, le dimensioni che il fenomeno ha assunto a partire dall’arresto del presidente dell’ente assistenziale Pio Albergo Trivulzio, ingegner Mario Chiesa, la realtà — prima solo in qualche misura immaginabile — che è emersa, e il livello dei personaggi coinvolti, direttamente o indirettamente, negli accertamenti giudiziari, impediscono di considerare quello che è accaduto e che sta accadendo come qualcosa che supera di poco la routine.
2. La “quantità” del crimine
Come ricordavo all’inizio, i primi mesi del 1992 hanno offerto un altro spunto di riflessione sostanzialmente nuovo rispetto al passato: il calo dei dati quantitativi della criminalità. Nel periodo da gennaio a giugno del 1992, posto a confronto con lo stesso periodo del 1991, i delitti denunciati all’autorità giudiziaria, su tutto il territorio nazionale, dalla Polizia di Stato, dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza sono diminuiti complessivamente del 9,3%; i delitti di criminalità violenta hanno subìto un decremento della stessa percentuale: in particolare, gli omicidi volontari consumati sono scesi del 26,7%, le rapine del 20,3% e i furti del 12%. Invece sono risultate in crescita le denunce per i delitti di associazione di tipo mafioso — più 49,5% —, di estorsione — più 40,3% —, di incendio doloso — più 16,6% — e di produzione e spaccio di stupefacenti — più 10,1% (19).
Si tratta di numeri solo apparentemente contraddittori: infatti, non è detto che l’aumento percentuale delle estorsioni corrisponda, nell’entità sottolineata dal dato, a una parallela crescita effettiva di queste ultime, ben potendo spiegarsi con una ripresa delle denunce — che erano diminuite nei mesi precedenti — a opera delle vittime, favorita, fra l’altro, dalla legge n. 172, del 18 febbraio 1992, sul risarcimento dei danneggiati da questo tipo di reato. Un discorso simile può farsi quanto al dato relativo alle associazioni di tipo mafioso, che va letto positivamente, perché il decremento riscontrato nel 1990 rispetto al 1989 (20) non corrispondeva, come la cronaca si è data carico di dimostrare, a una parziale estinzione delle organizzazioni criminali, ma a una tragica incapacità delle forze dell’ordine, con gli strumenti giuridici e materiali a disposizione, di individuare il delitto in questione, che per sua natura esige in sede di indagine un lavoro di collegamento fra dati differenti. Anche l’incremento dei reati riguardanti le droghe non corrisponde necessariamente a un traffico più elevato, ben potendo dipendere da una maggiore padronanza dei mezzi previsti dalla disciplina della materia, riformata nel 1990, che conferisce alle forze dell’ordine modalità operative più elastiche e adeguate alla realtà e consente di disporre con più facilità il sequestro delle partite di stupefacenti, e quindi di individuare un più elevato numero di soggetti coinvolti nel traffico.
Sarebbe certamente prematuro parlare, in base alle cifre appena riassunte, di un’inversione di tendenza; e ciò per varie ragioni:
a. il periodo di osservazione — appena tre mesi — è troppo limitato e sarebbe opportuno attendere almeno l’intero anno prima di ricavare conclusioni in quel senso;
b. indici in calo, come si è visto, sono affiancati da altri in crescita, la cui interpretazione corrisponde comunque a ipotesi da verificare; per esempio, è particolarmente preoccupante il riscontrato aumento degli incendi dolosi: infatti, se è vero, per quel che si è detto, che l’incremento delle estorsioni probabilmente non corrisponde a un aumento sostanziale delle stesse, è pur vero che gli attentati incendiari costituiscono un segnale significativo dell’esistenza del racket, e nella specie si è di fronte a un più 16,6%;
c. i numeri in termini assoluti sono comunque allarmanti: in appena sei mesi le rapine, pure in calo, sono state 16.744, i furti denunciati 767.078, gli incendi dolosi 5.583.
Meritano riflessione anche i dati relativi a realtà territoriali più circoscritte, di forte radicamento criminale. Secondo quanto ha riferito il ministro dell’Interno, sen. Nicola Mancino, nel corso della relazione svolta al Senato della Repubblica il 7 settembre 1992 (21), in Sicilia il numero complessivo dei delitti è diminuito nei primi sei mesi del 1992 del 21,7%; gli omicidi sono calati del 19,14% e le rapine aggravate di circa il 48%.
Le cifre dell’ISTAT e quelle del ministro dell’Interno acquistano contorni più definibili e consentono di ipotizzare delle spiegazioni, se si ricorda che nel mese di giugno del 1992 i detenuti negli istituti di pena erano 42.820, a fronte dei 25.500 dell’inizio del 1991 (22). La differenza dipende in buona misura dal fatto che, mentre le norme del codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre 1989 imponevano, nella loro versione originaria, la carcerazione in via cautelare come extrema ratio e senza operare distinzioni in ordine alla gravità dei reati — sì che anche un omicida poteva tornare in libertà se era incensurato e non vi erano rischi di inquinamento delle prove —, la serie di provvedimenti normativi varati nella seconda metà del 1991, che hanno inciso anche sul regime della detenzione preventiva, ha oggettivamente dilatato la possibilità di emettere ordinanze di custodia cautelare.
E non si tratta di una differenza di poco conto: considerata l’elevata area di recidività che, mediamente, caratterizza la pratica dell’illecito penale, non è azzardato, pur nella necessità di valutare altri fattori e di evitare eccessive semplificazioni, ritenere la sostanziale correttezza dell’equazione secondo cui a un numero maggiore di reclusi corrisponde un minore numero di reati. Va detto, per completezza di quadro, che l’incremento dei detenuti non dipende, se non in misura assai ridotta, dall’entrata in vigore, nel 1990, della nuova più rigorosa disciplina sugli stupefacenti: lo stesso direttore generale degli istituti di pena, dottor Nicolò Amato, ha ricordato che, pur se il numero dei detenuti tossicodipendenti è di circa 12.000 —, la maggior parte di costoro ha fatto ingresso in carcere prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, mentre non tutti coloro che sono attualmente tossicodipendenti sono reclusi per delitti riguardanti gli stupefacenti, o comunque soltanto per questi (23).
Conferma invece la prevalente influenza che sulla crescita della popolazione carceraria hanno avuto le nuove norme sulla detenzione cautelare la circostanza che più della metà dei detenuti sono oggi in attesa di giudizio: 23.968 su 42.820, pari al 56% (24). È ragionevole prevedere che, se sono stati valutati esistenti i gravi indizi di colpevolezza che hanno condotto alla privazione della libertà, buona parte dei reclusi in attesa di giudizio va incontro a decisioni di condanna, anche se è impossibile stimare delle percentuali; vi è da aggiungere che le norme sull’ordinamento penitenziario hanno subito negli ultimi mesi, come si vedrà fra breve, sensibili restrizioni: ciò avvalora ulteriormente la previsione della permanenza in carcere in modo definitivo di coloro che oggi si trovano ristretti in via cautelare, soprattutto se sono indagati per reati gravi. E tuttavia queste considerazioni non cancellano la constatazione della provvisorietà della situazione, che impedisce, anche sotto questo profilo, valutazioni certe e indicazioni chiare e tendenzialmente stabili.
3. La risposta dello Stato: il “decreto antimafia”
“Dinanzi a fatti di agghiacciante gravità come quelli che sono costati la vita a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca e ai tre giovani addetti alla sua tutela, lo Stato non può restare inerte. Deve fornire una riposta forte e determinata che, senza sconvolgere i principi cardine di uno Stato democratico e fondato sul diritto, rappresenti, per la gente di questo Paese, il segno della volontà di non cedere neppure di fronte alla più eversiva delle offensive della criminalità” (25): in questo modo iniziavano le “osservazioni”, cioè la nota illustrativa del ministro di Grazia e Giustizia sul contenuto del decreto legge n. 306, dell’8 giugno 1992, noto come decreto antimafia o “decreto Scotti-Martelli”, presentato dal Governo ancora presieduto dal sen. Giulio Andreotti come la risposta dello Stato alla sfida criminale all’indomani della strage di Capaci: un decreto contenente, fra l’altro, anche significativi aggiustamenti al regime di acquisizione della prova nel processo penale, e convertito in legge, con numerose e incisive modifiche, il 7 agosto 1992.
Nel medesimo testo si avvertiva inoltre che “il decreto-legge appena emanato deve leggersi in questo contesto. Esso non è il frutto di scelte emozionali ed emergenziali quanto piuttosto il risultato di valutazioni attente e di studi già da tempo operati in materia di criminalità organizzata” (26); e ancora: “Le modifiche processuali non sconvolgono il modello del 1988 e non intervengono a mutare le caratteristiche dei procedimenti diversi da quelli contro la criminalità organizzata” (27); “[…] nei processi, anche in corso, le attività compiute dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria non potranno essere messe nel nulla da “sfacciate” ritrattazioni dibattimentali, tanto più probabili, ovviamente, quanto più grave è il fatto per cui si procede e quanto più forte è la capacità intimidativa dell’imputato o dell’organizzazione criminale cui egli appartiene” (28).
Di più: nella relazione predisposta dal Governo al disegno di legge di conversione del medesimo decreto è stato scritto, fra l’altro, che “la ratio sottesa al provvedimento è quella di impedire che gli esponenti delle bande mafiose possano, approfittando delle maglie troppo larghe dell’una o dell’altra norma ovvero della farraginosità e macchinosità dell’uno o dell’altro sistema giuridico, […] inserire impunemente le loro minacce, intimidazioni o temerarie richieste all’interno di un modello codicistico non attrezzato a combattere forme di “slealtà processuale” o, più in generale, condotte finalizzate in se stesse ad attentare alla genuinità e trasparenza della formazione della prova” (29). Si tratta di affermazioni che condannano in modo netto il cuore del sistema del codice del 1988, bollandolo come totalmente inadeguato a fronteggiare l’aggressione della criminalità.
Prima di guardare alle novità più interessanti introdotte dal decreto, che non riguardano soltanto la riforma processuale del 1988, va però detto che quelle “osservazioni” e quella relazione, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha redatte, e ancor di più di chi le ha sottoscritte, contengono delle grosse inesattezze. Infatti, è vero che la necessità di intervenire sull’assetto del nuovo codice di procedura penale era avvertita e reclamata da tempo, soprattutto da settori della magistratura e delle forze dell’ordine, ma è altrettanto vero che nulla di significativo, quanto alle modalità di formazione della prova, era stato fatto dal Governo e dal Parlamento prima del decreto. Anzi, poche settimane prima del varo di quest’ultimo si era svolto davanti alla Corte Costituzionale, nella camera di consiglio del 15 aprile 1992, sollevato da ordinanze di giudici di merito, il giudizio di legittimità delle norme — si tratta dei commi 3° e 4° dell’articolo 500 del codice di procedura penale — che impedivano di utilizzare per la decisione, allo scopo di accertare i fatti oggetto del giudizio, le dichiarazioni rese dai testimoni al pubblico ministero: erano dichiarazioni che il pubblico ministero poteva adoperare in dibattimento soltanto per muovere contestazioni al testimone, per sollecitare la memoria di costui, e al massimo per farlo ritenere non credibile.
Davanti ai giudici di Palazzo della Consulta, come si legge nella motivazione della sentenza che ha risolto la questione, “è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della sollevata questione. Rileva la difesa del governo che, una volta scelta la strada del processo di tipo accusatorio e della formazione delle prove nella “contesa dibattimentale tra le parti”, le soluzioni adottate dall’art. 500, terzo comma […] rispondono a logica e rappresentano null’altro che il corollario di un sistema ben definito e del tutto diverso dal precedente. Non sarebbe quindi possibile — senza derogare alla logica stessa del sistema — recuperare il valore di prova ai fini della decisione alle dichiarazioni rese in una fase solo investigativa, quale è quella delle indagini preliminari” (30). In altri termini, per lo stesso Governo che qualche settimana dopo avrebbe varato il decreto legge n. 306, il regime di formazione della prova nel dibattimento penale era interamente conforme alla Costituzione e andava mantenuto e difeso, poiché se ne condivideva la logica e l’intrinseca coerenza: in tal senso era stato affidato il relativo incarico all’Avvocatura dello Stato.
Quindi riesce difficile conciliare l’affermazione, prima riportata e contenuta nelle “osservazioni”, che “il decreto-legge appena emanato […] non è il frutto di scelte emozionali ed emergenziali“ (31), con la posizione di difesa dei cardini del nuovo codice di procedura penale risalente ad appena un mese e otto giorni prima dell’omicidio di Giovanni Falcone. È stato necessario questo tragico evento per rendersi conto che “la strada del processo di tipo accusatorio e della formazione delle prove nella “contesa dibattimentale tra le parti”” conduceva inevitabilmente alle “”sfacciate” ritrattazioni dibattimentali” (32)? E che quello del 1988 era un “modello codicistico non attrezzato a combattere forme di “slealtà processuale”” (33), in quanto dotato di “maglie troppo larghe” (34)? È un dato di fatto che il mutamento di posizione è avvenuto in modo repentino, e che è parso riproporre un copione tutt’altro che sconosciuto; era stato proprio Giovanni Falcone a scrivere che “ogni volta che esplode la violenza mafiosa con manifestazioni allarmanti o l’ordine pubblico appare minacciato, con precisione cronometrica viene varato un decreto-legge tampone volto a intensificare la repressione, ma non appena la situazione rientra in una apparente normalità, tutto cade nel dimenticatoio e si torna ad abbassare la guardia” (35).
Peraltro, il fatto che l’“impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata” (36) non cessi di essere “emotivo, episodico, fluttuante” (37), e che esso spesso sia “motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica” (38), ha trovato ulteriore conferma a posteriori. Contro il decreto legge n. 306, ma prima ancora contro le pronunzie della Corte Costituzionale, penalisti e processualpenalisti — avvocati e docenti universitari —, alcuni dei quali già impegnati nella compilazione del codice di procedura penale del 1988, nonché l’Unione delle Camere Penali, hanno levato forti proteste, fino all’indizione di uno stato di agitazione e di giornate di astensione dal lavoro: in tale situazione il Governo si era di fatto rassegnato a far decadere il decreto, e a riproporlo dopo la scadenza con numerose modifiche, con inevitabile allungamento dei tempi e aumento di incertezza per gli addetti ai lavori.
Solo dopo la strage di via D’Amelio l’esecutivo ha ripreso l’iniziativa per far convertire in legge quelle norme, pur introducendo notevoli modifiche, e le Camere hanno discusso il provvedimento con la procedura d’urgenza, pervenendo in tempo utile alla sua conversione. Si può anche negare che queste siano “scelte emozionali ed emergenziali” (39), ma solo per parlare in maniera ancora più adeguata di un modo di legiferare a colpi di tritolo…
Non corrisponde neppure a verità la tesi, contenuta anch’essa nelle più volte citate “osservazioni” del ministro di Grazia e Giustizia, secondo cui “le modifiche processuali non sconvolgono il modello del 1988 e non intervengono a mutare le caratteristiche dei procedimenti diversi da quelli contro la criminalità organizzata” (40). Volendo riconoscere a ciascuno il suo, è vero invece che gli “sconvolgimenti” al “modello del 1988” erano già stati realizzati, pochi giorni prima del varo del decreto, a opera della Corte Costituzionale, sì che il decreto altro non ha fatto se non recepirne le decisioni, tradurle in norme di legge, e queste a loro volta sono state ulteriormente modificate in sede di conversione; si tratta comunque di rettifiche che hanno inciso in modo radicale sui princìpi informatori del codice del 1988, e hanno interessato anche giudizi diversi da quelli di delinquenza organizzata.
4. L’antefatto: gli interventi della Corte Costituzionale
Per meglio comprendere il senso delle novità introdotte è opportuno fare un passo indietro, e ricordare la portata delle pronunzie della Corte Costituzionale, cui ho appena fatto cenno — per lo meno di quelle pubblicate nel 1992 —, che hanno riguardato in modo più incisivo gli istituti centrali del nuovo codice di procedura penale, e in particolare il regime della prova.
Già con la sentenza n. 24, depositata il 31 gennaio 1992, i giudici della Consulta avevano dichiarato l’illegittimità del 4° comma dell’articolo 195 del codice, nella parte in cui vietava agli “ufficiali e agenti di polizia giudiziaria” di “deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni” (41), imponendo una preclusione che aveva dell’assurdo: infatti, proprio a coloro che sono istituzionalmente incaricati dell’accertamento dei reati era impedito di riferire su particolari loro raccontati da testimoni in seguito diventati reticenti (42).
Ma i colpi davvero decisivi all’impianto del codice sono giunti dalle sentenze n. 254 e n. 255, entrambe depositate il 3 giugno 1992, che hanno dichiarato costituzionalmente illegittimi gli articoli 513- 2° comma e 500-3° e 4° comma del codice di procedura penale; si tratta di norme che, nella loro formulazione originaria, impedivano l’acquisizione, da parte del giudice del dibattimento, delle dichiarazioni rese in sede di indagini, innanzi al pubblico ministero o al giudice per le indagini preliminari, dall’imputato di un reato connesso che poi rifiuti di essere esaminato in dibattimento, o dai testimoni che sostengano versioni diverse da quelle a suo tempo riferite. I princìpi esposti dalla Corte Costituzionale a sostegno delle proprie decisioni si muovono nella direzione esattamente opposta rispetto ai presupposti ideologici degli ispiratori della riforma processuale; infatti, per questi ultimi il processo penale è il luogo della contesa agonistica fra parti contrapposte (43), è “gioco […], inteso nel senso di gara” (44), con la conseguenza “[…] che è lo schema che rende importante un gioco e non l’esito” (45), che il dibattimento è “il “luogo” privilegiato del contraddittorio e dell’elaborazione della prova” (46), e che “la vis rappresentativa della prova scaturisce non dalla dichiarazione resa alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero “dietro le quinte”, ma, al contrario, da quanto il teste dichiara sulla “scena aperta” del giudizio, nel fuoco incrociato dell’esame e del controesame; quanto il teste abbia riferito nel corso delle indagini preliminari ben può essere utilizzato per saggiarne a dibattimento l’attendibilità, ma non in funzione di prova rappresentativa diretta” (47).
Contestando queste posizioni, i giudici di Palazzo della Consulta fanno notare, con riferimento alla riforma processuale, “[…] l’irragionevolezza di un sistema che, da un lato, riconosce un patrimonio di elementi di valutazione, pur formatosi prima del dibattimento, come idoneo a verificare la genuinità e il peso delle prove che dal dibattimento si sono generate, dall’altro, al fine dell’accertamento dei fatti, lo considera tamquam non esset, negando al giudice di apprezzarne fino in fondo la portata” (48).
Contro chi nega rilievo al concetto di verità sostanziale, e anzi lo reputa fuorviante, appagandosi di una pseudoverità “formale”, quale essa sia, che emerge da quello che viene definito il “profilo ludico” (49) del nuovo processo, viene ricordato che, in conformità ai precetti della Costituzione, e in particolare all’articolo 2, “fine primario e ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità” (50); dal che deriva “il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale” (51), e cioè in dibattimento. Dunque, sostenere che la prova nel processo penale è tale solo se viene assunta nel dibattimento, in presenza e nel contraddittorio fra le parti, equivale per la Corte a porre “in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verità” (52).
L’esito coerente di queste affermazioni è consistito, come ho detto, nella dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni prima indicate, nelle parti in cui non prevedono l’acquisizione al fascicolo del dibattimento, e quindi non consentono la considerazione da parte del giudice ai fini della decisione, delle dichiarazioni rese dai testimoni e dai coimputati in sede di indagini.
5. Le proteste dei “nostalgici” del nuovo codice di procedura penale
Non è un caso che, proprio perché le pronunzie della Corte Costituzionale hanno fatto seguito alle affermazioni di quei princìpi, le critiche veementi degli organismi rappresentativi degli avvocati penalisti e di gran parte della dottrina processualpenalistica si sono rivolte, prima che verso il decreto antimafia, all’indirizzo delle sentenze della Corte, riproponendo come intangibili quegli schemi ideologici, la cui traduzione in legge nel nuovo codice di procedura penale hanno provocato quasi tre anni di sostanziale disastrosa impunità (53).
Anche ammettendo che, al momento del varo della riforma processuale, non tutti avessero colto la portata devastante che avrebbero avuto quelle norme, viene da chiedersi come si possa oggi, alla luce dell’esperienza maturata dal 24 ottobre 1989, quando è entrato in vigore il nuovo codice, esaltare, lamentandone l’eliminazione a opera della Corte, il “filtro indefettibile del contraddittorio, che con le sue complesse tecniche avrebbe edificato il materianazione a opera della Corte, il “filtro indefettibile del contraddittorio, che con le sue complesse tecniche avrebbe edificato il materiale di prova, “creandolo” per la prima volta […] avanti l’organo della decisione” (54).le di prova, “creandolo” per la prima volta […] avanti l’organo della decisione” (54).
La spiegazione può rintracciarsi soltanto in petizioni di principio così radicate in chi le sostiene da non far sorgere alcuna preoccupazione circa il totale contrasto di esse con il buon senso e con la verità inscritta nella realtà. Non può essere diversamente se vi è stato chi, commentando in chiave critica le decisioni della Corte Costituzionale, dopo aver richiamato la concezione “liberale” (55) dello Stato, dalla quale deriva “un’idea del reato come […] conflitto sociale specifico e circostanziato — e cioè come un conflitto che si sviluppa tra il delinquente e il singolo individuo o gruppo titolare dell’interesse leso” (56), ha richiamato l’assunto della scuola giuridica sociologica statunitense, secondo la quale “scopo fondamentale del processo” è la “risoluzione dei conflitti scaturenti dalla commissione dei fatti di reato” (57), sì che la giustizia penale diviene la “tecnica di risoluzione di conflitti” (58); lo stesso autore ha spiegato che in questo quadro “l’organo giudicante non è tenuto in primo luogo ad affermare quella che gli sembra la soluzione “giusta” dal punto di vista sostanziale o secondo l’impegnativo parametro della verità reale. […] la verità processuale non è la conformità ai fatti reali accertabile d’ufficio con metodo empirico-scientifico e con ogni possibile strumento, bensì una verità di genere “retorico-argomentativo” che riesce a imporsi attraverso la logica dialettica del contraddittorio” (59).
Il grave torto della Corte Costituzionale è consistito, secondo queste posizioni, quanto agli esiti prodotti, nell’aver inflitto “un durissimo colpo all’impalcatura accusatoria del nuovo codice” (60), in quanto essa si è “fatta carico di quelle esigenze di efficienza repressiva che nell’attuale frangente storico hanno purtroppo ripreso il sopravvento” (61); quanto ai princìpi affermati, nell’enunciazione della tesi per cui il “fine primario e ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità” (62), e quindi nell’aver posto “l’accento su un concetto forte di verità, e cioè su quella verità reale o sostanziale che, come una sorta di verità assoluta, pretenderebbe una ricerca svincolata da regole prestabilite e dall’iniziativa delle parti […], un concetto assai problematico già sul piano epistemologico e, per giunta, non privo di potenziali esiti nefasti a causa della sua intrinseca inclinazione a forzare le regole della legalità processuale” (63).
Le tesi dei difensori a oltranza del modello processuale del 1988 sono rese inaccettabili sia dal ripudio aprioristico dell’oggettività del vero, che, come si è appena visto, viene descritto come un dato mistificante — infatti, il presupposto di tale sistema è l’inesistenza della verità oggettiva —, sia dall’affermazione, di per sé falsa, secondo cui la ricerca della verità sostanziale di un fatto — nella specie, di un fatto che abbia la qualifica di illiceità — rappresenta qualcosa di pericoloso, perché inevitabilmente destinata a muoversi al di fuori del rispetto di regole prestabilite: al contrario, secondo la medesima logica, soltanto la dialettica del contraddittorio, propria del sistema accusatorio, garantirebbe la corretta osservanza delle prescrizioni procedurali. In questo modo si confonde — non interessa ovviamente se e in quale misura in buona fede —la tensione e lo sforzo verso il reale che devono connotare il procedimento penale, e in particolare coloro che all’interno del procedimento penale sono istituzionalmente preposti ad amministrare giustizia, con gli abusi derivanti da una ricerca del vero che disprezzi qualsiasi regola. Vi è da chiedersi però perché mai la “regola” dovrebbe coincidere sempre e soltanto con il sistema del contraddittorio dibattimentale: non è affermazione apodittica quella secondo cui solo questo regime garantirebbe adeguatamente l’imputato? E perché disperdere i risultati delle indagini, e allarmarsi se, come ha stabilito la Corte, gli stessi, unitamente a quanto emerge dal dibattimento, costituiscono materia sulla quale si esercita il vaglio critico del giudice?
Certo, da talune cattedre universitarie, dove siedono molti degli ipercritici dei giudici di palazzo della Consulta — e dalle quali vengono impartite lezioni e forniti criteri di giudizio a chi domani entrerà nel mondo del diritto —, forse non si ha un’idea precisa dei disastri provocati dall’applicazione per oltre due anni dei dogmi ideologici dei quali oggi si denuncia il tradimento. Se però agli studi a tavolino, la cui distanza dalla realtà è direttamente proporzionale all’intensità dell’opzione assolutamente relativistica di partenza, si affiancasse la frequentazione delle aule penali e la riflessione sulle conseguenze particolari, con riferimento al singolo processo, e generali, con riferimento agli effetti sull’intera collettività, che la “giustizia negata” ha sul livello medio di moralità e di legalità, probabilmente affiorerebbe qualche dubbio anche fra i difensori più strenui del sistema accusatorio introdotto nel 1989.
Affermare ancora oggi che “la conoscenza giudiziale scaturisce dallo scontro dialettico, nel theatrum dibattimentale, tra una positio di base e gli strumenti di confutazione” (64), negando rilievo di fonte di prova, pur se da sottoporre a verifica, a tutto quanto è avvenuto in sede di indagini, significa ignorare che il testimone, arrivato al dibattimento, in presenza dell’imputato, e dei parenti e amici di costui che assistono al giudizio, o fa scena muta, ovvero dice con maggiore frequenza il falso piuttosto che il vero: e ciò avviene tanto più spesso quanto più elevato è lo spessore criminoso dell’imputato, e quindi la sua capacità intimidatoria; sì che confrontare le dichiarazioni che il testimone rende con quelle che ha fatto in un contesto differente, privo di condizionamenti negativi, non viola regole e garanzie, ma rappresenta un elementare esercizio di buon senso.
6. Il contenuto del “decreto antimafia”
Sullo sfondo di profonda modifica dei cardini del nuovo codice di procedura penale — almeno con riferimento alla fase del dibattimento — operato dal giudice delle leggi, si è inserito il decreto antimafia; circa il quale va ricordato che quasi tutte le disposizioni hanno patito ritocchi più o meno sensibili in Parlamento (65): appare quindi opportuno, da questo punto in avanti, pur continuando a indicarlo come “decreto”, prenderlo in considerazione nella formulazione definitivamente assunta dopo la conversione in legge. Deve aggiungersi che esso, oltre alle norme di procedura, contiene novità significative riguardanti il codice penale, le misure di prevenzione, i poteri della polizia giudiziaria e l’ordinamento penitenziario; inoltre, ha reintrodotto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, eliminando nel contempo l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, e ha dettato disposizioni sull’organizzazione della giustizia minorile.
Digressione su un modo di legiferare
Chiunque è in grado di valutare quanto il contemporaneo inserimento di norme riguardanti settori così diversi in un unico testo giovi a quella chiarezza che dovrebbe caratterizzare le leggi; e non si tratta di un modo di legiferare occasionale, dettato dall’emergenza! Per esempio — un esempio fra i tanti che si potrebbero fare per sottolineare il costante affastellarsi di materie differenti in un unico contesto —, il 12 settembre 1992, la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana ha pubblicato il decreto legge n. 374 contenente Disposizioni urgenti concernenti l’incremento dell’organico del Corpo di polizia penitenziaria, il trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV, le modifiche al testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e le norme per l’attivazione di nuovi uffici giudiziari.
Ancora: il settore legislativo sicuramente più complesso è quello tributario; ebbene, secondo una ricerca del professor Victor Uckmar, ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto Finanziario all’Università di Genova, fra il 1° giugno 1984 e il 31 dicembre 1991 sono intervenuti in materia tributaria 228 decreti legge, 81 decreti del presidente della Repubblica, 185 leggi ordinarie, 32 decreti legislativi, per un totale di 526 provvedimenti di normazione primaria (66).
Il quadro è ancora più confuso se all’eterogeneità delle materie contemporaneamente prese in considerazione si somma l’oscurità lessicale delle singole disposizioni. Un saggio? Si provi a leggere d’un fiato il comma 02 dell’articolo 22 del decreto antimafia — proprio così: “comma 02”, segue il comma 01, e precede nello stesso articolo i commi 1 e 1-bis —; esso recita testualmente: “Al comma 4 dell’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, introdotto dall’articolo 14 della legge 13 dicembre 1982, n. 646, e successivamente modificato dall’articolo 20 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, il secondo periodo è soppresso”.
Di nuovo ancora: si provi a capire la diversità fra i tempi che lo stesso decreto, modificando l’articolo 347 del codice di procedura penale, ha prescritto perché la polizia giudiziaria riferisca la notizia di reato al pubblico ministero. L’ipotesi ordinaria è che all’adempimento si dia corso “senza ritardo”; ma, se sono compiuti atti con l’assistenza del difensore, la comunicazione va fatta “entro le 48 ore” dal compimento dell’atto; infine, se si tratta di un delitto di particolare gravità, la notizia va data “immediatamente”. Usando la logica e leggendo la disposizione nel contesto del codice, parrebbe che “immediatamente” voglia dire prima di “entro le 48 ore”, e che a sua volta questo termine sia più breve del “senza ritardo”: ma non sarebbe più semplice spiegarsi meglio? Quale vantaggio apporta tanta farraginosità alla corretta applicazione del diritto? E come meravigliarsi dell’annullamento per ragioni di forma di importanti provvedimenti da parte della Corte di Cassazione se una terminologia così incerta legittima le più disparate interpretazioni?
Tornando al contenuto del decreto antimafia, vanno segnalate interessanti modifiche al codice di procedura anche nella direzione di minori ostacoli per l’attività d’indagine, e in generale per l’accertamento della verità sostanziale: sono state ampliate le possibilità operative della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, consentendo, fra l’altro, oltre alle intercettazioni telefoniche, anche le “intercettazioni ambientali” per i delitti di criminalità organizzata e per agevolare le ricerche dei latitanti, mentre in generale sono stati previsti termini più lunghi e maggiore riservatezza.
Per il dibattimento è stata introdotta la possibilità — in precedenza esclusa — di acquisire sentenze irrevocabili quale prova dei fatti in esse accertati; si tratta di una novità importante soprattutto per i giudizi di criminalità organizzata: infatti, secondo l’originaria disciplina prevista dal codice, se si intendeva provare che Tizio, imputato di associazione di tipo mafioso, era partecipe di Cosa Nostra, era necessario un lavoro lunghissimo e temporalmente dispendioso, dal quale poter ricavare che Cosa Nostra esiste, che è un’associazione mafiosa, e quindi che Tizio ne fa parte, e non aveva alcun peso la circostanza che già in altri processi i primi due dati storici fossero stati accertati. Poiché queste preclusioni hanno di fatto impedito quasi del tutto, nei primi tre anni di vigore del codice, di celebrare giudizi per delitti associativi, e hanno paralizzato gran parte dei pochi giudizi avviati, la modifica apportata potrà giovare a una ripresa di iniziativa su un versante così importante. Sempre in relazione al dibattimento, e recependo in buona parte i dettami della Corte Costituzionale, il decreto ha previsto che, quando il testimone rende dichiarazioni difformi rispetto a quelle che ha riferito al pubblico ministero, il giudice acquisisce i verbali delle prime deposizioni e li valuta, ai fini della decisione, unitamente a quanto ha detto in dibattimento.
Di interesse sono pure le modifiche apportate al codice penale, poiché il decreto ha introdotto una disciplina più severa della falsa testimonianza, e in genere di quei comportamenti che ostacolano l’accertamento della verità, e ha previsto nuove figure di reato, quale lo scambio voti-denaro in occasione delle elezioni, e ulteriori ipotesi di usura. Ma fra le innovazioni certamente più significative va segnalata la restrizione dei benefici penitenziari — quelli introdotti dalla cosiddetta “legge Gozzini” —, fino alla loro quasi totale eliminazione, per coloro che riportino condanne per delitti di criminalità mafiosa, o comunque particolarmente gravi; parallelamente sono previsti sensibili benefici per chi scelga di collaborare con la giustizia: si avvia in questo caso un “programma di protezione” — che consente, fra l’altro, l’interrogatorio “a distanza” del “pentito”, con l’ausilio di strumenti audiovisivi, allo scopo di contenere i rischi della sua comparsa in pubblico —, accompagnato dalla fruizione di benefici ancora più ampi di quelli previsti dalla legge Gozzini.
Viene così realizzato quanto più volte era stato auspicato dai magistrati maggiormente impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, a cominciare da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino: lo Stato da un lato apprezza concretamente, attraverso l’adozione di premi e di misure protettive, il gesto di chi, dissociandosi dal mondo dal quale proviene, e per questo esponendosi a sicura vendetta, decide di contribuire all’attività di persecuzione dei più gravi delitti e di lotta contro le iniziative di tipo mafioso; dall’altro nega ogni beneficio a chi persiste nei collegamenti con la struttura criminale di appartenenza, e comunque rifiuta qualsiasi contributo: in questo vi è una logica ben precisa anche nella prospettiva della “rieducazione del condannato” prevista dall’articolo 27 della Costituzione, essendo ragionevole prevedere che colui che mantiene legami con l’organizzazione a delinquere torni a commettere reati una volta uscito dall’istituto di pena, sì che è opportuno mantenervelo fino all’effettiva espiazione della sanzione inflittagli.
I successi ottenuti dalle forze dell’ordine a partire dal mese di agosto del 1992 sono dovuti anche all’utilizzazione delle informazioni offerte da chi, allettato dalle nuove norme, ha scelto la strada della collaborazione; inutile ricordare che la gestione dei pentiti presenta aspetti tutt’altro che facili, a cominciare dalla verifica dei dati forniti, e dalla ricerca dei necessari elementi di riscontro. Ma, posto che mettere l’autorità giudiziaria su una pista sbagliata non conviene anzitutto al pentito, che in questo caso corre il rischio di vedersi revocati i benefici concessi, il fatto di poter contare su una pista investigativa che parte dall’interno di un’organizzazione, soprattutto se quest’ultima ha una struttura verticistica, difficilmente contrastabile in altro modo, rappresenta un vantaggio del quale ci si è privati per troppo tempo.
Il rapido esame del decreto antimafia consente quindi una valutazione nell’insieme positiva, con i limiti descritti della frammentarietà degli interventi in settori eterogenei, della confusione, non solo terminologica, e del carattere relativo delle novità al codice di procedura penale, posto che la strada era già stata spianata dalla Corte Costituzionale. Ciò non toglie che il provvedimento potrebbe rappresentare l’inizio — pur forzato, data l’incisività e la cogenza degli interventi dei giudici di Palazzo della Consulta, e l’ineludibilità degli umori della piazza — di un’inversione di tendenza sul piano normativo rispetto a una legislazione contrassegnata negli ultimi anni da profondo lassismo. I risultati ottenuti, pur nella prudenza che deve accompagnarne la valutazione e nella sommarietà dei dati a disposizione, rappresentano comunque un segnale interessante, e confermano che basta muovere qualche passo in una direzione diversa da quella avuta di mira nel recente passato per cominciare a raccogliere frutti.
Tuttavia, l’esame di altri fatti significativi, contemporanei alla conversione in legge del decreto antimafia, alimenta e fonda più di un dubbio quanto alla volontà politica di mutare rotta, quindi induce a non dare troppo facilmente per scontato che l’inversione di tendenza sia reale ed effettiva.
Alfredo Mantovano
***
(1) Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, 8a ed., Rizzoli, Milano 1992, pp. 150-151.
(2) Il brano è riportato in Secolo d’Italia, 21-7-1992.
(3) Cfr. Decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306 “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 133, 8-6-1992.
(4) Ampi stralci della sentenza ordinanza di rinvio a giudizio dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, depositata l’8 novembre 1985, sono accolti in modo organico in Rapporto sulla mafia degli anni ’80. Gli atti dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Giovanni Falcone: intervista-racconto, a cura di Lucio Galluzzo, Francesco La Licata e Saverio Lodato, S. F. Flaccovio, Palermo 1986.
(5) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, con una Presentazione di Mauro Ronco, Cristianità, Piacenza 1992, pp. 11-13.
(6) Sull’improprietà dell’utilizzo del termine “mafia” per qualificare realtà diverse da Cosa Nostra, cfr. G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, op. cit., pp. 108-113; e Idem, Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso. Conferenza tenuta nell’Aula Magna della Scuola Ufficiali Carabinieri il 13 febbraio 1992 agli ufficiali del Quadro Permanente e agli ufficiali frequentatori dei Corsi, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 3, luglio- settembre 1992, pp. 8-9.
(7) Cfr. Laura Maragnani e Katia Ferri, Cosa Nostla, in Panorama, anno XXX, n. 1363, 31-5-1992, pp. 84-90.
(8) Cfr. la Repubblica, 27-6-1992
(9) G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, op. cit., pp. 111-112.
(10) Ibid., p. 112.
(11) Ibidem.
(12) Cfr. Avvenire, 29-9-1992.
(13) Cfr. ISTAT, Statistiche della criminalità, comunicato stampa, Roma 23-7-1992.
(14) Cfr. Idem, Statistiche della criminalità, comunicato stampa, Roma 24-10-1992.
(15) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., pp. 61-65.
(16) Avvenire, 18-6-1992.
(17) Cfr. G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, op. cit., pp. 97-98 e 125.
(18) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., pp. 14-17.
(19) Cfr. Idem, Statistiche della criminalità, comunicato stampa, Roma 24-10-1992.
(20) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., pp. 40-41.
(21) Cfr. Senato della Repubblica. XI Legislatura. 31a Seduta Assemblea. Resoconto stenografico. 7 settembre 1992, p. 38.
(22) Cfr. la Repubblica, 27-6-1992.
(23) Cfr. ibidem.
(24) Cfr. ibidem.
(25) Claudio Martelli, Brevi osservazioni sul decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, contenente misure di contrasto alla criminalità mafiosa, in Documenti Giustizia, n. 6, giugno 1992, col. 613.
(26) Ibidem. La sottolineatura è nel testo.
(27) Ibid., col. 614.
(28) Ibid., col. 615.
(29) Relazione al Disegno di legge n. S/328 presentato al Senato in data 8 giugno 1992 di conversione del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, in Documenti Giustizia, n. 6, giugno 1992, col. 739.
(30) Corte Costituzionale, sentenza 18 maggio-3 giugno 1992 n. 255, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 1a serie speciale — edizione straordinaria, parte prima, 4 giugno 1992, p. 20.
(31) C. Martelli, Brevi osservazioni sul decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, contenente misure di contrasto alla criminalità mafiosa, cit., col. 613.
(32) Ibid., col. 615.
(33) Relazione al Disegno di legge n. S/328 presentato al Senato in data 8 giugno 1992 di conversione del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, cit., col 739.
(34) Ibidem.
(35) G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, op. cit., p. 154.
(36) Ibid., p. 149.
(37) Ibidem.
(38) Ibidem.
(39) C. Martelli, Brevi osservazioni sul decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, contenente misure di contrasto alla criminalità mafiosa, cit., col. 613.
(40) Ibid., col. 614.
(41) Corte Costituzionale, sentenza 31 gennaio 1992 n. 24, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 1a serie speciale, 5-2-1992.
(42) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., p. 57.
(43) Cfr. ibid., pp. 44-47.
(44) Giuseppe De Luca, La cultura della prova e il nuovo processo penale, in Studi in onore di Giuliano Vassalli: Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale 1945-1990, a cura di M. C. Bassiouni, A. R. Latagliata e A. M. Stile, vol. II, Politica criminale e criminologia. Procedura penale, Giuffrè, Milano 1991, p. 191.
(45) Ibidem.
(46) Giuseppe Di Chiara, L’inquisizione come “eterno ritorno”: tecnica delle contestazioni ed usi dibattimentali delle indagini a seguito della sentenza 255/92 della Corte costituzionale, in Il Foro Italiano, n. 7-8, luglio-agosto 1992, I, col. 2015.
(47) Ibid., col. 2017.
(48) Corte Costituzionale, sentenza 18 maggio-3 giugno 1992 n. 255, cit., p. 22.
(49) G. De Luca, studio cit., p. 190.
(50) Corte Costituzionale, sentenza 18 maggio-3 giugno 1992 n. 255, cit., p. 22.
(51) Ibidem.
(52) Ibidem.
(53) Cfr. il mio La “giustizia negata”. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, cit., pp. 35-65.
(54) G. Di Chiara, nota cit., col. 2020.
(55) Giovanni Fiandaca, Modelli di processo e scopi della giustizia penale, in Il Foro Italiano, n. 7-8, luglio-agosto 1992, I, col. 2023.
(56) Ibid., col. 2024.
(57) Ibidem.
(58) Ibidem.
(59) Ibidem. Va precisato che, di fronte alle obiezioni circa l’inefficacia del modello processuale accusatorio per combattere la delinquenza organizzata, lo stesso Giovanni Fiandaca si mostra favorevole alla contemporanea vigenza di due regimi processuali, l’uno attinente alla criminalità comune e l’altro, con maglie più strette, a quella organizzata. Inutile rilevare che la pratica attuazione di questa proposta porterebbe confusione e conflitti interminabili, non essendo quasi mai immediatamente chiaro e distinguibile se un determinato delitto si inscriva in un quadro di criminalità comune ovvero organizzata.
(60) Ibid., col. 2026.
(61) Ibidem.
(62) Corte Costituzionale, sentenza 18 maggio-3 giugno 1992 n. 255, cit., p. 22.
(63) G. Fiandaca, nota cit., col. 2025.
(64) G. Di Chiara, nota cit., col. 2016.
(65) Cfr. Legge 7 agosto 1992 n. 356, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 185, 7-8-1992.
(66) Cfr. il Giornale, 4-10-1992.