ANDREA MORIGI, Cristianità n. 246 (1995)
Una guerra psicologica planetaria, avviata da un concatenarsi di disinformazione e di irrazionalità, ha investito l’opinione pubblica a cavallo dell’estate del 1995 dopo l’annuncio, dato il 13 giugno dal neo-eletto Presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, che sarebbe ripresa la serie di esperimenti nucleari sospesi durante la presidenza di François Mitterrand. Nel tentativo di indurci a credere a una prossima catastrofe nucleare, è stato taciuto che i test, la cui pericolosità è ancora tutta da dimostrare, sarebbero avvenuti in un atollo da sempre disabitato di un arcipelago della Polinesia francese. Per inciso, le colonie francesi, a differenza di quelle dove si sono insediate comunità protestanti di origine anglosassone, hanno conservato indisturbate la lingua polinesiana. E a detta di Folco Quilici, regista e scrittore, profondo conoscitore dei mari del Sud, dietro le manifestazioni ecologiste vi è dell’altro: “La battaglia contro gli esperimenti nucleari è esagerata. Si vuole buttare fuori i francesi dal Pacifico, loro che sono stati gli unici a salvaguardare la cultura polinesiana” (1).
La disinformazione e i suoi movimenti finanziari
Della campagna di disinformazione antifrancese si è fatto vessillifero Greenpeace, un movimento ecopacifista nato nel 1969 a Vancouver, in Canada (2) e divenuto, fin dal 1974, l’elemento catalizzatore di tutte le proteste precedenti, che sono culminate nelle azioni di guerriglia successive all’effettuazione dei test da parte dei francesi.
L’organizzazione, che è stata oggetto di diverse inchieste giornalistiche, ha operato durante tutti gli anni 1970 e 1980 attaccando le industrie e i paesi occidentali ma evitando fastidi al mondo social-comunista, dando luogo anche a frequenti sospetti di contiguità con le strutture di potere russo-sovietiche (3). Inoltre, l’attività a senso unico trova un singolare parallelismo con l’opera di disinformazione e di controinformazione, promossa e utilizzata dai servizi segreti dell’ex Patto di Varsavia. Dopo la caduta del Muro di Berlino, Greenpeace si è distinta soltanto — secondo quanto riportato dalla stampa — per una manifestazione sulla Piazza Rossa a Mosca (4) e una a Pechino sulla piazza Tienanmen, senza quindi discostarsi di molto dai sentieri già percorsi.
Nel 1992, in occasione della propria campagna contro la Guerra del Golfo, Greenpeace vive la prima crisi finanziaria. Si registrano forti differenze nelle stime giornalistiche sui bilanci dell’organizzazione: vi è chi afferma che nel 1991 le entrate ammontassero a 179 milioni di dollari per scendere a 149 negli anni immediatamente successivi (5) e chi sostiene che, sempre nel 1991, non si superassero i 165 milioni di dollari di “contribuzioni” (6). Comunque, rispetto all’anno precedente, nel 1992 il movimento non riesce a sostenere i costi di gestione della struttura, presente in venticinque paesi e organizzata in cinque “direzioni generali”: Atmosfera ed Energia, Sostanze Tossiche, Nucleare e Disarmo, Ecologia Marina, Foreste Tropicali. Il personale fisso, 1.200 persone, verrà ridotto di 70 unità, mentre le attrezzature, otto barche, due elicotteri, un pallone aerostatico e un autobus, verranno ridotte con la vendita dell’imbarcazione Gondwana, utilizzata per le spedizioni in Antartide, e il bilancio verrà tagliato del 25% (7). Una seconda crisi finanziaria avviene nel 1994 evidenziando la necessità di ridurre il bilancio dell’anno successivo, previsto in 157 milioni di dollari, del 10% e di congelarlo per altri tre anni per non intaccare le riserve, ridotte a 57 milioni di dollari, mentre qualcuno informa che “le entrate sono crollate da 180 milioni di dollari nel ’91 a 140 nel ’95” e “[…] almeno 18 dei 63 coordinatori internazionali verranno licenziati per fare quadrare il bilancio” (8). Anche le campagne in corso vengono ridimensionate per comprendere Nucleare, Wildlife, Sostanze Tossiche, Effetto Serra e Strato d’Ozono (9). Attualmente, afferma Richard Titchen, il portavoce di Greenpeace, “Siamo un’organizzazione con uno staff operativo di oltre 1.000 persone” (10).
Tuttavia, nonostante la crisi, le casse della multinazionale verde sembrano mantenere una certa consistenza, specie stando a un’inchiesta giornalistica condotta in Francia, che calcola in 73,9 milioni di dollari i “fondi neri” di Greenpeace, riserve strategiche a cui soltanto tre persone avrebbero accesso, tramite una rete inestricabile di fondazioni e di associazioni depositarie di conti in Svizzera e praticamente impossibili da identificare (11).
Un documentario “proibito”
Informazioni ancora più dettagliate iniziano ad affiorare il 14 novembre 1993, quando, nonostante i tentativi di Greenpeace di bloccarne la messa in onda, TV2 Denmark, emittente televisiva statale danese, trasmette The Man in the Rainbow (12), un filmato che, a tutt’oggi, nessun’altra emittente televisiva risulta che abbia potuto riprendere sui propri palinsesti.
Anche in Italia, nulla da fare. Una videocassetta contenente una copia del documentario, consegnata a eminenti direttori di testate giornalistiche televisive, sia pubbliche che private, non è riuscita a ottenere l’approvazione per la messa in onda.
Questo, se da un lato conferma che si tratta di un argomento scottante, testimonia anche del terrore che l’apparentemente ingenua organizzazione “verde” incute ai responsabili dei mezzi d’informazione.
Il contenuto, confrontato con le notizie riportate a proposito della multinazionale ecologista, getta effettivamente una luce inquietante sull’ideologia, sulla natura e sugli scopi di Greenpeace, oltre che sui mezzi illeciti per conseguire gli scopi stessi.
La vicenda è raccontata da testimoni che potremmo definire “pentiti verdi”, che cioè non rinnegano il proprio impegno ambientalista, non si schierano a favore dei test nucleari e non fanno concorrenza a Greenpeace. Sono semplicemente suoi ex aderenti che denunciano una situazione sulla quale dovrebbe forse fare chiarezza la magistratura di quei paesi, come l’Italia, dove Greenpeace opera. Interviene con una testimonianza anche Ron Arnold, scrittore ed editore statunitense, studioso dei movimenti ecologisti, che spiega le motivazioni di fondo dell’ideologia verde definendola “catastrofista” poiché è basata sulla convinzione che ogni intervento umano provochi una catastrofe ambientale. L’estrema conseguenza di queste premesse, secondo Ron Arnold, conduce a “fermare gli umani”.
Stando a questo documentario, i leader di Greenpeace hanno trasferito decine di migliaia di dollari, donati dai loro benefattori, in conti bancari privati. Lo afferma Frans Kotte, ex economo di Greenpeace in Olanda. Dalla sua base di Amsterdam, Frans Kotte lavorava un tempo a stretto contatto con gli uffici contabili di Greenpeace International ed era in grado di controllare i flussi finanziari attivati dal movimento in diverse nazioni.
Frans Kotte testimonia dell’esistenza di conti bancari privati per decine di milioni di dollari, costituiti dalle offerte date alle campagne di Greenpeace. I conti bancari servivano per costituire holding accessibili esclusivamente ai vertici dell’organizzazione, compreso l’ex presidente David McTaggart, presidente onorario di Greenpeace International dal 1991. Secondo il documentario, il denaro è stato raccolto con i contributi di diverse campagne, come Salviamo le balene, Salviamo le foreste pluviali e Salviamo la fascia di ozono.
Inoltre, il servizio televisivo fa emergere le complicità di Greenpeace con organizzazioni terroristiche internazionali, in particolare con Earth First!. I documenti mostrati nel filmato fanno stato di un imponente flusso finanziario che va da Greenpeace a Earth First!, “Prima la Terra!”, un gruppo specializzato in “ecotaggio”, vale a dire in atti di sabotaggio a difesa della “Madre Terra”.
Le azioni terroristiche di Earth First! hanno avuto luogo in diversi punti del mondo, dal nord-ovest della costa statunitense del Pacifico alla Malesia, e hanno lasciato una lunga e sanguinosa scia di feriti e di mutilati fra minatori, boscaioli e altri lavoratori. Per impedire il taglio delle foreste, i terroristi verdi inseriscono, all’interno dei tronchi degli alberi, chiodi metallici che, al contatto con le lame delle seghe a motore, vengono proiettati violentemente all’esterno, causando spesso gravi ferite ai taglialegna. Nel corso della sua attività pluriennale, Earth First! ha distrutto strutture e di attrezzature del valore centinaia di milioni di dollari e recentemente ha messo in opera il tentativo di attaccare un impianto nucleare in Arizona.
Nell’intervista registrata, il capo di Earth First!, Michael Roselle, vanta le relazioni del suo gruppo con Greenpeace. Il supporto finanziario di Greenpeace avrebbe quindi potuto creare le condizioni per permettere a Earth First! di compiere atti di terrorismo.
Greenpeace, informata delle accuse prima che il documentario venga mandato in onda, risponde tramite la sua presidentessa, Uta Bellion, che, dopo molte esitazioni, acconsente a un’intervista. Uta Bellion nega fermamente ogni contatto con Earth First! fino a quando, mentre viene ripresa, le viene posta sotto gli occhi la documentazione che prova il contrario. Allora Uta Bellion si innervosisce e infine ammette una certa collaborazione tra Greenpeace e Earth First!.
Il servizio televisivo esplora anche la vita del primo presidente di Greenpeace, il sessantatreenne canadese David McTaggart, affermando che controlla tuttora i conti bancari segreti dell’organizzazione dall’Italia, dove ha eletto il proprio saltuario domicilio in una villa presso il lago Trasimeno, a Paciano, in provincia di Perugia, in via Sassone n. 1. Si scopre che David McTaggart, poco prima di finire in carcere per contrabbando di orologi svizzeri in Nuova Zelanda, aveva concluso un accordo per mettere la propria nave a disposizione di Greenpeace, che ne aveva necessità per dimostrare contro un test nucleare francese nel Pacifico meridionale. David McTaggart viene scarcerato dopo il pagamento della cauzione da parte del fondatore del movimento, Bennett Metcalfe, e lo porta con sé insieme ai militanti verdi sulla sua nave per la dimostrazione.
Durante il viaggio, spiega il documentario, David McTaggart si rende conto di poter accumulare molto denaro impadronendosi di Greenpeace. Da quel momento, sale rapidamente la gerarchia interna e alla fine se ne impadronisce. Il suo colpo di mano più riuscito consiste nel registrare Greenpeace come propria compagnia privata, allontanando così il resto dei leader di Greenpeace dalle funzioni direttive e decisionali.
Il servizio televisivo documenta inoltre il ruolo di Greenpeace e di altri importanti gruppi ambientalisti, compreso il WWF, il World Wildlife Fund, nella corruzione di funzionari governativi all’interno della International Whaling Commission, la Commissione Internazionale per l’Attività Baleniera. Si sostiene che questi gruppi disponevano di fondi neri per 5 milioni di dollari e che li utilizzarono alla fine degli anni 1970 e al principio degli anni 1980 per “acquistare” un numero di voti tale da assicurare che la Commissione avrebbe messo in atto una moratoria sul commercio delle balene.
Il filmato comprende pure un’intervista al biologo marino colombiano Francisco Palacio, che afferma di aver operato all’interno di uno speciale comitato segreto, formato da gruppi ambientalisti, che si riuniva regolarmente a Londra presso il quartier generale del WWF per organizzare e per pianificare le azioni congiunte, iniziando un’attività di pubbliche relazioni basata sulla corruzione. A Francisco Palacio vennero dati pieni poteri nella gestione del denaro fintanto che otteneva risultati. Secondo lo stesso Francisco Palacio, ai funzionari governativi, alle loro famiglie e ai loro amici, venivano offerti viaggi di lusso all’estero con tutte le spese pagate e denaro sufficiente per il soggiorno, viaggio di business class e hotel di lusso compresi, con destinazione a scelta.
Mentre i funzionari trascorrevano le vacanze, secondo Francisco Palacio, gli amici di David McTaggart si incaricavano di sostituirli. Il risultato fu che gli attivisti di Greenpeace riuscirono a votare alla Commissione Internazionale per l’Attività Baleniera al posto dei rappresentanti di almeno tre nazioni, senza che, peraltro, fossero nemmeno cittadini di quei paesi, i cui governi, in qualche caso, non si rendevano conto di chi li rappresentasse.
Gli ultimi sviluppi
Le notizie più recenti, relative agli sviluppi della campagna contro i test nucleari francesi, confortano le tesi contenute in The Man in the Rainbow. I vertici di Greenpeace hanno improvvisamente sostituito i dirigenti ritenuti responsabili del sequestro delle imbarcazioni impegnate nel confronto con le forze navali francesi (13). La pubblicità data dalla stampa alla decisione ha posto in non poco imbarazzo i capi dell’organizzazione, che avrebbero voluto piuttosto metterla a tacere, dimostrando così una certa abitudine alla segretezza rispetto alle questioni interne, a dispetto della massima trasparenza sbandierata durante le azioni di disturbo compiute nelle acque territoriali francesi o ai danni degli operatori economici, come pescatori di balene o di pescispada.
Fra le date importanti nella storia dei movimenti ecologisti, si possono probabilmente annoverare martedì 26 settembre 1995, quando David McTaggart subisce un arresto da parte di commandos francesi per aver varcato i confini dello spazio navale francese al largo di Mururoa, nella Polinesia francese, e il 2 ottobre 1995, quando lo stesso David McTaggart, liberato a Parigi dopo settantadue ore, tiene una conferenza stampa a Roma, di fronte all’ambasciata francese, facendo così presumere un suo ritorno all’attività pubblica.
Nel 1995 Greenpeace ha dovuto ammettere di aver condotto una campagna contro la filiale britannica della multinazionale petrolifera Shell senza che ve ne fossero fondati motivi (14). Ma proprio questo fa nascere sospetti sul metodo della multinazionale verde, perché occorre spiegarsi quali siano i motivi che hanno reso possibile una sua così repentina marcia indietro proprio in tempi di crisi finanziaria. Gli appelli a contribuire alle casse esauste dell’organizzazione assumono l’aspetto sinistro del messaggio diretto a chi dispone di denaro sufficiente a evitare che si scateni contro di lui una campagna ecologista di disinformazione. Che siano industrie chimiche o agroalimentari non sembra costituire un ostacolo per Greenpeace, che sempre nel 1995 ha rinunciato al boicottaggio di vini e di prodotti alimentari francesi, dopo che i produttori di Bordeaux e di Bourgogne avevano chiesto un milione di franchi francesi di indennizzo (15).
Decisamente interessanti potrebbero essere pure i risultati di un’indagine che affrontasse anche i rapporti fra Greenpeace e gruppi “animalisti”, che in Italia hanno condotto insieme, nel 1994, le campagne per l’abolizione delle spadare, cioè delle imbarcazioni con reti da posta derivante, che danno lavoro a circa 350 famiglie italiane. Le spadare sono ora vietate in seguito a una risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che, attraverso gli Stati Uniti d’America, ha minacciato l’Italia, nel 1994, di un embargo sui prodotti della pesca destinati all’esportazione. Alla luce di quanto si è appreso da The Man in the Rainbow, ci si può interrogare su quale sia stato il ruolo della lobby verde all’interno dell’ONU, in analogia con quanto accaduto nella Commissione Internazionale per l’Attività Baleniera, e chi tragga vantaggi dalle operazioni condotte da Greenpeace in collaborazione con gruppi, come il WWF International, il cui presidente onorario è il duca Filippo d’Edimburgo, consorte della regina Elisabetta d’Inghilterra. Quindi non sorprende particolarmente che gli obiettivi delle campagne ecologiste e quelli di alcuni Governi convergano in modo sistematico.
Andrea Morigi
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(1) Cit. in Stefano Ciervo, Uniti per lo sviluppo, in la Nuova Ferrara, 1°-10-1995.
(2) Cfr. maggiori ragguagli sulle origini e sulle prime azioni di Greenpeace, in Jean Montaldo e Jean-Louis Remilleux, Greenpeace, ovvero pace rossa, in Il Sabato, anno VIII, n. 39, 28-9/4-10-1985, pp. 4-5.
(3) Cfr. ibidem.
(4) Cfr. E. St., Da Hiroshima a Mururoa un solo no, in La Stampa, 7-8-1995.
(5) Cfr. Fabio Galvano, Il naufragio dell’impero Verde, in La Stampa, 20-10-1994; e Roberto Bonzio, Greenpeace, duri e puri si vince…, in Il Giorno, 21-10-1994.
(6) Cfr. Danilo Taino, Greenpeace rimane al verde, in Corriere della Sera, 27-7-1992.
(7) Cfr. ibidem.
(8) Sara Gandolfi, I “kamikaze verdi” alle prese con un regolamento dei conti, ibid., 24-9-1995.
(9) Cfr. F. Galvano, art. cit.
(10) S. Gandolfi, art. cit.
(11) Cfr. Alexandrine Bouilhet, Dans les coulisses de Greenpeace, in Le Figaro, 30-8-1995.
(12) La produzione del documentario, della durata di 56 minuti e il cui titolo originale danese è Manden i regnbuen, “L’uomo nell’arcobaleno”, è della Nordisk Film Broadcast per la stessa TV2 Denmark che lo ha trasmesso, con la regia di Michael Klint e la collaborazione del regista islandese Magnus Gudmundsson. Il testo è in lingua inglese.
La notizia della sua trasmissione è ricavata da un messaggio di John Covici, il cui identificativo è <490-PCNews-126beta@ccs.covici.com>, apparso il 21-11-1993 sulla rete telematica Internet.
(13) Cfr. Enrico Benedetto, Greenpeace sconfitta epura il suo Ammiraglio, in La Stampa, 24-9-1995; e S. Gandolfi, art. cit.
(14) Cfr. Marco Niada, Greenpeace: su Shell ci siamo sbagliati, in Il Sole-24 Ore, 6-9-1995.
(15) Cfr. E. Benedetto, Greenpeace fa marcia indietro, in La Stampa, 29-9-1995.