Francesco Pappalardo, Cristianità n. 351 (2009)
L’uragano Katrina, che ha travolto New Orleans nell’agosto del 2005, ha richiamato drammaticamente l’attenzione su un problema che si riteneva risolto: quello del Sud degli Stati Uniti d’America, che presenta ancora ampie sacche di povertà, sia fra i neri sia fra i bianchi, ed è caratterizzato tuttora da un senso di rassegnazione estraneo allo spirito d’iniziativa che connota il resto del paese e da una profonda diffidenza nei confronti del governo dell’Unione.
Queste e altre peculiarità sono oggetto dell’opera più recente dell’americanista e storico militare Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti (1), il cui titolo richiama intenzionalmente l’opera dell’antropologa statunitense Ruth Fulton Benedict (1887-1948) Il crisantemo e la spada (2), sulla società e sulla cultura giapponesi. A detta dello scrittore, pure statunitense, Tony Horwitz, vi sono infatti affinità fra l’impero del Sol Levante e il Sud degli Stati Uniti d’America: entrambi “[…] condividevano un codice di comportamento raffinato e ricercato che sovente appare contraddittorio e imbarazzante a estranei ottusi e rozzi” (cit. a p. VIII).
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Milanese di nascita ma torinese d’elezione, classe 1921, medaglia d’argento al valor militare nel 1944, redattore dell’edizione piemontese de L’Unità, dal 1954 si dedica all’insegnamento, prima come professore di storia e filosofia nei licei, quindi all’università: libero docente di Storia contemporanea, poi ordinario di Storia Americana all’università di Genova, della quale è attualmente professore emerito. È stato Visiting Professor in diverse università americane, da Toronto, in Canada, alle statunitensi Harvard, nel Massachusetts, Richmond in Virginia, Notre Dame nell’Indiana, la New York University e l’University of Georgia. Fra le sue opere, due ponderose storie della Guerra Civile nordamericana (3), una storia della marina confederata (4) che, tradotta negli Stati Uniti d’America, gli ha meritato il Premio Roosevelt per la storia navale, assegnato per la prima volta a un non americano, e una storia delle Guerre Indiane (5). Ha curato, inoltre, la prima edizione critica de Le opere di Raimondo Montecuccoli (6). È stato per dieci anni rappresentante dell’Italia nel Comitato Mondiale per la Storia Militare dell’UNESCO, socio fondatore e primo presidente della Società Italiana per la Storia Militare, presidente dell’Associazione di Studi Canadesi, membro della National Geographic Society, dell’American Association for Military History e dello US Naval Institute.
1. La nascita del Sud
Luraghi parte da lontano, cioè da quando il castigliano Lucas Vásquez de Ayllón (1475 ca.-1526), nel luglio del 1526, fonda la prima colonia, San Miguel de Guadalupe, in quella che sarà la Carolina Meridionale, portando con sé alcuni africani. Da qui l’avvio di quella mescolanza di razze che avrebbe tanto cambiato i destini e la cultura dei suoi abitanti, bianchi e neri. Spiega, con un filo d’ironia, Marshall Frady, un giornalista molto attivo al tempo della lotta per i diritti civili: “È stato il nero che, in verità, ha fatto il bianco del sud così diverso dai bianchi del resto del paese. Noi siamo molto più vicini a loro [i neri], dannazione, di quanto non lo siamo alla gente bianca di lassù, di New York e Minneapolis. Noi abbiamo lo stesso modo di vivere in scioltezza, lo stesso tipo di umorismo, lo stesso godimento nel cibo… All’inferno, abbiamo anche preso da loro la parlata. Siamo solo un po’ più pallidi in tutte queste cose. E questo è tutto” (cit. a p. 185, nota 2).
Con i conquistadores arrivano i missionari: mentre i gesuiti, spintisi nell’attuale Virginia cinquant’anni prima degl’inglesi, vengono sterminati dai nativi, i francescani ricoprono la Georgia e il Texas di missioni le cui rovine si possono ancora ammirare nella boscaglia. La missione trasforma radicalmente le nuove terre sotto il profilo agricolo e quello zootecnico, “[…] scrivendo il primo capitolo nella storia della civiltà sudista” (p. 17). L’introduzione di nuove colture e la trasformazione di quelle indigene — soprattutto il tabacco e la canna da zucchero, poi il cotone — segnano per sempre l’economia locale, e la missione, vero e proprio microcosmo autosufficiente, fornisce il modello ideale e pratico per la grande piantagione.
Un contributo importante viene anche dai francesi. Nel 1524 una spedizione guidata dal fiorentino Giovanni da Verrazzano (1485-1528) pone piede sulla costa della futura Carolina del Nord ed esplora la baia del fiume Hudson — la prima denominazione del sito di New York è Nouvelle Angoulême — e l’estremità orientale della penisola di Terranova. I primi stanziamenti nell’area, specialmente di ugonotti, risalgono al 1562 con la fondazione di Beaufort e di Port Royal sulle coste della Carolina Meridionale e della Florida. Ma gli spagnoli replicano tre anni dopo, costruendo in Florida la città di San Augustin, la prima del Sud e di tutti gli Stati Uniti d’America, ed eliminando gli stanziamenti francesi della zona. Più durature saranno le fondazioni stabilite lungo il fiume San Lorenzo, in una terra denominata prima Nuova Francia quindi, con un nome indigeno, Canada. Nel giro di pochi decenni, con l’aiuto delle missioni gesuitiche, viene realizzato un grande dominio, che si estendeva dalla foce del San Lorenzo alle Montagne Rocciose e oltre, dalla zona subartica al Golfo del Messico. “Colà i francesi dettero vita a un tipo di società analoga a quella creata dagli spagnoli e dai portoghesi nelle altre parti del continente, una società che gravitava attorno al ceto dei “signori”.
“[…] Nacque e si sviluppò così l’America boreale; e la sua aristocrazia, come tutte le classi analoghe, era anche dominata dallo spirito avventuroso dell’esplorazione, della lotta e della conquista” (p. 18). Nel 1718 viene fondata Nouvelle Orléans: “La colonia crebbe rapidamente; presto vi furono importati centinaia di schiavi africani per la produzione di tabacco, riso, indaco e la città fiorì con la sua aggraziata architettura” (ibidem).
Nel frattempo erano giunti anche gl’inglesi, che da tempo s’interessavano dell’America Settentrionale attraverso la schiera di aristocratici che facevano corona al trono di Elisabetta I Tudor (1533-1603). Nel 1584 sir Walter Raleigh (1552-1618), gentiluomo di Corte, che incarnava l’archetipo del gentiluomo del Sud, fonda la prima colonia nell’isola di Roanoke, nell’attuale Carolina Settentrionale, che finisce misteriosamente, e solo nel 1607 le navi di una compagnia commerciale londinese entrano nella Baia di Chesapeake, in Virginia, e vi fondano, in onore di re Giacomo I Stuart (1566-1625), la prima città inglese in America, Jamestown: ha così inizio la colonizzazione britannica, la più presente — quando non l’unica — nelle opere di divulgazione storica (7).
Nel 1620 puritani guidati da John Winthrop (1588-1649), ricco proprietario del Suffolk, si stanziano nel Massachusetts — fra la Nuova Francia a nord e la Virginia a sud —, dove danno origine a un esperimento di repubblica a caratteri fortemente teocratici e liberticidi nei confronti delle altre appartenenze religiose. “Nasceva così un nucleo che non aveva nulla a che fare con l’Inghilterra dei “cavalieri”: anzi, ne rifiutava esplicitamente e categoricamente gli ideali, la mentalità, i fini sociali” (p. 24). Qui “cavalieri” traduce il termine cavalier, che in Inghilterra è sinonimo di “realista”, cioè sostenitore di re Carlo I Stuart (1600-1649) nella guerra contro i seguaci di Oliver Cromwell (1599-1658).
2. Un contrasto radicale
Fin dai primi anni risulta evidente una profonda differenza fra le colonie del Nord e quelle del Sud. Nel New England puritano l’inclemenza del clima e la scarsa disponibilità di terreno coltivabile rendono poco produttiva la monocoltura e favoriscono lo sviluppo di un’organizzazione sociale fondata sul township system, cioè sulla creazione di agglomerati urbani, che diventano centro della vita sociale e del potere economico e politico. Nel Meridione, dove il terreno coltivabile abbonda, prevale un’agricoltura estensiva basata sulla grande piantagione e sull’impiego di manodopera schiava di provenienza africana. È un’organizzazione fondata sugli headrights, i diritti individuali, base eccellente per lo sviluppo di proprietà agricole autonome e di una società che si reggeva sul decentramento. “Non poteva esservi contrasto più radicale; e in esso erano in germe non solo tutti gli sviluppi futuri delle colonie in terra nordamericana; ma tutte le lotte che avrebbero diviso e insanguinato il continente per secoli” (p. 25).
Da un lato, dunque, le genti del Sud, meno stimolate dal pungolo della concorrenza e del profitto e più portate alla liberalità, alla magnificenza, alla ricca vita sociale condotta in piccole città, da cui spirava “tutta la grazia, l’eleganza, l’atmosfera rilassata e anche gaudente del Sud” (p. 51), tanto da indurre lo scrittore statunitense Henry Louis Mencken (1880-1956), ateo militante, critico spietato della propria patria, a scrivere: “Nel Sud c’erano persone di delicata immaginazione, di istinti urbani e di modi aristocratici — in breve, gente superiore — in breve gentiluomini… Era una civiltà con molti aspetti eccellenti — forse la migliore che l’emisfero occidentale vide mai — senza dubbio la migliore che questi Stati abbiano mai veduto” (cit. a p. 51). Dall’altro lato, le popolazioni del Nord, che Luraghi identifica essenzialmente con il capitano d’industria o il grande finanziere, residenti in fumose città industriali, erano dedite allo sfruttamento spietato dei ceti più umili, predicavano il culto del lavoro e marchiavano come la peggiore delle colpe la “pigrizia” dei grandi piantatori, legati a ritmi di vita propri di una società preindustriale.
Con l’indipendenza degli Stati Uniti d’America i contrasti assumono anche natura politica: mentre la grande borghesia settentrionale, rappresentata simbolicamente dal primo segretario al Tesoro, cioè ministro delle Finanze, Alexander Hamilton (1755-1804), di New York, animatore del Partito Federalista — in verità centralista —, vede il futuro degli Stati Uniti d’America in un grande organismo economicamente centralizzato, in cui gli Stati fossero poco più che province e la gestione finanziaria fosse affidata a una banca centrale, i piantatori del Sud difendono le autonomie locali e la molteplicità degl’istituti bancari che esercitavano il piccolo credito agrario a basso tasso d’interesse (8).
3. La “peculiare istituzione”
Nel 1619 un negriero olandese sbarca a Jamestown venti schiavi africani, introducendo quella che sarebbe diventata la “peculiare istituzione” (p. 27) del Sud. Ma nel New England la schiavitù è praticata per poco tempo, sia per la prevalente connotazione commerciale e manifatturiera della regione sia per la maggiore disponibilità di manodopera libera, dovuta all’immigrazione europea. I neri, però, sono tenuti ai margini della società non solo dai benestanti ma anche dai ceti più umili, preoccupati di averli come rivali sul mercato del lavoro. I suoi abitanti affiancano con successo i mercanti inglesi, olandesi e francesi nel rifornimento delle colonie meridionali mediante la tratta, “un fenomeno ancora più crudele della stessa schiavitù” (p. 29), realizzando enormi profitti che consentiranno lo sviluppo della rivoluzione industriale, fino a quando, il 1° gennaio 1808, il governo federale porrà definitivamente fuori legge la tratta di cui il Sud aveva dovuto, “[…] volente o nolente, diventare un mercato obbligato di sbocco” (p. 24).
I piantatori, pur necessitati dalla carenza di manodopera bianca a utilizzare schiavi, intuiscono presto i limiti e i rischi di tale sistema, consapevoli che quel tipo di economia non aveva possibilità di progresso né di trasformazione e che il sistema non era riformabile se non a prezzo di provocare il crollo dell’edificio che sorreggeva. Si pongono allora il problema di come trattare persone di cui non potevano negare la dignità — “tra il tempo dei romani e l’età moderna c’era stato di mezzo il cristianesimo” (p. 31) — e cercano di legiferare contemperando il rispetto dell’autorità del proprietario di schiavi con il rispetto dei diritti elementari di questi ultimi. Ma il vero rapporto fra padrone e schiavo sarà fondato su qualcosa di extralegale, “le qualità personali di entrambi” (p. 32). Luraghi si rende ben conto del rischio di sostituire una leggenda rosa a una leggenda nera molto diffusa, ma sa anche — alla luce “di migliaia di lettere e di centinaia di diari e di lettere di famiglie sudiste, nonché delle testimonianze di ex schiavi custodite negli archivi degli Stati Uniti” (ibidem) — che in quegli Stati, prima della Guerra Civile, non esisteva discriminazione razziale. Nelle piantagioni minori, dov’era possibile un rapporto personale più diretto, gli schiavi mangiavano alla stessa tavola dei padroni e dormivano nelle stesse case, e i loro rapporti erano improntati spesso alla fiducia e alla familiarità.
“Perché — chiede Luraghi — nel Sud degli Stati Uniti le insurrezioni di schiavi rimasero un fenomeno del tutto sporadico e marginale?” (p. 38). Perché — risponde — la classe dirigente locale riesce a governare conquistando, fino a un certo punto, il consenso delle persone a essa sottoposte: “e ciò fu realizzato mediante il paternalismo esercitato su larga scala e non senza generosità, mescolato con una “giusta misura” di repressione” (ibidem). Ciò non significa che non vi siano fenomeni di resistenza, che si manifestavano innanzitutto con i furti, giustificati dagli schiavi come appropriazione di beni che, facendo parte della piantagione, erano a disposizione dell’intera comunità. Non mancano neanche uccisioni di sorveglianti particolarmente brutali, ma non sono infrequenti i casi in cui gli schiavi accorrono a difendere i padroni contro i banditi. E la cosiddetta “ferrovia sotterranea”, che avrebbe agevolato la fuga verso gli Stati in cui la schiavitù non esisteva, si rivela un fenomeno molto inferiore alla leggenda creata intorno a essa, anche perché gli schiavi sapevano della cruda discriminazione razziale esistente al Nord.
Resta ovviamente il fatto che gli schiavi, pur non subendo di regola violenti maltrattamenti — “uno studio anche superficiale delle condizioni di lavoro nell’Ottocento mostra per esempio che i braccianti agricoli […] vivevano assai peggio degli schiavi africani d’America” (p. 33) —, non godevano di una protezione che permettesse loro di migliorare le proprie condizioni, e soprattutto erano destinati a rimanere schiavi per sempre. Luraghi coglie bene le differenze fra aree cattoliche e protestanti: “La cosa profondamente negativa del Sud di ceppo inglese e protestante era che i nati da un libero e da una schiava erano schiavi e su di essi pesava la maledizione razzistica, mentre in Brasile essi erano liberi, per cui fu detto che il Brasile era “un inferno per i neri, un purgatorio per i bianchi e un paradiso per i mulatti” che godevano dei privilegi di entrambe le razze” (p. 36). Ciò vale anche all’interno degli Stati Uniti d’America: come sottolineato dal sociologo delle religioni Rodney Stark, le statistiche mostrano che a New Orleans — città a maggioranza cattolica e a lungo sotto amministrazione francese — la “percentuale dei neri che erano liberi” (9) nel 1830 era del 41,7% contro il solo 3,9% della non troppo lontana città protestante di Nashville, nel Tennessee.
Il torto del Sud, secondo Luraghi, non fu tanto l’aver tollerato l’esistenza della schiavitù — “che in un dato periodo storico era considerata, ahimé, come cosa del tutto normale dall’intera società così detta “civile”” (p. 197) —, quanto l’incapacità di trovare una soluzione per eliminare un’istituzione anacronistica, che stava trascinando la società meridionale verso la catastrofe.
4. Dall’apogeo alla crisi
Inizialmente gli uomini del Sud sono al vertice delle istituzioni politiche e militari, esprimendone le classi dirigenti e guidando le colonie all’indipendenza. Dei primi cinque presidenti statunitensi quattro vengono dagli Stati meridionali, e tra questi il padre della patria George Washington (1732-1799). Il rapporto con gli schiavi, autoritario e nello stesso tempo paternalista, contribuisce ad addestrare gli aristocratici al comando, così come la vita agricola e la pratica della caccia fa dei grandi piantatori e dei piccoli proprietari uomini in grado di cavalcare, usare le armi e affrontare l’inclemenza della natura. Del loro valore in battaglia saranno testimoni molti avversari, tra cui il generale William Sherman (1820-1891): “La guerra è il loro ambiente… Essi sono splendidi cavalieri, tiratori di prim’ordine e del tutto sprezzanti del pericolo” (p. 43). L’aspetto negativo di ciò era dato dall’inclinazione alla violenza, dalla reazione risoluta a quanto era ritenuto insultante, dalla difesa dell’onore a ogni costo, che conduceva spesso al duello.
L’attrito latente fra i due mondi va avanti per alcuni decenni e si trasferisce sul piano dei destini dei nuovi Stati dell’Ovest: qui i cosiddetti freesoilers — i fautori della distribuzione gratuita delle terre demaniali ai piccoli agricoltori — volevano riservare le terre soltanto ai “bianchi liberi”, non per ragioni di principio ma per escludere il Sud dalla corsa all’Ovest ed evitare l’immissione di manodopera nera. Il movimento abolizionista nel Nord “[…] rimaneva minoritario e sostanzialmente impopolare; ma esso dava alla battaglia politica contro il Sud molte parole d’ordine, e un colore di intransigenza (e di intolleranza) tipico dei puritani” (p. 66). La Guerra Civile non nasce, dunque, dalla questione della schiavitù in quanto tale, che però è la scintilla che dà fuoco alle polveri di un conflitto fra due mondi ormai ampiamente diversi.
L’elezione di Abraham Lincoln (1809-1865), che raccoglie suffragi quasi esclusivamente negli Stati settentrionali, viene percepita al Sud come il compimento dell’accerchiamento da parte delle forze ostili del Nord. È così che, in seguito alla dichiarazione di secessione della Carolina Meridionale, gli eventi precipitano. Nasce la Confederazione — gli Stati Confederati d’America —, contrapposta a ciò che resta dell’Unione. Prevalgono in quel momento, secondo Luraghi, i sentimenti più irrazionali, la tradizione bellicosa, la volontà di riscattare cavallerescamente il proprio onore combattendo contro “una nazione di bottegai incapaci di battersi” (p. 74). Ma il Rebel yell, fiero grido di guerra dei confederati, non basta sui campi di battaglia di Gettysburg in un conflitto totale e contro la formidabile attrezzatura industriale del Nord, che consente una produzione in quantità inimmaginabili, lo spostamento rapido di masse enormi con la ferrovia e il loro controllo a distanza con il telegrafo.
La guerra si chiude il 9 aprile 1865 con la resa del comandante confederato, generale Robert Edward Lee (1807-1870), al comandante unionista, generale Ulysses Simpson Grant (1822-1885), ad Appomatox, in Virginia. Il costo umano è elevatissimo per entrambe le parti. Quanto ai danni materiali, oltre ai centri abitati distrutti, bisogna ricordare nel Sud lo smantellamento della rete ferroviaria e stradale, la distruzione dei campi coltivati e i gravi danni al patrimonio zootecnico. “L’effetto della guerra — ha scritto Luraghi in un’altra sua opera — fu la riduzione del Sud a colonia, qualcosa di simile a quello che secondo le denunce dei nostri meridionalisti accadde in Italia dopo il Risorgimento, ma in una misura infinitamente più drastica e più grave. In tutto e per tutto il Sud ebbe il destino dei paesi agricoli economicamente arretrati dell’Oriente e dell’Africa che furono colonizzati dalle potenze conquistatrici europee: mercato obbligato di sbocco per la produzione industriale del Nord (in seguito alla tariffa di protezione); campo di attività per gli speculatori settentrionali; perfino fonte di reddito per le parti industriali dell’Unione attraverso l’imposizione di una tassa sul cotone che rese la bellezza di 68 milioni di dollari (provocando le ire, è vero, di molti affaristi del Nord che dopo la guerra si erano stabiliti nel Mezzogiorno per coltivar cotone sulle proprietà acquistate o affittate a basso prezzo). Il risultato fu che se il Sud era povero prima della guerra, dopo lo divenne ancora di più; nel 1900, quasi mezzo secolo dopo il conflitto, il Sud, che un tempo aveva prodotto press’a poco il 50% della ricchezza nazionale, ne produceva soltanto il 10%” (10).
5. La Ricostruzione
“Il lungo viaggio attraverso la notte” (p. 95) è molto duro nel periodo della cosiddetta Ricostruzione (1865-1877). L’emancipazione della popolazione nera è attuata in modo punitivo per la popolazione bianca e l’economia del Sud ne rimane sconvolta, causando uno stato di povertà di cui i neri sono i primi a soffrire. Vengono poste così le basi per incomprensioni e per risentimenti che pregiudicano la convivenza delle due realtà. Inoltre, il Sud viene invaso da una massa variegata di persone provenienti dal Nord, in cui a pochi riformatori umanitari si affiancano molti speculatori intenzionati ad acquistare a poco prezzo le proprietà svendute sotto lo stimolo della necessità.
La memoria storica delle ferite della sconfitta si perpetuerà, generando il risentimento e l’insofferenza verso quel Nord che voleva imporre non solo il suo mercato ma anche la sua morale. Vengono poste le radici di un malessere che si esprimeva a volte in forme molto violente — in quegli anni il Ku Klux Klan, nato come un club sociale in Tennessee e diventato strumento di resistenza armata contro l’occupazione militare, passa in mano agli estremisti di tendenze razziste — e che si manifesta ancora con la diffidenza e la sfiducia verso il potere centrale federale.
I moderati, provenienti dai ceti conservatori e dai residui della vecchia aristocrazia del Sud, riescono a garantire ai neri almeno un ventennio di vita relativamente tranquilla, realizzando in parte l’inserimento degli ex schiavi nella vita sociale e politica. Ma con la crisi economica e finanziaria di fine secolo vanno al potere “progressisti” di estrazione più umile, che in parte rappresentavano quegli elementi faziosamente ostili ai neri cui i moderati erano stati avversi. In ciò sono appoggiati dai bianchi di più bassa estrazione che si trovavano a competere con i neri per i posti di lavoro a basso salario. Si diffondono così quei metodi di discriminazione razziale un tempo caratteristici del Nord: la limitazione al diritto di voto e la segregazione nei locali pubblici e sui mezzi di trasporto.
“Da tempo serpeggiava fra gli elementi più miserabili del Sud un razzismo più o meno latente. È un fatto apparentemente paradossale della storia sudista che le aspirazioni popolari e democratiche tra i bianchi di più bassa estrazione andassero di pari passo con la tendenza a rivendicare una maggiore discriminazione razziale; dopo l’emancipazione degli schiavi, sempre più i bianchi poveri si erano trovati a competere con i neri per i posti di lavoro ricompensati con bassi salari (e di ciò la propaganda razzista gettava, falsamente, la responsabilità sulle spalle dei neri la cui concorrenza avrebbe consentito di ridurre le mercedi). La massa dei bianchi poveri (e dopo la guerra civile erano la stragrande maggioranza della popolazione di tale etnia) viveva nel terrore di essere spinta all’ultimo gradino della scala sociale e quindi aspirava a cacciare i neri ancora più in basso e a rivendicare privilegi democratici per sé, negandoli a questi ultimi” (p. 125).
L’aver capitolato di fronte alla pressione di gruppi estremisti, lasciando imporre all’intera società le leggi segregazioniste, è la seconda colpa che Luraghi imputa al Sud — dopo quella di non aver saputo trovare una soluzione adeguata al problema della schiavitù —, espostosi nuovamente al disprezzo di critici spesso ipocriti e privi di scrupoli.
6. La fine della segregazione
Nei primi dieci anni del secolo XX il Sud attraversa uno dei periodi peggiori della sua storia finché, con l’elezione alla presidenza federale di Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), nel 1912, per la prima volta dopo quasi mezzo secolo s’insedia alla Casa Bianca un presidente proveniente da quell’area. Gli ex Stati confederali risorgono, non solo economicamente ma pure civilmente e culturalmente, com’è dimostrato anche dalla rinascita delle arti. Il Sud, amante delle lettere e della musica, che aveva già dato alla cultura dell’intero paese un autore come Edgar Allan Poe (1809-1849) — di origini bostoniane ma direttore del Southern Literary Messenger, la più importante rivista letteraria del Sud —, esprime figure quali lo scrittore georgiano Joel Chandler Harris (1848-1908), che per primo eleva a dignità letteraria i tesori del folklore afroamericano, Thomas Nelson Page (1853-1922), cantore della civiltà virginiana, e soprattutto il missouriano Samuel Langhorne Clemens (1835-1910), più noto come Mark Twain. La popolazione nera contribuisce con gli spiritual e con una musica basata sui ritmi popolari afroamericani: dominano la scena Scott Joplin (1867-1917), vero creatore del ragtime, e William Cristopher Handy (1873-1958), considerato il padre dei blues. Il Sud darà poi un contributo ancora più grande all’arte e alla musica nordamericana con il jazz, nato a New Orleans e portato alla ribalta soprattutto da Louis Armstrong (1901-1971) ed Ella Jane Fitzgerald (1917-1996).
La Prima Guerra Mondiale (1914-1918), che danneggia le esportazioni di cotone, della cui produzione gli Stati meridionali vivevano, l’invasione di un parassita, che nel 1920 distrugge oltre il 30 per cento del prodotto, e la Grande Depressione degli anni 1930 prostrano nuovamente gli Stati meridionali, che si riprendono parzialmente con il programma di ricostruzione del presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), il cosiddetto New Deal; un’età caratterizzata da interventi sociali ed economici, ma anche da una nuova fioritura artistica.
Negli anni 1930, nel Tennessee, alcuni scrittori e poeti, che si denominavano Southern Agrarians — ma erano già noti come fuggitive poets per aver dato vita nel 1922 alla rivista The Fugitive, di tono conservatore, in cui si difendevano le tradizioni agresti del vecchio Sud — si oppongono all’industrializzazione forzata e alla commercializzazione della vita agraria. I più noti sono Allen Tate (1899-1979), Robert Penn Warren (1905-1989) e Donald Davidson (1893-1968), che nel 1930 pubblicano, con altri nove autori, un vero e proprio manifesto di rinascita culturale (11), seguito, nel 1936, da un’opera curata da Herbert Agar (1897-1980) e da Tate (12), che segna l’”alleanza” con il pensiero dei distributivisti inglesi Gilber Keith Chesterton (1874-1936), Hilaire Belloc (1870-1953) e il domenicano Vincent McNabb (1868-1943).
Ma la letteratura è dominata da William Faulkner (1897-1962), nato nel Mississippi, ed è segnata dalla pubblicazione, nel 1936, di un romanzo destinato a sollevare grande clamore, Via col vento (13), della scrittrice georgiana Margaret Mitchell (1900-1949). L’autrice è stata accusata di aver offerto una descrizione di quella società idealizzata e lontana dalla realtà, ma Luraghi, “dopo aver lavorato per anni negli archivi e aver letto migliaia di lettere famigliari di gente del vecchio Sud (e non già la corrispondenza di politici o di uomini pubblici, scritta con uno sguardo alla futura pubblicazione; ma lettere del tutto private, vergate senza secondi fini, di madri ai figli, di questi ai genitori, di fratelli a sorelle, di fidanzati, di mariti)” (pp. 163-164), afferma che il quadro dell’antica società delineato in quelle pagine è del tutto veritiero.
Per contare sulla fedeltà dei democratici del Sud, Roosevelt aveva congelato il problema della segregazione razziale. Sarà il presidente Dwight David “Ike” Eisenhower (1890-1969), Repubblicano, a decretare la fine della segregazione, sulla spinta della sentenza della Corte Suprema del 17 maggio 1954, che ne decreta l’incostituzionalità. Nel paese prende avvio un’applicazione graduale della sentenza per eliminare ogni forma di discriminazione, ma piccoli gruppi di agitatori neri e di demagoghi bianchi focalizzano la lotta contro la segregazione quasi del tutto nel Sud, suscitandovi un’ondata d’insicurezza e di paura che contribuisce a deteriorare i rapporti fra i due gruppi. “Il 6 febbraio 1956 si ebbe il primo episodio di opposizione tumultuaria all’ammissione di una ragazza nera nell’Università dell’Alabama — dopo che si erano avute più di mille ammissioni nell’intero Sud!” (p. 174). Un ulteriore passo avanti è compiuto dal presidente Lyndon Baines Johnson (1908-1973), Democratico e risoluto antisegregazionista, che il 2 luglio 1964 firma la Legge sui diritti civili. Ma mentre la segregazione de jure scompare nel Sud, aumenta nel Nord quella di fatto. Luraghi riporta in proposito la spiegazione offerta da “un vecchio signore sudista […]: “Sa qual è la differenza tra noi e il Nord rispetto ai neri? Noi li amiamo come individui, ma ne diffidiamo come massa; i nordisti li amano come massa (cioè come astrazione) ma li odiano come individui”” (p. 180).
Fra i neri residenti al Nord si diffondono organizzazioni estremiste. I movimenti del Black Power, “Potere Nero”, e dei Black Muslims, “Musulmani Neri” — noti per il loro razzismo e il loro radicalismo politico —, nascono nei ghetti di Chicago, Detroit e New York. Figura simbolo è Malcolm X (1925-1965), che si contrappone anche violentemente ai seguaci di Martin Luther King (1929-1968), sostenitore della resistenza non violenta. Nel Sud, invece, la coesistenza fra la comunità bianca e quella nera comincia a svolgersi più armonicamente. È significativo che nel 2001, quando la popolazione dello Stato del Mississippi è chiamata a decidere sulla richiesta di modificare la sua bandiera, perché su di essa campeggia la croce confederale, il 71 per cento degli elettori si pronuncia contro. Poiché i bianchi in quello Stato sono circa il 51 per cento, è evidente che una larga percentuale di neri ha votato per conservare la bandiera.
L’ultimo attentato alla pacifica convivenza viene dall’ideologia del politically correct, che conduce una gigantesca operazione di falsificazione della storia, fondata sulla rudimentale spiegazione moralistica della Guerra Civile e intesa a mutilare il Sud della propria memoria. “La cosa grave (una delle cose gravi) — conclude Luraghi — è il senso di risentimento e di frustrazione che tutto ciò eccita nel Sud sia bianco che nero; ma che, per altro, fa rivivere alcuni tra i più grandi valori della tradizione sudista: la diffidenza e l’attacco contro lo “Stato leviatano”; la difesa dei diritti individuali e del proprio patrimonio storico; lo sforzo di sintetizzare l’individuale e il sociale; la difesa dei diritti delle minoranze contro maggioranze talvolta intolleranti e prevaricatrici” (p. 199).
L’elezione del sen. Barack Hussein Obama alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America rappresenta senz’altro un momento significativo, per quanto Obama non sia afro-americano in senso stretto: la scelta degli americani potrebbe contribuire a chiudere “[…] un lungo ciclo della storia del loro Paese, iniziato con la schiavitù e la lotta delle Chiese per la sua abolizione, e ha un significato insieme epico e di riconciliazione nazionale che trascende ogni altra considerazione, travolgendo anche il primato dei valori non negoziabili invano ricordato dalle autorità religiose” (14).
Note
(1) Cfr. Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti, Donzelli, Roma 2007. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(2) Cfr. Ruth Fulton Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, 1946, trad. it., Dedalo, Bari 1991.
(3) Cfr. R. Luraghi, Storia della guerra civile americana. 1861-1865, Rizzoli, Milano 1985; e Idem, Cinque lezioni sulla guerra civile americana, La Città del Sole, Napoli 1999.
(4) Cfr. Idem, Marinai del Sud. Storia della Marina confederata nella Guerra civile americana, Rizzoli, Milano 1994.
(5) Cfr. Idem, Sul sentiero della guerra. Storia delle guerre indiane nel Nordamerica, Rizzoli, Milano 2000.
(6) Idem (a cura di), Le opere di Raimondo Montecuccoli, Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio storico, Roma 1988, 3 voll.
(7) Cfr. le diverse colonizzazioni, in Paolo Mazzeranghi, Le tre colonizzazioni dell’America Settentrionale, in Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris Editori, Crotone 2006, pp. 187-212.
(8) Cfr. le due anime degli Stati Uniti d’America, in Thomas J. Fleming, Stati Uniti d’America: l’Old Republic come Ancien Régime, intervista a cura di Marco Respinti, in Cristianità, anno XXI, n. 217, maggio 1993, pp. 9-14; e in P. Mazzeranghi, Gli Stati Uniti d’America: la Guerra d’Indipendenza (1776-1783) e la Guerra Civile (1861-1865), in G. Cantoni e F. Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, cit., pp. 213-242.
(9) Rodney Stark, For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformations, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003, p. 323.
(10) R. Luraghi, Storia della guerra civile americana. 1861-1865, cit., pp. 1282-1283.
(11) Cfr. Twelwe Southerners, I’ll Take My Stand: The South and the Agrarian Tradition, Harper and Brothers, New York 1930.
(12) Cfr. Herbert Agar e Allen Tate (a cura di), Who Owns America? A New Declaration of Independence, Houghton Mifflin Company, Boston 1936.
(13) Cfr. Margaret Mitchell, Via col vento, trad. it., Mondadori, Milano 2008.
(14) Massimo Introvigne, Obama, diritti civili e religione, in Il Corriere del Sud. Periodico indipendente culturale-economico di formazione ed informazione, Crotone 20-11-2008, p. 13; cfr. anche M. Respinti, Stati Uniti d’America, 4 novembre 2008: l’elezione del 44° presidente federale, in Cristianità, anno XXXVI, n. 349-350, settembre-dicembre 2008, pp. 41-48.