Miguel Poradowski, Cristianità n. 15 (1976)
Tra i moltissimi teologi (o meglio pseudoteologi) che hanno contribuito alla marxistizzazione della teologia, pare che il posto d’onore (1) spetti al pastore protestante Karl Barth (1886 – 1968).
Karl Barth mostrava già fin dalla sua giovinezza, prima della prima guerra mondiale, quando era vicario di una parrocchia protestante a Ginevra (1909), una grande simpatia per il marxismo, sia per la sua dottrina che per la sua prassi rivoluzionaria. Nonostante la sua missione di pastore di anime, Karl Barth si impegnò in attività puramente politiche, iscrivendosi al partito marxista (quello socialdemocratico) svizzero nel 1915, cioè prima della scissione, quando questo partito era composto sia da socialisti che da comunisti (marxisti-leninisti). Secondo Marquardt (2), Karl Barth entrò nel partito marxista svizzero per radicalizzare le attività di questo raggruppamento politico. Si sa che il partito marxista svizzero, come quello tedesco, si era pronunciato a favore della guerra (il 4 agosto 1914). Allora, in questi partiti internazionali (entrambi appartenevano infatti alla Seconda Internazionale) i sentimenti nazionali avevano il sopravvento sul pacifismo internazionale. Per Karl Barth – che in questo periodo era pastore a Safenwil nell’Argovia (fra il 1911 e il 1922) – questa posizione del partito marxista svizzero era uno scandalo e decise di entrare in esso proprio per rafforzare la posizione più radicale del partito, cioè la posizione comunista (marxista-leninista). Una volta dentro al partito marxista svizzero, Karl Barth si sforzò di portarlo verso la posizione leninista. A quanto pare partecipò alle riunioni della famosa conferenza di Zimmerwald (1915) (3), in cui Lenin pose le fondamenta della futura Terza Internazionale (comunista). Ma c’è di più: quando nel 1922 Lenin “rallentò” un po’ (secondo la sua famosa tattica: “due passi avanti e uno indietro”, Karl Barth gli rimproverò la mancanza di … radicalismo (estremismo).
Marquardt dimostra che nel famoso paragrafo del Römerbrief (il commento di Karl Barth al capitolo XIII della lettera di san Paolo ai Romani) egli polemizzò con il saggio di Lenin Stato e Rivoluzione. L’edizione tedesca del saggio di Lenin appare nel 1918 (4) e nel lavoro di Karl Barth si dissente dalla posizione di Lenin. Barth si pone infatti più a sinistra, esigendo non soltanto il rifiuto di ogni metafisica dello Stato, ma anche che la istituzione dello Stato fosse immediatamente e completamente sostituita dalla rivoluzione marxista, che in questo periodo si sviluppa in Russia. Secondo Barth, lo Stato è essenzialmente cattivo e non si può sperare che “sparisca” (5) ma è necessario distruggerlo (6). Barth attacca anche il concetto leninista di “dittatura del proletariato” (che si serve della istituzione dello Stato per attuare la rivoluzione marxista mondiale, cioè il Weltoctober), giungendo a un leninismo più radicale e più estremista di quello di Lenin, fino a cadere nell’anarchismo. Per Barth lo Stato è la “violenza istituzionalizzata“. A questo proposito è molto eloquente il testo di Barth citato da Casalis: “Noi combattiamo lo Stato in un modo radicale e fondamentale. Lo Stato attuale non può essere migliorato. La violenza dell’ingiustizia dall’alto dovrebbe essere sostituita dalla violenza dell’irruzione della giustizia dal basso. Lo Stato concreto, cioè quello della società borghese, quello che è comunemente chiamato lo Stato giusto, è la quintessenza del male; invano si attende la sua scomparsa, è necessario distruggerlo, perché lo Stato è l’organizzazione sistematica dell’uso della violenza da parte di una classe contro un’altra, di un settore della popolazione contro un altro” (7).
La polemica di Barth con Lenin è molto seria e, nello stesso tempo, molto ingenua. È seria perché Barth, fedele discepolo di Marx, vuole che la rivoluzione attuata in Russia dai marxisti-leninisti sia una realizzazione della dottrina di Marx, cioè svolga il suo ruolo storico di liberazione del proletariato dalla oppressione e dallo sfruttamento della borghesia; e che il proletariato, liberando sé stesso, liberi contemporaneamente tutta l’umanità, costruendo una società senza classi, cioè senza oppressori e oppressi, così come è prospettata da Marx nel suo Manifesto del partito comunista (1848), ed è interpretata da Engels (8).
Ma questa polemica è anche molto ingenua, perché Barth non si rende conto che per Lenin il marxismo è, soprattutto, una dottrina propagandistica per conquistare l’appoggio delle masse e non un programma reale. Barth, come la grande maggioranza degli ingenui rivoluzionari idealisti, non capisce il cinismo di Lenin, per il quale la dottrina marxista, e specialmente la teoria marxista della rivoluzione, è un mezzo o un metodo per conquistare il potere e per mantenere il potere conquistato. Se Lenin e il suo gruppo di “rivoluzionari professionisti” fanno la rivoluzione, la fanno perché essi ed essi esclusivamente ottengano il potere e lo sfruttino, e non il “proletariato” nel cui nome la fanno. Essi disprezzano il proletariato e se ne servono cinicamente. La tragedia di Barth è in questo equivoco. Barth è un idealista; ama sinceramente il proletariato e crede ingenuamente che la rivoluzione marxista possa cambiare il mondo, trasformando la società e “facendo giustizia” al proletariato, mentre Lenin disprezza questa posizione barthiana e la classifica apertamente come “malattia infantile dell’estremismo di sinistra“. Barth non si è mai reso conto del cinismo di Lenin e dei bolscevichi; né del fatto che il suo profondo e sincero idealismo era cinicamente sfruttato dai leninisti. Accecato dal suo idealismo, Barth non fu in grado di verificare che il leninismo è, in realtà, un gangsterismo politico: una dottrina e un metodo per conquistare il potere con la rivoluzione violenta e per mantenersi in esso con la dittatura e il terrore.
Per questo motivo Barth non si rese neppure conto del vero e reale senso della dottrina marxista-leninista sulla “dittatura del proletariato”. Su questo tema Barth entrò in sterili polemiche con Lenin, perché non capiva che Lenin cercava soltanto di lanciare uno slogan che gli permettesse di occultare la sua vera intenzione, che era quella di instaurare la sua dittatura servendosi del proletariato. Barth, essendo idealista, non capiva che nessuno avrebbe potuto sfruttare il proletariato con tanto cinismo come coloro che ne utilizzavano il nome come bandiera.
Barth confondeva il suo concetto idealizzato della rivoluzione con la reale e concreta rivoluzione marxista in marcia. Questo spiega il suo entusiasmo per la rivoluzione bolscevica, disumana, crudele, antisociale e antioperaia. Barth credeva che questa rivoluzione stesse per forgiare un “uomo nuovo” e una società nuova. Bisogna tener presente che quando Barth parla dell’”uomo nuovo” lo intende nel senso biblico. Sarebbe difficile incorrere in un equivoco più doloroso: il bolscevico come un biblico “uomo nuovo”. Ma Marquardt insiste sul fatto che il concetto barthiano di quella che dovrebbe essere la comunità cristiana del futuro, cioè ciò che potrebbe essere detta la sua ecclesiologia, nasce proprio in occasione della rivoluzione leninista. Per Barth questa comunità rappresenta un superamento del leninismo (9).
Barth, penetrato dal concetto marxista dello Stato – come istituzione che deve scomparire nella misura in cui si realizza la rivoluzione marxista – giunge facilmente a confondere e perfino a identificare la futura società socialista con la comunità escatologica cristiana, e sembra addirittura credere sinceramente che la rivoluzione marxista stia portando la società alla realizzazione del Regno di Dio predicato da Cristo. La sua ignoranza della realtà in cui vive è qualcosa di veramente sconcertante. Ci si chiede come fosse possibile che un uomo della cultura di Barth potesse ignorare completamente la disastrosa situazione dell’uomo, soprattutto dell’operaio, del proletariato nella società bolscevica in Russia. Come poteva rendersi cieco e sordo al punto da non vedere né udire nulla dei sessantasei milioni di vittime della rivoluzione marxista in Russia (10) e della vita inumana nei campi di concentramento e di lavoro forzato del nuovo impero sovietico? Barth, quello stesso che era tanto sensibile al dolore dell’uomo angariato nella Germania hitleriana, continuò durante tutta la sua vita (muore nel 1968) a idealizzare la sorte dell’uomo nell’inferno sovietico.
È incomprensibile come Barth, che fin dai primi anni della sua attività pastorale mostrò una speciale sensibilità per la sorte del proletariato della sua parrocchia e fu anche un predicatore direttamente legato alla realtà di ogni giorno – saliva infatti il pulpito con la Bibbia in una mano e il giornale nell’altra – non vedesse la disgrazia, la miseria e il dolore di questo stesso proletariato nella Russia sovietica. Se si azzarda a volte a criticare la situazione dell’uomo nella Russia sovietica, getta su Stalin tutta la responsabilità del male che constata; infatti la rivoluzione marxista è per Barth qualcosa di per sé stesso sacro e inviolabile, al di sopra di ogni critica.
Quando si leggono i suoi lavori di esegesi, tanto ingenui e tanto completamente svincolati dalla realtà, ci si rende conto fino a che punto Barth fosse un uomo alienato dal marxismo. Vediamo un esempio concreto: la sua famosa esegesi della lettera dell’apostolo san Paolo ai Romani, capitolo VIII, versetti 19-25. Il testo della lettera è il seguente: “Poiché la creazione attende con gran desiderio la glorificazione dei figli di Dio. La creazione, infatti, è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria inclinazione, ma per volontà di Colui che ve l’ha assoggettata, con la speranza che la creazione stessa un giorno sarà liberata dalla servitù della corruzione, per aver parte alla libertà della gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo infatti che, fino ad ora, tutta quanta la natura insieme sospira e soffre le doglie del parto; anzi non soltanto essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, noi pure sospiriamo in noi stessi, aspettando il compimento dell’adozione, che è la glorificazione del nostro corpo. In speranza infatti noi siamo stati salvati. Or, il vedere ciò che si spera non è più speranza: difatti chi spera ancora ciò che già vede? Ma se noi speriamo ciò che non vediamo, è per mezzo della pazienza che noi lo aspettiamo”.
Ebbene Barth in questo testo non vede né l’uomo (come un essere umano, l’individuo), né la società (come un essere collettivo, l’umanità intera), né la creazione intera, ma esclusivamente … il proletariato. Per Barth il messaggio apocalittico-escatologico si concreta nella situazione del proletariato, e tutta la sua esegesi biblica di questo testo si riduce all’approfondimento e all’ampliamento della famosa teoria messianica di Marx-Engels (11). Ma se a Marx e a Engels può essere perdonato il fatto che non si resero conto – nel 1847/48, quando scrissero il Manifesto del partito comunista – che il fenomeno sociale del proletariato è un fenomeno passeggero, contingente, del momento (anche se questo “momento” è durato in alcuni paesi fino a cento anni, cosa sono cento anni paragonati alle migliaia e forse milioni di anni di storia dell’umanità o addirittura all’eternità stessa?) e lo scambiarono per un fenomeno di durata relativamente lunga e costruirono su questa base la loro teoria messianica (il proletariato = messia, redentore dell’umanità), non si può perdonare questo errore a Barth. Essendo Barth in vita, il fenomeno del proletariato – come classe sociale diseredata, senza alcuna proprietà al di fuori dei suoi figli, che vive in completa miseria (12) – era scomparso completamente in molti paesi. Ma allora, come è possibile applicare le parole di san Paolo – che si riferiscono a qualcosa di permanente, durevole, costante e, soprattutto, a qualche cosa di presente e vigente alla fine del mondo, posto che ha un chiaro carattere apocalittico-escatologico – a un fenomeno sociale che è per sua natura contingente e passeggero? L’unica spiegazione plausibile sembra essere la alienazione marxista sofferta da Barth. Barth, più ancora che il suo maestro Marx, viveva in un mondo di fantasia, di immaginazione, piena di immagini del passato. Barth sognava un futuro ideale, nel quale il proletariato scompariva già dalla realtà sociale nella quale viveva. Analogamente, mentre un altro fenomeno sociale, lo Stato, che Barth voleva veder scomparire, si affermava, specialmente nel paese in cui la rivoluzione marxista si era messa in marcia, – secondo Barth e il suo maestro Marx – dovevano crearsi le condizioni sociali indispensabili alla sua scomparsa.
In Barth ricorre molto spesso questa frase: “un vero cristiano deve (muss) essere socialista e un vero socialista dovrebbe (sollte) essere cristiano“. Va ricordato però che per Barth “socialista” e “marxista” hanno lo stesso significato, di modo che quando Barth pretende identificare i cristiani con i socialisti, vuole in realtà identificare il cristianesimo e il marxismo.
Però, dove più si nota l’elemento marxista, cioè l’alienazione marxista, nel pensiero di Barth è nel concetto di Dio.
Barth vincola ogni sua riflessione sul concetto di Dio alla rivoluzione marxista in marcia; i suoi concetti non sono cioè ontologici, trascendentali, ma storici, sociologici, perfino socio-economici, ossia materialisti. Per Barth il concetto di Dio è in relazione con il mondo “nuovo” che sostituirà la “società borghese” (13). Ecco ancora il ruolo alienante del marxismo nel pensiero di Barth; questi, infatti, alienato dalla dialettica marxista, è incapace di pensare al di fuori delle categorie marxiste, le quali esprimono per lui la realtà storica. Barth riduce così di nuovo le realtà trascendenti e storiche allo storico e al contingente. Bisogna essere materialisti per costruire un concetto di Dio con categorie tanto contingenti e passeggere come “società borghese” e “società proletaria“.
Barth, per costruire il suo concetto di Dio, parte dalla critica della società borghese, cioè pretende rinchiudere ciò che è trascendente per definizione (Dio) in ciò che è contingente per definizione (la società borghese). È difficile trovare una posizione più grossolanamente materialista. Per Barth Dio è Ganz-Andere, non nel senso ontologico e trascendente, ma soltanto in relazione alla futura società ideale socialista che sostituirà la società borghese.
Barth – come cinquant’anni più tardi Cardonnel – identifica Dio con la rivoluzione marxista, o meglio con il contenuto di questa rivoluzione, perché, per Barth, Dio è l’elemento esplosivo della rivoluzione, è la forza, la dinamica distruttrice della rivoluzione marxista, cioè quello che normalmente ogni cristiano non alienato dal marxismo chiama satanismo. Risulta logico, per il nostro pensiero cattolico tradizionale, che Barth giunga a identificare Dio con la ribellione (come fa attualmente anche Cardonnel, con la differenza che Cardonnel si riferisce in questo caso a Cristo). Bisogna tenere presente che per Barth – che pensa secondo categorie marxiste e quindi materialiste – tanto Dio che Satana hanno un significato materialista e che Barth, nonostante il marxismo o forse proprio per il suo marxismo, è anarchico. È questo anarchismo quello che probabilmente lo spinge a confondere Dio con la ribellione; Barth infatti, come molti anarchici, non è capace di concepire la libertà umana coesistente con l’autorità.
Dio, che è Ganz-Andere (assolutamente altro), non si identifica con nessun fenomeno sociale, neppure con la rivoluzione, ma è il contenuto della rivoluzione, la sua forza esplosiva e, conseguentemente, liberatrice. Questa forza attribuisce senso e dignità alla vita umana.
Tutta questa “teologia” di Barth è completamente incomprensibile per coloro che non pensano con le categorie del marxismo. Per pensare correttamente con le categorie marxiste bisogna porsi sul piano della filosofia hegeliana e kantiana e soprattutto dimenticarsi di pensare con le categorie della filosofia cristiana (se la si conosce), specialmente del tomismo. Per le persone non abituate a pensare con le categorie della filosofia kantiana e hegeliana le riflessioni di Barth non sono soltanto incomprensibili ma anche contraddittorie, paradossali e perfino assurde.
Quasi tutte le elucubrazioni pseudoteologiche dei “teologi” marxisti odierni hanno le loro radici in questa “teologia” marxista di Barth. Alex Morelli, Gustavo Gutierrez, Hugo Assmann, Pablo Richard, Diego Irarrazaval, Ronaldo Muñoz, Héctor Borrat, Paul Blanquart, J. Cardonnel, Giulio Girardi, – per ricordarne alcuni tra i più sovversivi – sono autori che esaltano la rivoluzione marxista, identificano il “Regno di Dio” predicato da Cristo con la futura società ideale comunista, giustificano la lotta di classe, vedono nell’impegno del cristiano nella rivoluzione marxista la realizzazione dell’amore cristiano, ecc. ecc., e tutti quanti prendono le loro idee e i loro argomenti soprattutto dagli scritti di Barth.
C’è da supporre che la nefasta influenza di Barth sugli pseudoteologi odierni sarà ancora maggiore quando si tradurranno i suoi scritti, perché finora (1974) è stato tradotto molto poco dal tedesco in altre lingue e non esiste ancora una edizione completa dei suoi scritti in tedesco.
Molti cattolici si sono lasciati ingannare da alcuni scritti di Barth, specialmente dai suoi lavori di esegesi, perché suppongono in buona fede che Barth usi termini e concetti come “Dio”, “Cristo”, “redenzione”, “trascendente”, ecc. nel loro senso tradizionale, cioè come sono usati nell’ambito della filosofia e della teologia cattoliche (14). Va invece tenuto presente che tutti questi termini, nella “teologia” marxista di Barth, hanno un significato completamente diverso e hanno le loro radici, non solo nel pensiero marxista, ateo e materialista, ma anche nella filosofia hegeliana e kantiana, cioè nella filosofia della prassi, dell’azione e non nella filosofia dell’essere, quale è la filosofia tradizionale cristiana e la sua principale esposizione costituita dal tomismo (15).
Questo spiega perché coloro che oggi si sforzano di introdurre il pensiero di Barth nella teologia cattolica per accelerare e facilitare con il suo aiuto l’invasione della Chiesa da parte del marxismo (16), combattano il tomismo con tanta caparbietà: si tratta di due realtà inconciliabili.
Si può supporre che in un immediato futuro gli strateghi della lotta marxista contro la Chiesa useranno le opere di Barth in modo simile a come, alcune decine di anni fa, utilizzarono gli scritti di Maritain, Mounier e Teilhard de Chardin. In questo momento si incomincia già, in nome dell’”ecumenismo”, a lanciare Barth e la sua “teologia marxista”.
MIGUEL PORADOWSKI
NOTE
(1) Bisogna ricordare che Karl Barth non è né il primo né l’unico pastore protestante compromesso con il gruppo rivoluzionario marxista-leninista dei “rivoluzionari professionisti” di Lenin, Trotzky e compagni. Ve ne furono infatti molti altri; come Fritz Lieb (al quale Barth dedica uno dei suoi libri), Humbert Droz (uno dei segretari della Terza Internazionale), Christoph Blumhardt, ecc.
(2) FRIEDRICH-WILHELM MARQUARDT, Teologia e socialismo. L’esempio di Karl Barth, trad. it., Jaca Book, Milano 1974.
(3) Sulla conferenza di Zimmerwald cfr. WILLIAM KOREY, La conférence de Zimmerwald, in Le Contrat Social, vol. X, n. 1.
(4) L’originale del saggio di Lenin Stato e Rivoluzione fu scritto nei mesi di agosto e settembre 1917, come dice lo stesso Lenin nel Poscritto alla prima edizione datata 30 novembre 1917; Lenin lo scrisse dunque un mese prima della rivoluzione bolscevica di ottobre.
(5) Qui Barth si rivela profondamente marxista; la “teoria dello Stato oppressore” è infatti una delle parti più essenziali e caratteristiche del marxismo di Marx (bisogna insistere in questa espressione: il “marxismo di Marx”, perché esistono altri “marxismi” che sono respinti dallo stesso Marx: “Quant à moi, je ne suis pas marxiste”, scrive a suo genero).
(6) Su questo punto Barth si allontana dalla posizione di Marx, perché Marx sosteneva che lo Stato sarebbe scomparso da solo, nella misura in cui la società – a causa del processo sociologico della trasformazione rivoluzionaria – da socialista fosse diventata comunista, ossia senza classi. Si avvicina però alla posizione di Lenin quando questi, in polemica con Kautsky, cita estratti di lettere di Marx a Kugelmann in cui Marx insiste sulla necessità di “spezzare la macchina burocratica e militare” (la lettera è del 12 aprile 1871). Lenin insiste: “[…] è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale” (Stato e Rivoluzione, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1970, p. 62
(7) GEORGES CASALIS, Théologie et socialisme: l’exemple de Karl Barth, in Etudes theologiques et religieuses, 1974, n. 2, pp. 162-163.
(8) FRIEDRICH ENGELS, nel suo commento al Manifesto del partito comunista, del quale era coautore, scrive: “Il pensiero fondamentale, cui si informa il Manifesto – che la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell’epoca stessa; che, conforme a ciò, dopo il dissolversi della primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una storia di lotte di classi, di lotte tra classi sfruttate e classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, in diversi gradi dello sviluppo sociale; che questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non può più liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la borghesia), senza liberare anche a un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall’oppressione e dalle lotte fra le classi – questo pensiero fondamentale appartiene a Marx unicamente ed esclusivamente” (Prefazione alla edizione tedesca del 1883). Questa è una delle moltissime espressioni del messianismo di Marx. Qui Marx applica al proletariato l’idea messianica talmudica (non quella biblica). Per i lettori non abituati a questa terminologia conviene ricordare che il messianismo biblico, cioè come emerge dalla Bibbia, vede il Salvatore del mondo, il Redentore dell’umanità nella persona individuale del Messia, cioè Cristo (l’unto), mentre il messianismo talmudico, cioè del Talmud, lo vede personificato nello stesso popolo ebraico, il quale con le sue sofferenze (antisemitismo), perseguitato dagli altri popoli, sta redimendo l’umanità. Questo concetto messianico, sfigurato dalla dottrina rabbinica, è applicato da Marx al proletariato: una classe sociale che, con le sue sofferenze (è sfruttata e oppressa dalla borghesia), sta redimendo l’umanità. Questa “redenzione” consiste – secondo il testo citato di Engels – nel fatto che il proletariato, liberandosi attraverso la rivoluzione marxista, libera nello stesso tempo anche la classe borghese (in quanto questa smette di opprimere e sfruttare) e costruisce una società ideale senza classi. Non bisogna dimenticare che Marx era ebreo, educato in una famiglia con tradizioni rabbiniche e che il messianismo ebraico gli fu molto familiare. Sull’altro modo di mettere a fuoco il problema del messianismo ebraico cfr. GERSHOM SCHOLEM, Le messianisme Juif, Callmann-Lévy, Parigi 1974.
(9) Cfr. G. CASALIS, art. cit., p. 163.
(10) Cfr. A. SOLZENITCYN, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano, vol. 1, 1974; vol. 2, 1975.
(11) Vedi nota 8.
(12) Sul fenomeno “proletariato” cfr. ROMUEL ZANIEWSKI, L’origine du prolétariat romain et contemporain. Faits et théories, Lovanio 1957, p. 398.
(13) Cfr. G. CASALIS, art. cit., pp. 169-171.
(14) Come ad esempio JACQUES BUR, nel suo libro Sens chrétien de l’histoire, Parigi 1973, pp. 72-74.
(15) Cfr. MIGUEL PORADOWSKI, Perché il marxismo combatte il tomismo?, in Cristianità, Piacenza marzo-aprile 1975, anno III, n. 10.
(16) Cfr. MIGUEL PORADOWSKI, El marxismo invade la Iglesia, Ed. Universitarias, Universidad Catolica de Valparaiso, Valparaiso 1974.