Marco Respinti, Cristianità n. 337-338 (2006)
Il 7 novembre 2006 negli Stati Uniti d’America si sono svolte le midterm elections, le “elezioni di medio termine”, per il rinnovo di una parte consistente del Congresso Federale e così dette poiché si tengono a metà esatta — addirittura nello stesso mese, novembre, come stabilisce la Costituzione Federale — del mandato del presidente federale, che è di quattro anni: ovvero, il Congresso — il “parlamento” degli Stati Uniti d’America — viene rinnovato ogni due anni in ragione di un terzo degli eletti al Senato — la “Camera alta” — e interamente per quanto riguarda gli eletti alla Camera dei Deputati — la “Camera bassa” —, celebrando elezioni che, alternativamente, si svolgono una volta nel mese di novembre, che cade appunto a metà del mandato presidenziale — le “elezioni di medio termine” —, e una volta nello stesso mese di novembre in cui si svolgono le elezioni presidenziali.
Il 7 novembre, poi, oltre a quelle per il Congresso, si sono svolte anche elezioni per il rinnovo dei governatori di 36 Stati dell’Unione — che rimangono tutti in carica quattro anni, tranne quelli degli Stati del Vermont e del New Hampshire, che restano in carica due anni —, per il rinnovo di quasi tutte le assemblee legislative dei diversi Stati e di quattro territori oltremarini dipendenti dagli Stati Uniti d’America, numerose altre consultazioni di carattere locale e 206 referendum sempre a livello di singoli Stati.
Il nuovo Congresso eletto, il 110°, si riunirà in prima sessione il 3 gennaio 2007 e decadrà il 3 gennaio 2009. Alla prima sessione di lavori nel 2007 seguirà la seconda nel 2008, secondo un calendario grosso modo coincidente con gli anni solari. A queste due sessioni potrebbe poi aggiungersi la convocazione di una terza dopo le elezioni presidenziali del novembre del 2008, con il nuovo presidente eletto che entrerà in carica nel gennaio del 2009.
Il 7 novembre al Senato, strappando ai Repubblicani gli Stati di Pennsylvania, Ohio, Rhode Island, Missouri, Montana e Virginia, i Democratici — e i due indipendenti eletti nel Connecticut e nel Vermont che hanno già preventivamente indicato di volersi unire a loro nelle votazioni in aula — hanno ottenuto la maggioranza assoluta, ancorché di stretto margine, conquistando 51 seggi contro i 49 dei Repubblicani. Alla Camera, poi, i Democratici hanno ottenuto 232 seggi contro i 201 dei Repubblicani. Peraltro, 2 seggi non sono ancora stati assegnati: in uno, nello Stato del North Carolina, è in vantaggio il candidato Repubblicano mentre nell’altro, nello Stato del Texas, si svolgerà una seconda tornata elettorale il 12 dicembre. Ma quella maggioranza garantisce già il controllo politico dell’aula.
Inoltre, strappando ai Repubblicani il controllo degli Stati di Colorado, Arkansas, Maryland, Ohio, New York e Massachusetts, i Democratici hanno ottenuto la maggioranza dei governatori dei singoli Stati raggiungendo quota 28 Stati contro 22 guidati da esponenti Repubblicani. E infine, quanto alle assemblee legislative bicamerali dei diversi Stati — quelle politiche sono in tutto 49, poiché nello Stato del Nebraska gli eletti all’assemblea legislativa, unicamerale come nel distretto della capitale federale e nei territori oltremarini dipendenti dagli Stati Uniti d’America, non appartengono formalmente ad alcun partito —, dopo le elezioni del 7 novembre il risultato complessivo vede i Democratici controllarne 23, i Repubblicani 17 e le restanti 9 dividere le due Camere fra maggioranze politiche diverse.
Un risultato di questo tipo — contemporaneamente la maggioranza nei due rami del Congresso, la maggioranza dei governatori e la maggioranza delle assemblee legislative degli Stati dell’Unione in mano ai Democratici — non si verificava dal novembre del 1994, quando fu eletto il 104° Congresso.
Il 7 novembre, insomma, la sconfitta del Partito Repubblicano vi è stata, e più ampia di quella che era parso d’intuire dai sondaggi nelle settimane precedenti il voto. La sconfitta del Partito Repubblicano vi è stata, quantomeno in termini assoluti (1).
Eppure il voto del 7 novembre va considerato anche in termini relativi, intendendo l’espressione come articolata in due sensi: un primo senso, descrivibile come rispondente a un criterio di “relatività formale” — cioè fatta di elementi oggettivi, numerici, ma “fredda” —, e un secondo senso, descrivibile come rispondente a un criterio di “relatività di atmosfera”, cioè fatta sì di elementi oggettivi — di altri elementi oggettivi che non siano solo numerici —, ma anche di percezioni, di sentimenti e di passioni, quindi meno matematica ma non per questo meno reale, o quantomeno rivelatrice di andamenti, di tendenze e di atmosfere, dunque “calda”. Se si vuole, una relatività del risultato elettorale divisa in una “relatività assoluta” e in una “relatività relativa”, non escludentisi a vicenda.
1. “Relatività fredda” e “relatività calda” del risultato elettorale
In termini relativi, infatti, va precisato che nelle elezioni di medio termine del 7 novembre si è votato anzitutto per il rinnovo completo dei 435 seggi di cui attualmente, in base al Reapportionment Act del 1929, si compone la Camera dei Deputati, i cui membri vengono eletti in numero proporzionale rispetto al numero dei cittadini dei singoli Stati che compongo l’Unione, e alla quale si aggiungono i Resident Commissioner, i delegati senza diritto di voto, espressi dal Distretto di Columbia, ossia il territorio della capitale federale, Washington, quindi dalle isole Samoa Americane, dal Territorio di Guam, dallo Stato Libero Associato di Porto Rico e dalle Isole Vergini Statunitensi, tutti territori oltremarini in diversa forma istituzionale dipendenti dagli Stati Uniti d’America metropolitani. Si è votato, inoltre, per il rinnovo di solo un terzo dei senatori, 33 su 100. Infatti, ognuno degli Stati dell’Unione — oggi 50 — elegge due senatori indipendentemente dal numero dei propri abitanti così da garantire rappresentanza paritetica nel Congresso a tutti gli Stati dell’Unione Federale proprio in quanto Stati — Stati federati, tali per cui gli Stati Uniti d’America sono una “comunità politica di Stati” —, laddove è appunto, invece, compito della Camera rappresentare proporzionalmente presso il potere legislativo la popolazione degli Stati Uniti d’America nella federazione.
Si tratta, peraltro, di un criterio rappresentativo degli Stati e dei cittadini di essi — cioè degli abitanti degli Stati Uniti d’America considerati per singoli Stati, quindi nel rispetto della storia delle loro aggregazioni — che, attraverso l’istituto del collegio elettorale e il sistema dei cosiddetti “grandi elettori”, determina altresì la scelta del presidente federale (2).
Accade sempre così, del resto, in occasione delle elezioni per il Congresso. Infatti, l’ordinamento giuridico statunitense stabilisce che i senatori, il cui mandato è di sei anni contro i due dei deputati, decadano dal proprio incarico a rotazione in ragione di circa un terzo ogni due anni e che in nessuna tornata elettorale si voti mai per entrambi i senatori espressi da ciascuno degli Stati dell’Unione interessati appunto a turno al voto. I senatori sono così suddivisi in tre “classi” — la classe I e la classe II si compongono di 33 senatori ciascuna, la classe III di 34 —, le quali determinano da sempre un sistema di scadenze a rotazione biennale, attraverso designazioni dei due senatori di ciascuno Stato con diversa lunghezza di mandato sin dal tempo della prima elezione senatoriale nel 1788. Solo con l’introduzione del XVII Emendamento alla Costituzione — ratificato l’8 aprile 1913 durante la cosiddetta “era progressista”, che va dagli anni 1890 a tutti gli anni 1920 o, secondo un’interpretazione storiografica più restrittiva, dal 1900 al 1917 — è divenuto infatti obbligatorio il voto popolare come strumento di scelta.
In base a tale criterio, dunque, le elezioni per il Congresso del 7 novembre hanno interessato due terzi degli Stati componenti l’Unione, per l’esattezza 33.
Per quanto attiene invece alla “relatività di atmosfera”, desumibile non solo dai dati numerici disponibili, si rileva che, se è innegabilmente vero che il Partito Democratico ha ottenuto un numero maggiore di voti e di seggi rispetto ai Repubblicani, questo è nondimeno un aspetto della questione. L’altro è la comprensione del modo in cui ciò è avvenuto e del perché.
2. Destra, non Sinistra
Dal punto di vista sostanziale, il dato con cui fare i conti è la nuova leadership “forte” — alla Camera dei Deputati, giacché per il Senato il discorso è ben diverso — di cui gode oggi il 110° Congresso degli Stati Uniti d’America, guidato da una maggioranza politica che è espressione del partito avversario di quello che esprime il presidente federale George Walker Bush jr. Eppure la vera notizia non è questa. La notizia vera è che per dodici anni, cioè a far data dall’elezione del 104° Congresso nel novembre del 1994, i Repubblicani hanno controllato continuativamente il Congresso — lo hanno controllato con maggioranze variabili, ma comunque lo hanno sempre controllato —, a volte pure esprimendo contemporaneamente il presidente federale e la maggioranza dei governatori degli Stati dell’Unione. È stato infatti quello un dato eccezionale nella storia statunitense, tale per cui la composizione del 110° Congresso, di fatto, non fa che allinearsi al dato medio della storia del paese, riportandolo alla consuetudine dell’alternanza. Poco di nuovo, si sarebbe cioè tentati di dire, rispetto alla media della storia americana.
Ancora: sul piano istituzionale, il 110° Congresso, più simile alla media della storia americana dei sei che lo hanno preceduto, realizza nella pratica quell’equilibrio fra i poteri federali che sono caratteristica della struttura costituzionale del paese e che da più parti politiche e culturali vengono consuetamente salutati come segno di compiutezza della democrazia nordamericana. Il controllo continuativo e talora granitico del Congresso da parte di uno stesso partito per più e più legislature, a cui talora si aggiunge persino l’espressione della presidenza federale e di molti governatori, magari pure della maggioranza di essi, viene infatti percepito dall’americano medio — che va dal cittadino comune al costituzionalista più raffinato — se non altro come un’anomalia insidiosa che intacca l’immagine o la percezione — non certo la sostanza, dal momento che non è illegale — della famosa dottrina della “separazione dei poteri” per ottenere un sistema istituzionale fatto di “pesi e contrappesi”.
E questo “sospetto” è peraltro più di casa nella cultura politica degli ambienti di estrazione conservatrice che non in quelli di mentalità progressista. Del resto, per esempio in Italia, dove consuetamente si giudica la politica statunitense dall’esterno, vale a dire ancora o ignorando la realtà americana e i suoi meccanismi, o caricandola d’intenzioni — polemiche, percezioni e interpretazioni — tipiche del nostro scenario politico, non è difficile — non è stato difficile negli anni che separano il 104° Congresso statunitense dal 110° — sentir gridare al “regime”, e questo classicamente dai ranghi della Sinistra — e ovviamente solo perché tale controllo è stato esercitato dai Repubblicani, comunque percepiti, a torto o a ragione, sempre come “la Destra” —, magari in occasione degl’interventi militari in Afghanistan e in Iraq, o di altre decisioni politiche o legislative particolarmente avversate appunto dalla Sinistra.
Eppure questa, per certi versi, è ancora una premessa. Se, quindi, dalle premesse si passa a qualche elemento analitico, il dato più clamoroso rivelato dalle elezioni del 7 novembre è che gli Stati Uniti d’America non sono affatto oggi, nonostante l’esito delle urne che determina la composizione del 110° Congresso e la maggioranza dei governatori degli Stati dell’Unione, un paese in assoluto più progressista di ieri. Semmai, relativamente parlando, è vero il contrario.
Il Partito Democratico, infatti, ha ottenuto ampi consensi — o più ampi consensi — che nelle precedenti tornate elettorali per il rinnovo del Congresso perché ha puntato decisamente — in media e in genere — su candidati più “moderati”, più “centristi” o addirittura — per certi aspetti e a certe condizioni — più “conservatori” di quanto fatto nei trascorsi dodici anni. Questo, peraltro, non è solo un esempio di realizzazione concreta dell’idea — per la verità più un luogo comune che una fondata valutazione scientifica politologica — secondo cui le “elezioni si vincono sempre al centro”, ma è la testimonianza empirica — base della scienza, dunque anche della scienza politologica — del fatto che l’elettorato statunitense esprime costantemente la propria preferenza per un personale politico di quel tipo. Destra, non Sinistra (3).
Alla questione vera, a cui dovrà cominciare a rispondere anche il Partito Repubblicano — come mai, il 7 novembre, l’elettorato statunitense ha in genere percepito i candidati “centristi” Democratici come più confacenti alle proprie esigenze di tipo mediamente conservatore rispetto ai candidati Repubblicani —, si potrà cominciare a rispondere solo seguendo attentamente l’andamento della politica statunitense da qui all’inizio del novembre del 2008, data delle elezioni presidenziali nelle quali Bush jr., avendo già guidato il paese per due mandati, non può, in base alla Costituzione Federale e ai suoi Emendamenti, ricandidarsi. La risposta non è univoca né semplice, ma qualche elemento di valutazione, se non di giudizio, è possibile addurlo.
3. Il peso della guerra in Iraq: nullo
Si è detto e si è ripetuto che molto ha pesato sul voto la questione della guerra in Iraq. In Italia, hanno fatto di questa idea una bandiera la Sinistra in genere e in specie, cioè espressamente e immediatamente, ossia pure avventatamente, il presidente del Consiglio dei Ministri on. Romano Prodi (4). Ma non è vero. Ciò, infatti, è possibile solo a chi, puntando rapidamente e grossolanamente il dito contro la guerra in Iraq, non fa altro che — una volta in più — giudicare la politica statunitense ignorando la realtà a essa soggiacente e quindi applicarle categorie estrinseche, ovvero volendo intenzionalmente — maliziosamente — ricondurre, cioè ridurre, la “questione americana” — e le linee di divisione che la segnano — alle divisioni politiche e ideologiche che attraversano lo scenario italiano, cosa che però è appunto indebita e dunque fuorviante.
Il peso della guerra in Iraq sul voto del 7 novembre, infatti, è stato nullo.
È stato nullo anzitutto perché negli Stati Uniti d’America una percentuale enorme dei cittadini contrari — o divenuti contrari — alla guerra in Iraq è tutt’altro che progressista, liberal o comunque di sinistra, giacché si riconosce nella cultura conservatrice “tradizionale” o “classica” — diversa da quella neoconservatrice —, non favorevole a quella guerra anche se non automaticamente sempre avversa a essa, e nel pensiero libertarian di destra, definito come paleolibertarian, che del cosiddetto “isolazionismo”, in una qualsiasi delle sue forme, fa una fortezza inespugnabile. Quindi si tratta di cittadini che, in media e in genere, preferiscono disertare le urne e non certo votare, sempre in media e in genere, per i Democratici, anche se “centristi”, fattore questo che al massimo ha penalizzato i Repubblicani più che favorire i Democratici.
Una cosa infatti è certa: lo schieramento di questo settore significativo di statunitensi, contrari alla guerra da posizioni di destra, difficilmente comporta di per sé il successo dei Democratici e non sposta l’ago della bilancia politico-culturale degli Stati Uniti d’America al centro o addirittura a sinistra, anzi, semmai, conferma e sottolinea — dal momento che si tratta di una “fuga” alla destra del Partito Repubblicano — l’orientamento decisamente conservatore — quindi non sempre e solo neoconservatore — di una parte consistente della popolazione statunitense. Peraltro, quella che non è disposta a contrabbandare la propria fiera e argomentata — ed, entro certi limiti, “oggi” popolare, o più popolare “di ieri” — opposizione alla guerra in Iraq per un “voto di scambio” con i Democratici, né a svenderla — nonostante alcune somiglianze superficiali oppure talune contiguità di fatto, o ancora taluni strategici sfruttamenti degli argomenti e delle argomentazioni “degli altri” — sul facile mercato degl’ideologismi delle Sinistre. Lo dimostra ampiamente il fatto che questa opposizione da destra alla guerra in Iraq si esprime, in media e in genere, con grande chiarezza in senso conservatore su questioni morali, di principio e valoriali, in nome della difesa del diritto naturale e presentandosi espressamente come cristiana, dall’aborto alla questione omosessuale, dal dibattito sull’uso delle cellule staminali embrionali alla difesa della famiglia.
4. La sicurezza nazionale
Ma il peso della guerra in Iraq sulle elezioni del 7 novembre è stato nullo per una ragione ancora più forte e decisiva. Perché, in quanto tale, la guerra in Iraq non è la priorità dell’elettore statunitense medio “oggi”, e questo perché l’elettore statunitense medio “sempre” non va in alcun luogo, figurarsi alle urne, pensando alle questioni estere. Nelle elezioni presidenziali del novembre del 1992, il Repubblicano George Walker Herbert Bush venne seccamente sconfitto dal Democratico William Jefferson “Bill” Clinton per ragioni legate soprattutto al mancato mantenimento di promesse elettorali — fatte durante la campagna elettorale del 1988 al termine della quale Bush fu eletto presidente federale — relative alla riduzione — o quanto meno al non aumento — della pressione fiscale, e questo nonostante i successi di politica estera riportati da Bush e legati soprattutto alla vittoria militare nella Guerra del Golfo Persico del 1991.
Ogni elezione statunitense è infatti determinata da — e quindi vinta o persa per — questioni interne.
Oggi una delle priorità, come spessissimo accade negli Stati Uniti d’America, è ancora e sempre quella della forte pressione fiscale, unita a una crescita economica non esaltante, quindi pure a un certo rincaro dei prezzi al consumo. Un’altra sono il gigantismo e l’elefantiasi del governo federale e degli apparati burocratici. Un’altra ancora sono alcuni episodi di corruzione in cui sono stati coinvolti esponenti di spicco del Partito Repubblicano. Di tutto ciò i Repubblicani sono consuetamente considerati in tesi i nemici, ma evidentemente l’elettorato li ha invece oggi giudicati incapaci di un’azione efficace di contrasto. E però questi — ancora una volta — non sono certo temi tipici di una cultura di sinistra. Ora, perché una cultura genericamente di destra pensi oggi di essere, entro certi limiti, meglio rappresentata sul piano politico da certi Democratici che non da certi Repubblicani è comunque la domanda che debbono porsi e a cui devono rispondere, entro il 2008, anzitutto i Repubblicani. E probabilmente non è — come usa dire oggi il ceto politico italiano quando viene sonoramente castigato dall’elettorato — un problema di “comunicare bene” al “popolo” i buoni risultati di governo ottenuti ma non percepiti come tali dal “popolo”…
Con tutto questo si è però ancora all’individuazione solo di alcune delle priorità dell’elettorato, e non ancora delle principali. La guerra in Iraq non pesa sulle elezioni — su altro sì, ma non sulle elezioni — come in genere tutte le questioni estere negli Stati Uniti d’America perché ciò che conta anzitutto e soprattutto sono le questioni interne, soprattutto nel caso di “elezioni interne” quali sono state quelle del 7 novembre. Ebbene, oggi, dopo l’11 settembre 2001, il Martedì Nero, la prima delle priorità degli statunitensi è indiscutibilmente quella della sicurezza nazionale: una questione, appunto, squisitamente “interna” — soprattutto nella percezione dell’elettorato —, per quante ricadute o implicazioni o anche moventi “esterni” — esteri — essa possa avere. La guerra in Iraq può quindi esercitare, in maniera mediata, una certa influenza sull’andamento delle elezioni statunitensi solo nella misura in cui viene percepita — a torto o a ragione — come una fattispecie della guerra globale mossa dopo l’11 settembre dagli Stati Uniti d’America al terrorismo in nome della sicurezza nazionale e questa eminentemente come operazione mirante ad assicurare le frontiere statunitensi — e qui entra o torna in gioco, e pesantemente, anche la spinosa questione dell’immigrazione — così che all’interno gli statunitensi possano continuare serenamente la conduzione della propria esistenza “isolata”. Così è stato anche per la precedente guerra in Afghanistan, così è sempre stato per tutte le guerre combattute dagli Stati Uniti d’America nella propria storia.
Agli statunitensi, in media e in genere, continua infatti a interessare sempre pochissimo l’”esportazione della democrazia” o del regime-change e del nation-building all’estero, se non come strumenti atti, in primo ed esclusivo luogo, ad assicurare i propri confini nazionali. È questa una versione particolare — ma reale — del proverbiale “isolazionismo” statunitense — il quale, come detto, assume anche ben altri volti oggi e sempre —, magari pure l’idea che solo l’impegno militare all’estero possa garantire confini sicuri — e questo sempre però ritenendo la sicurezza dei confini la prima delle priorità politiche nazionali, dunque ribadendo che tale coinvolgimento estero debba essere strettamente condizionato e limitato — o persino l’idea, paradossale, che solo un certo “espansionismo” possa garantire un certo “isolazionismo”. Comunque sempre un’idea non certo di sinistra, che peraltro risponde adeguatamente allo storico e politologo neoconservatore Michael Arthur Ledeen, dell’AEI, l’American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washington. Questi, con una retorica strana, continua a chiedersi — come nel corso della puntata della trasmissione Otto e mezzo, condotta da Giuliano Ferrara, direttore de il Foglio quotidiano, e da Ritanna Armeni, giornalista del quotidiano Liberazione, trasmessa l’8 novembre 2006 — perché mai vengano definiti “conservatori” i fautori delle “rivoluzioni democratiche” nei paesi oppressi da regimi dispotici o totalitari (5), soprattutto dal momento che, nonostante Ledeen, la media degli statunitensi di sensibilità conservatrice — anche sul piano valoriale e religioso — ritiene popolarmente che espressioni quali “fautori di rivoluzioni democratiche” all’estero indichino quell’idea di un “interventismo” sub iudice et condicione che taluni sono anche — addirittura — disposti limitatamente ad approvare, purché intesi come “arma di difesa personale” nazionale.
5. Il “caso Jim Webb”
Ciò che allora ha realmente pesato sull’elezione del 110° Congresso e dei governatori in lizza il 7 novembre è la questione della sicurezza nazionale, del modo per meglio garantirla e degli uomini che meglio la possono garantire. Cosa, questa, di una tale palpabilità politica che appunto il Partito Democratico ha fatto di tutto per candidare uomini e donne credibili su questo piano, scegliendo di schierare un numero sorprendente di esponenti “moderati”, “centristi” e “conservatori”.
Il primo a rilevarlo — poi molti altri sono seguiti, anche in Italia — è stato l’opinionista neoconservatore canadese, naturalizzato statunitense, David Frum, ex speech-writer di Bush jr., prima sul maggior quotidiano canadese, National Post, quindi sul sito Internet dell’AEI di cui è resident fellow (6). La “gara dei candidati”, come bene dice Frum, è stata quella all’insegna di chi fosse più patriottico, di chi potesse vantare un record militare più nutrito, di chi, insomma, mostrasse più cicatrici e battaglie — talora letteralmente — del proprio sfidante, e questo nella consapevolezza che tutto ciò conta moltissimo nell’immaginario politico-culturale dell’elettorato statunitense, rubricato alla voce caparra di una policy — di una linea politica — di sicurezza nazionale coraggiosa, decisa e certa al di là della politics, cioè della filosofia politica. Se poi, al fatto che “[…] i Democratici hanno scelto più candidati al Congresso che fossero veterani della guerra in Iraq di quanto abbiano fatto i Repubblicani” (7), si aggiunge la retorica pubblica su “Dio, patria e famiglia” che molti candidati appunto Democratici hanno utilizzato in campagna elettorale — e non sempre né solo in maniera strumentale —, il senso autentico delle elezioni del 7 novembre si fa certamente un poco più chiaro.
Due casi sono del resto emblematici, soprattutto perché sono i due casi che hanno di fatto decretato la vittoria dei Democratici al Senato, anche se di misura davvero stretta sia in assoluto, quanto al risultato elettorale complessivo, sia relativamente ai risultati elettorali personali. Sono i casi del Democratico Jonathan “Jon” Tester nello Stato del Montana, eletto con 198.302 voti contro i 195.455 del Repubblicano uscente Conrad Ray Burns, quindi con un vantaggio minimo, e del Democratico James Henry “Jim” Webb jr. nello Stato della Virginia. Anche Webb ha battuto il Repubblicano George Felix Allen con poco vantaggio — il 49,6% dei suffragi e 9.329 voti di scarto — e dopo un testa a testa nel conteggio protrattosi per due giorni, ma ciò che davvero conta è il profilo di questo Democratico da cui i virginiani si sentono oggi rappresentati al Senato.
Nato nel 1946 a Saint Joseph, nello Stato del Missouri, laureato all’Accademia Navale degli Stati Uniti d’America poi giurisperito, ex ufficiale del corpo dei marine, veterano decorato della Guerra del Vietnam (1964-1975), Webb è stato uno dei cosiddetti “Reagan Democrats” — abbreviati anche in “Reagan Dems” —, ovvero un esponente di quell’ala del Partito Democratico di cultura decisamente conservatrice, e forte specialmente negli Stati meridionali dell’Unione, che nel 1980 decisero di sostenere la candidatura presidenziale di Ronald Wilson Reagan (1911-2004), Repubblicano sì, ma sufficientemente conservatore e dotato se non altro di fair-play rispetto alla “questione “sudista”” da meritare, ai loro occhi, lealtà schietta e appoggio politico. I “Reagan Dems” — solo alcuni dei quali hanno poi deciso di cambiare addirittura partito — sono peraltro anche il frutto dell’intelligente seminagione politica perseguita dal Partito Repubblicano sotto il consiglio e la guida di Richard Milhous Nixon (1913-1994) — presidente degli Stati Uniti d’America dal 1968 al 1974 — e iniziata all’indomani della sconfitta di Barry Morris Goldwater (1909-1998) alle elezioni presidenziali del 1964.
Webb ha quindi avuto incarichi di rilievo nell’Amministrazione Reagan fino a diventare ministro della Marina nel 1987 per poi dimettersi nel 1988 quando la Casa Bianca annunciò un sensibile ridimensionamento appunto della Marina da guerra. Da funzionario di altissimo livello dell’Amministrazione Reagan, peraltro, Webb si è molto adoperato per il riassetto morale dei marine, combattendo strenuamente l’uso delle droghe e la “cultura della demoralizzazione” diffusasi specificamente in quel corpo d’élite dopo la Guerra del Vietnam.
Trascinato in polemiche pretestuose da alcune attiviste femministe per aver espresso, anche per iscritto, l’idea che le donne non siano adatte al combattimento militare, è stato quindi pubblicamente difeso e “scagionato” da esponenti femminili del mondo militare statunitense.
Webb, peraltro, discendente di uno dei compagni d’arme del generale della Cavalleria degli Stati Confederati d’America durante la Guerra Civile (1861-1865) Nathan Bedford Forrest (1821-1877), è un convinto e notorio “sudista” più di quanto lo siano molti uomini politici Repubblicani (8), ma come invece lo è buona parte del mondo conservatore tradizionale, non certo quello liberal classico, che normalmente fa riferimento all’ala più progressista dell’odierno Partito Democratico. Anche il suo avversario Repubblicano Allen è un collezionista di cimeli “sudisti” ma, evidentemente, dopo averlo eletto due anni fa al Senato, i virginiani lo hanno ritenuto meno credibile di Webb (9).
Ancora: Webb è autore, fra romanzi e saggi, di otto libri, piuttosto popolari, di argomento storico e militare, in parte nati da memorie e da esperienze personali di guerra o comunque di vita negli ambienti militari. Uno di questi — l’ultimo in ordine di tempo —, Born Fighting: How the Scots-Irish Shaped America, “Nati combattendo. Come gli scoto-irlandesi hanno plasmato gli Stati Uniti d’America” (10), un saggio del 2004, ricostruisce l’importanza avuta dagl’immigrati di ceppo scoto-irlandese nella storia e nella cultura degli Stati Uniti d’America, specialmente in alcune regioni meridionali, che in un momento significativo della storia del paese hanno coinciso con una parte importante, per certi aspetti il nerbo, degli Stati Confederati d’America, e in alcune regioni del Midwest, patria dell’”isolazionismo”. Al loro proverbiale spirito d’indipendenza si deve la capacità “tradizionale” d’influenzare quindi di spostare significative porzioni dell’elettorato verso questo o quel partito, questo o quel candidato, ivi comprese “terze forze” conservatrici come i ricordati “Reagan Dems” o “terzi partiti” di carattere populista, ma non di sinistra, come il Reform Party del miliardario texano Henry Ross Perot. Un’opera, Born Fighting: How the Scots-Irish Shaped America, che, fra gli altri, ha ricevuto l’apprezzamento pubblico di Randall Wallace, autore della sceneggiatura del popolare film diretto dal regista Mel Gibson nel 1995 Bravehart-Cuore impavido (11).
Peraltro, della finezza anche politica con cui l’ex ministro reaganiano della Marina dimostra di saper leggere in profondità la storia della mentalità di alcuni significativi gruppi di cittadini americani e di saper interpretare alcuni precisi valori patriottici del popolo del suo paese è esempio clamoroso il fatto di essere l’autore nonché il produttore esecutivo del film del 2000 Regole d’onore (12), diretto dal regista William Friedkin e interpretato da attori bravi e popolari quali Tommy Lee Jones, Ben Kingsley e Samuel Leroy Jackson, una pellicola in cui si parla di un attacco terrorista islamista contro l’ambasciata statunitense di Sana’a, nello Yemen, difesa dai marine e dove trionfano il cameratismo, le virtù, l’abnegazione, il coraggio e il patriottismo. Un film, cioè, che spiega la psicologia degli americani molto più di molte analisi sociologiche.
Insomma, se i Repubblicani avessero curato nel Montana un poco di più il rapporto “porta a porta” — come nel 1980 fece l’attivista conservatore Richard A. Viguerie, il guru della direct-mail alla cui strategia si attribuisce, con “seria boutade“, la vittoria elettorale di Reagan, o come nel 2004 ha fatto, “sondando la gente”, lo stratega presidenziale Karl Rove —, e se in Virginia avessero letto qualche libro in più o fossero andati di più al cinema, il risultato elettorale del 7 novembre sarebbe stato certamente molto diverso.
6. “Alcuni Democratici sono peggiori di altri”
Oltre al caso emblematico di Webb in Virginia ve ne sono però anche altri decisamente significativi.
Ladda “Tammy” Duckworth è l’esponente Democratica che ha perso le elezioni per la Camera nel sesto distretto congressuale dello Stato dell’Illinois — l’area di Chicago —, con uno scarto del solo 2% sull’avversario Repubblicano Peter Roskam. Il seggio era rimasto vacante dopo il ritiro per ragioni di età del Repubblicano conservatore cattolico Henry John Hyde, deputato alla Camera dal 1975 ed ex presidente del Committee on the Judiciary della stessa Camera. Nata nel 1968, la Duckworth è stata maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti d’America e copilota di elicottero in Iraq: lì ha perso entrambe le gambe ed è stata seriamente ferita al braccio destro durante un attacco missilistico che ha colpito l’elicottero su cui si trovava il 12 novembre 2004.
Harold Eugene Ford jr., nato nel 1970, si è candidato al Senato con i Democratici nel nono distretto congressuale dello Stato del Tennessee — l’area di Memphis — ottenendo il 48% dei consensi e quindi venendo sconfitto dal Repubblicano Robert Philips “Bob” Corker jr. I due si sono peraltro contesi il seggio lasciato libero da William Harrison “Bill” Frist, leader della maggioranza Repubblicana al Senato fino al voto del 7 novembre, critico però di Bush — delle sue critiche al presidente indicherò più avanti i motivi — e non più rieleggibile dopo due mandati. Ebbene Ford, membro della Blue Dog Coalition, un’organizzazione di Democratici conservatori e centristi, “[…] ha definito Dio il direttore della propria campagna elettorale e ha riprodotto i Dieci Comandamenti sul retro dei propri biglietti da visita” (13).
In vista del voto del 7 novembre, del resto, i candidati Democratici impegnati nelle campagne elettorale non hanno “[…] nemmeno lontanamente accennato” (14) “ai controlli sulla libera circolazione delle armi da fuoco” (15) — una problematica assai sentita negli Stati Uniti d’America anche per ragioni storiche ma soprattutto costituzionali, paese dove la Destra si oppone alle regolamentazioni restrittive — “[…] e le unioni omosessuali sono state condannate da tutti gli sfidanti Democratici eccettuati quelli candidati nei collegi più sicuri della vittoria” (16).
Ha allora davvero ragione Frum quando osserva che “alcuni Democratici sono peggiori di altri” (17) e quindi, trattando ancora del Partito Democratico, quando si chiede “[…] quale Partito Democratico? Infatti, ne esistono due” (18): uno è quello, ben noto e forse attualmente maggioritario, di marcato orientamento liberal, al cui interno si annidano anche elementi radical, ossia estremisti di sinistra, l’altro — minoritario, ma non per questo irrilevante — è quello composto dai “[…] membri Democratici della Camera dei Deputati che nel 2004 si sono uniti alle proprie controparti Repubblicane per far passare, con un voto di 376 contro 3, una risoluzione che esortava l’Amministrazione [Bush] a usare “ogni e qualsiasi mezzo appropriato” per evitare che l’Iran acquisisse armi nucleari” (19).
Insomma, secondo Frum, “il prossimo Congresso può giocare un ruolo molto positivo in politica estera” (20), o quantomeno questa è la stata le percezione dell’elettorato che, il 7 novembre, dando un saggio del proverbiale pragmatismo americano, azzardato e spregiudicato finché si vuole, ha considerato la suggestione sotto la voce “sicurezza nazionale” e ha votato come ha votato. Del resto, come rileva sempre Frum, per questo elettorato “l’Amministrazione Bush è stata a volte pericolosamente accomodante con i sauditi e con altri regimi del Golfo Persico. Manca di una linea politica coerente nei confronti dell’Iran e in Iraq si è ingarbugliata con le sue stesse mani. Ha quindi pericolosamente fatto eccessivo affidamento sulle buone intenzioni del Pakistan. E Condoleezza Rice sta mostrando i primi sintomi di cedimento a una futile tentazione di risolvere il problema palestinese” (21).
Frum sa bene, peraltro, che la maggioranza Democratica eletta al Congresso il 7 novembre, nonostante i meriti reali o presunti che essa possa avere agli occhi dell’elettorato conservatore, subirà forti pressioni da parte della peggiore delle due ali esistenti nel Partito Democratico, quella liberal e radical, ma invita ancora una volta a considerare qual è stato il tema ritenuto più cogente dall’elettorato del 7 novembre ricordando che, “nella maggior parte dei sondaggi di opinione, dalla campagna elettorale di [George Stanley] McGovern [candidato presidenziale Democratico sconfitto da Nixon] nel 1972 fino all’anno in corso, il vantaggio di cui hanno goduto i Repubblicani rispetto agli avversari in tema di sicurezza nazionale non è mai sceso al di sotto dei 10 punti percentuali, laddove però la norma era quella di percentuali attestate attorno ai 20 punti con un picco ai 30 dopo l’Undici Settembre” (22); ed è questo — aggiunge Frum pensando alla caparra che le elezioni di medio termine possono o potranno mettere sul risultato delle elezioni presidenziali del 2008 — “[…] il genere di vantaggio che decide le elezioni presidenziali” (23). Infatti, i Democratici “[…] sono decisi a non apparire mai più deboli in tema di difesa” (24) e i loro capi “[…] hanno fatto voto di non gettare mai più al vento il tema della sicurezza nazionale” (25).
Insomma, senza dimenticare che in un anno, da “[…] molti descritto come “il peggior clima Repubblicano sin dal Watergate”[1974]“ (26), il Partito Repubblicano ha comunque “[…] perso meno di metà dei seggi che i Democratici persero nel 1994″ (27), il risultato analitico delle elezioni di medio termine indica che la composizione della Camera — dove la maggioranza Democratica è molto più netta che al Senato — “[…] sarà vistosamente meno liberal di quanto lo sia l’attuale Direzione del Partito Democratico” (28). Dunque che il 7 novembre ha impartito ai liberal una lezione chiara: “gli Stati Uniti rimangono un Paese molto, molto conservatore” (29).
7. Il Partito Repubblicano e il presidente Bush jr.
Si dice sempre che le elezioni di medio termine sono un test in vista delle successive elezioni presidenziali dunque, al contempo, una sorta di referendum per valutare il livello di gradimento o meno dell’Amministrazione in carica. È vero anche per la tornata del 7 novembre 2006 in vista del dopo-Bush?
Frum suggerisce di sì quanto a ciò che dice riferimento a una specie di test nella prospettiva delle elezioni presidenziali del 2008 (30). I Repubblicani sono del resto, da tempo, alla ricerca di un candidato vincente, e questo preannuncia una notte dei lunghi coltelli dal momento che l’eredità di Bush jr. sarà comunque pesante, addirittura ingombrante per alcuni, certamente imbarazzante per altri. Fra i Repubblicani vi è infatti chi non vede l’ora di sbarazzarsi di questo fardello smarcandosi completamente dal presidente in carica e chi pensa a come sarà possibile restare fedele a Bush senza però dare la stucchevole impressione di volerlo imitare pedissequamente, e il novero di questi ultimi si divide fra chi desidera farlo perché del presidente in carica condivide sinceramente le prospettive e chi invece lo vuol fare solo perché, coram populo, ciò paga o può pagare sul piano elettorale.
Fra quanti sembrano volersi più decisamente smarcare dalla “linea Bush”, esemplare è il caso del sen. Frist, già capo della maggioranza Repubblicana al Senato, il quale, pur presentandosi come difensore del diritto alla vita, sfida apertamente da tempo Bush sulla questione del finanziamento con denaro federale della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali umane anche in strutture federali — nelle strutture finanziate privatamente la ricerca è infatti già possibile —, finanziamento contro cui Bush si oppone recisamente. Frist cerca insomma di conciliare posizioni pro-life e disponibilità a finanziare con fondi federali la ricerca sulle staminali attraverso complessi ragionamenti sofistici che in realtà rivelano la semplice volontà, peraltro goffa, di differenziarsi da Bush pur cercando di corteggiare un pubblico di tipo “bushano”. Oltre a Frist, poi, sul fronte anti-Bush si segnalano, pure da tempo, almeno lo stesso sen. Allen, sconfitto dall’ex ministro Webb in Virginia, e John McCain, senatore dell’Arizona, da molto tempo aspirante candidato Repubblicano alle presidenziali e deciso avversario del ministro della Difesa Donald Henry Rumsfeld, dimessosi poche ore dopo la sconfitta Repubblicana del 7 novembre, nel quale ha invece sempre creduto Bush o mostrato di farlo (31).
Impegnate in queste lotte annose, le diverse anime del Partito Repubblicano hanno probabilmente distratto il proprio personale politico, allontanandolo da quelle che l’elettorato considera le priorità nazionali, così che, paradossalmente, sono risultati più appetibili e se ne sono avvantaggiati politicamente i Democratici. Non a caso, autorevoli critiche al Partito Repubblicano, alla sua macchina organizzativa e alla sua linea politico-strategica sono state mosse, all’indomani del voto del 7 novembre, dal settimanale di Washington The Weekly Standard, “assai vicino” all’Amministrazione Bush, diretto da Fred Barnes e dal “figlio d’arte” neoconservatore William “Bill” Kristol, figlio appunto d’Irving Kristol, uno dei padrini riconosciuti del neoconservatorismo statunitense, anzi il primo ad attribuire in senso positivo a sé stesso il termine neoconservatore, espressione di una lunga elaborazione culturale maturata fra la fine degli anni 1960 e l’inizio degli anni 1970 (32). Le critiche non possono certamente essere considerate “ispirate” da alti livelli dell’Amministrazione Bush, ma altrettanto certamente incarnano il pensiero di molta parte di quegli stessi alti livelli o, comunque, si allineano con le riflessioni che quegli alti livelli stanno facendo o dovranno fare da ora alle elezioni presidenziali del novembre del 2008. In ogni caso, si tratta di critiche che certamente assumono talora il volto del consiglio, talaltra l’espressione della possibilità, se non addirittura della probabilità, dell’esercizio, da parte appunto degli ambienti politico-culturali che in modi diversi fanno capo a The Weekly Standard — o che a esso s’ispirano o che da esso possono essere e sono influenzati —, di forti pressioni su settori a diversi titoli significativi dell’elettorato statunitense (33).
Insomma, se probabilmente è difficile definire la consultazione elettorale del 7 novembre un referendum popolare sulla “linea Bush” — giacché, sempre probabilmente, in quell’occasione l’elettorato statunitense ha premiato, o ha creduto di premiare, un personale politico Democratico d’”intonazione” bushana —, certamente è però possibile leggere nel suo esito un severo e chiaro giudizio di non gradimento per ampi settori del Partito Repubblicano, con il corollario di dire che se “ieri” non era certamente vera l’equivalenza “Bush uguale Partito Repubblicano uguale mondo neoconservatore”, oggi è ancora meno vera l’equivalenza “Partito Repubblicano uguale Bush”, neoconservatori a parte.
8. La “questione Rumsfeld”
Paradossalmente, inoltre, le dimissioni tempestive di Rumsfeld, dopo la sconfitta Repubblicana e la sua sostituzione con Robert Michael Gates, confermano le analisi che vedono nella questione della “sicurezza nazionale” la priorità dell’elettorato americano così come si è espresso alle urne il 7 novembre.
Si è subito detto che l’avvicendamento configura una sconfessione della politica estera definibile grosso modo “di tipo neoconservatore” seguita dal comunque non-neoconservatore Rumsfeld e una presa netta di distanze di Bush da essa, quindi dal mondo definibile, sempre grosso modo, “di tipo neoconservatore” e dal neoconservatorismo stesso. In più si è aggiunto che il suggello ne è proprio l’arrivo al Pentagono di Gates, già capo della CIA, la Central Intelligence Agency, con Bush padre dal 1991 al 1993 ed espressione di quella scuola politica consuetamente definita — ma vi sarebbe da discuterne — “realista” alla Heinz “Henry” Alfred Kissinger, che oggi ha in James Addison Baker III, ex Segretario di Stato con Bush padre dal 1989 al 1992, il rappresentante più potente, una scuola politica che è, proprio nella versione kissingeriano-bakeriana, nemica giurata dei neoconservatori e pure di Bush figlio, il cui contrasto, soprattutto in temi di politica estera, con Bush padre è del resto notorio. Si tratta di fatti che, apparentemente, contraddirebbero le analisi svolte precedentemente, giacché si tratterebbe non dell’avvicendamento fra un neoconservatore e un conservatore più tradizionale, ma della sostituzione punitiva di un amico dei neoconservatori con un politicante pragmatico, magari pure disposto a certi compromessi con Stati oggi mediamente percepiti negli Stati Uniti d’America come nemici frontali della sicurezza nazionale, quali per esempio la Repubblica Islamica dell’Iran.
Non è da escludere, poi, che le dimissioni di Rumsfeld, volute da Bush figlio in persona, siano state dovute a uno “scatto” avventato, quasi a un gesto indispettito di fronte alla sconfitta elettorale registrata dal Partito Repubblicano rispondente al criterio — assai praticato in politica dopo una sconfitta elettorale e non solo né principalmente negli Stati Uniti d’America — del “qualcuno deve pagare” e dell’”una testa deve cadere”; un criterio che, rebus sic stantibus — cioè stando così le cose, in frangenti in cui le valutazioni complessive dei significati globali dei risultati elettorali sono ancora impossibili da apprezzare e da soppesare —, è sempre azzardato oltre che esageratamente punitivo ad personam, quindi potenzialmente dannoso. In genere, infatti, le decisioni prese in questo modo concedono troppo, e indebitamente, alla ridda dei “secondo me” che, senz’alcuna plausibilità, si affrettano sui media a “spiegare” i risultati; in specie, se davvero è stato dovuto a decisioni affrettate, il licenziamento di Rumsfeld ha concesso davvero troppo all’idea — circolante più fuori che dentro gli Stati Uniti d’America, ma da fuori capace di suggestionare chi sta certamente dentro ma altrettanto certamente mantiene un piede anche fuori, il presidente federale per esempio — che sul voto abbia pesato in modo decisivo la guerra in Iraq non intesa come un capitolo della questione “sicurezza nazionale”.
Oppure ancora è possibile ipotizzare che in qualche modo Bush sia stato costretto da settori del Partito Repubblicano a un segnale importante di discontinuità con il passato recente, settori del Partito Repubblicano che così, mentre magari con una mano organizzano la fronda al presidente, con l’altra chiedono allo stesso presidente di pagare pubblicamente per colpe non sue.
Dal canto suo, Frum — avallando almeno in parte l’idea di un Rumsfeld in calo di popolarità per l’attuale andamento della guerra in Iraq rispetto alle previsioni o alle intenzioni dell’inizio — ipotizza pure che, sulle dimissioni del ministro della Difesa avvenute ora, possa aver pesato la non volontà di Bush figlio di affrontare prima il complesso iter che comporta una sostituzione di governo così importante e che pure avrebbe sottoposto l’Amministrazione alle critiche e all’ostruzionismo dell’opposizione in occasione delle audizioni per la ratifica della nomina del nuovo ministro e questo in un momento politico delicato (34).
In realtà, anche se paradossale, accanto a queste, che comunque sono e restano verità — magari anche parziali oppure solo presunte — con cui fare i conti, bisogna pure tener presente che, sostituire oggi al Pentagono un “amico degli “espansionisti”” con un ex capo della CIA — per quanto quest’agenzia governativa continui a restare uno dei bersagli preferiti dell’immaginario conservatore —, cioè dei servizi d’intelligence che vegliano sulla sicurezza nazionale, significa forse non tanto fattualmente spostare l’attenzione dagli scenari esteri ai confini nazionali — giacché nella realtà le “guerre di Rumsfeld” appunto alla sicurezza nazionale hanno comunque mirato —, ma comunicare bene ai cittadini statunitensi la ferma volontà di farlo, ovvero incontrare subito, a poche ore dal voto, quelle priorità nazionali che all’elettorato stanno a cuore e che, per trascuratezza, al Partito Repubblicano sono costate il 110° Congresso. A maggior ragione oggi, a causa dell’andamento della guerra in Iraq; oggi che i suoi critici conservatori ce l’hanno più con essa per come è andata che non con la guerra in sé e con le sue motivazioni; oggi che anche i neoconservatori esprimono forti critiche sulla conduzione militare della guerra, oggi che alcuni ritengono il pericolo maggiore essere, anche retrospettivamente, più l’Iran che l’Iraq, dal momento che oggi quasi tutti ritengono impraticabile una guerra contro Teheran (35).
9. La Right Nation
I Repubblicani hanno ora due anni scarsi per mettere a punto le proprie “tecniche di comunicazione” e risolvere le faide interne, ma soprattutto per battere i Democratici sul campo delle sensibilità conservatrici, campo al centro del quale l’elettorato statunitense continua a tenere e a giocare la palla. Di questo dovranno far tesoro soprattutto quei Repubblicani che, cercando di smarcarsi da Bush, in verità si distaccano da quanto ha significato la sua rielezione nel 2004, cioè soprattutto da chi lo ha eletto. E di questo dovranno tenere adeguato conto pure i Democratici.
Perché una cosa ci si deve chiedere anzitutto. È possibile che le elezioni del 7 novembre abbiano spazzato via completamente, e nel giro di pochissimo tempo, quella realtà imponente che è la Right Nation (36), ossia l’anima conservatrice degli Stati Uniti d’America, che da sempre è l’espressione più vera dell’identità e della storia del paese? Tenendo conto che quest’anima, quand’anche non fosse maior pars, è però sempre sanior pars; che, comunque, lungo i decenni è pure riuscita a configurarsi come proposta politica di successo e che nel 2004 ha incontrato in Bush jr. un compagno di strada credibile e un interprete, parziale fin quanto si vuole, ma comunque sincero e vincente, si può affermare che non è possibile.
Lo testimoniano le considerazioni fin qui svolte, ma soprattutto lo sottolinea il fatto che, contemporaneamente alle elezioni di medio termine, si sono svolti 206 referendum, alcuni dei quali assai impegnativi dal punto di vista morale per i contenuti dei quesiti sottoposti all’elettorato.
Come osserva Frum con linguaggio diretto e volutamente duro, nello Stato del Missouri è passato un referendum “[…] che consente la ricerca sulle cellule staminali che uccide gli embrioni” (37); nello Stato del South Dakota è stata ricusata la proposta di abolire completamente l’aborto in ogni sua forma; quindi in diversi Stati sono passati altri referendum a favore dell’aumento dei salari minimi garantiti ai lavori dipendenti, questione mediamente percepita — a torto o a ragione — dal mondo conservatore come improntata a una mentalità di tipo progressista; ma, per il resto, “[…] gli elettori hanno optato per il pronunciamento più conservatore in quasi ogni proposta referendaria” (38).
Ora, passando dalla panoramica generale al dettaglio, va rilevato che — lo scrivo freddamente, cercando di comprendere le motivazioni oggettive del voto, quindi senza qui emettere giudizi di valore — la questione della ricerca medico-scientifica sulle cellule staminali embrionali risulta talora, agli occhi di alcuni — quindi anche di alcuni elettori statunitensi —, diversa da quella, per esempio, dell’aborto o delle unioni omosessuali, che sono più graphic ed evidenti, così che alcuni — compresi alcuni elettori statunitensi — finiscono per discriminare fra l’una e le altre. Del resto, il sì alla ricerca sulle staminali è passato in Missouri con appena il 51% dei consensi e 48.781 voti di differenza in uno Stato che il 4 agosto 2004 ha approvato, con una maggioranza larghissima, pari quasi al 75% dei suffragi, l’introduzione nella Costituzione dello Stato di un emendamento che proibisce le unioni omosessuali (39).
Nel South Dakota la proposta di abolire completamente l’aborto è stata bocciata con il 56% dei suffragi, ovvero con un vantaggio di soli 37.270 voti. Questa proposta, peraltro, chiedeva di passare automaticamente da un regime di liceità di aborto a un regime di abolizione completa, senza nemmeno proporre la “scappatoia” della clausola relativa al pericolo per la salute della madre.
Ma, soprattutto, va sottolineato che in otto Stati si sono celebrati altrettanti referendum in cui si è chiesto alle popolazioni di esprimersi in merito all’inserimento nelle Costituzioni di detti Stati di emendamenti che proibiscano espressamente quello che molti erroneamente chiamano il “matrimonio” fra persone omosessuali. In Colorado, Idaho, South Carolina, Tennessee, South Dakota, Virginia e Wisconsin ha trionfato la linea che vieta le unioni omosessuali; solo l’Arizona ha votato contro. In Colorado con il 54% dei suffragi e 156.545 voti di vantaggio; nell’Idaho con il 63% dei suffragi e 118.632 voti di vantaggio; nel South Carolina con il 78% dei suffragi e 588.220 voti di vantaggio; in Tennessee con l’81% dei suffragi e 1.090.980 voti di vantaggio; nel South Dakota — lo Stato che ha respinto l’abolizione completa dell’aborto — con il 52% dei suffragi e 11.481 voti di vantaggio, ma bocciando contemporaneamente, con un altro referendum, la possibilità dell’uso medico della marijuana con il 52% dei suffragi e 15.239 voti di vantaggio; in Virginia con il 57% dei suffragi e 321.701 voti di vantaggio; e in Wisconsin con il 59% dei suffragi e 399.000 voti di vantaggio.
In Arizona, dove è stata respinta l’idea di un divieto costituzionale alle unioni omosessuali, è stato fatto con il 51% dei suffragi e un vantaggio di 32.274 voti.
Lo stesso accadde il 2 novembre 2004 quando, contemporaneamente, Bush trionfò alle presidenziali e il Partito Repubblicano al Congresso, grazie a un elettorato di fatto poco diverso da quello che si è espresso il 7 novembre 2006. Allora furono gli Stati di Arkansas, Georgia, Kentucky, Michigan, Mississippi, Montana, North Dakota, Oklahoma, Ohio, Utah e Oregon a chiedere — preceduti, come ho ricordato, dal Missouri il 4 agosto e dalla Louisiana il 18 settembre 2004 con una maggioranza di circa il 78% — emendamenti costituzionali contro le unioni omosessuali, Georgia e Kentucky con maggioranze di 3 a 1 e il Mississippi addirittura di 6 a 1 (40).
La Right Nation, insomma, è ancora lì, è sempre lì, attrice protagonista. Cerca ancora, cerca sempre buoni interpreti nelle istituzioni, non solo controfigure e comparse. Agl’impresari sta attrezzarsi: infatti, lo spettacolo continua.
Marco Respinti
Note:
(1) Cfr. un primo commento “a caldo” dei risultati elettorali statunitensi nel mio La “Right Nation” batte un colpo. Diverso, ma riconoscibile, sul sito della Fondazione Magna Carta, Roma 9-11-2006, <www.magna-carta.it/relaz ioni%20internazionali%20e%20democrazia/0155_marco_re spinti.asp> (visitato il 30-11-2006); nonché le mie dichiarazioni in Andrea Morigi, Prodi fa la morale a George: “Sconfitto per la guerra”, in Libero quotidiano, Milano, 9-11-2006; sinteticamente e più “a freddo”, cfr. anche il mio Ecco perché gli USA restano di destra, in Il Circolo, supplemento a il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 47, Milano 25-11-2006, p. II.
(2) Cfr. una prima panoramica sul funzionamento del collegio elettorale nelle elezioni presidenziali statunitensi e su questo peculiare sistema federale di rappresentanza, nel mio Tutta un’altra democrazia, in il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 46, Milano 13-11-2004, p. 2.
(3) Cfr. Giuliano Ferrara, Bush, prove di debolezza, in il Foglio quotidiano, Roma 9-11-2006; Alberto Mingardi, Tranquilli, l’America guarda sempre a destra, in Libero quotidiano, Milano 9-11-2006; Gaetano Quagliariello, La bufala dei teo-con sconfitti, in il Giornale, Milano 16-11-2006; e La Right Nation è viva e lotta insieme a noi, sul sito della Fondazione Magna Carta, Roma 17-11-2006: <ww w.magna-carta.it/uovodigiornata.asp> (visitato il 30-11-2006).
(4) Cfr. Gianna Fregonara, D’Alema esulta: nuovo ciclo. Sconfitto l’unilateralismo. Il premier: ha pesato l’Iraq, in Corriere della Sera, Milano 9-11-2006, dove sono riportate, fra altre, le dichiarazioni del presidente del Consiglio dei Ministri on. R. Prodi, del ministro degli Esteri on. Massimo D’Alema, del presidente della Camera dei Deputati on. Fausto Bertinotti e del presidente di Alleanza Nazionale on. Gianfranco Fini, queste ultime le uniche a cogliere nel segno quando alludono a una differenza reale e importante fra il Partito Repubblicano, sconfitto, e il presidente federale in carica: “Il voto — l’on. Fini ha infatti affermato — non sconfessa Bush”; cfr. anche A. Morigi, Prodi fa la morale a George: “Sconfitto per la guerra”, cit.
(5) Cfr. G. Ferrara e Ritanna Armeni (conduttori), Otto e mezzo. Programma di approfondimento quotidiano, trasmissione La rivincita dei Democratici, dell’8-11-2006, in onda su La 7, video in <www.la7.it/news/videorubri che/dettaglio.asp?id=635&tipo=13> (visitato il 30-11-2006).
(6) Cfr. David Frum, Battle for White House Gets Serious, in National Post, Don Mills (Ontario, Canada) 8-11-2006, poi sul sito dell’American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 8-11-2006: <www.aei. org/ publications/ filter.all,pubID.25119/ pub_de tail.asp> (visitato il 30-11-2006).
(7) Ibidem.
(8) Cfr. Ibidem.
(9) Cfr. Ibidem.
(10) Cfr. James Henry “Jim” Webb jr., Born Fighting: How the Scots-Irish Shaped America, Broadway Books, New York 2004.
(11) Cfr. Braveheart-Cuore impavido (Braveheart, USA 1995). Regista: Mel Gibson. Interpreti principali: M. Gibson, Sophie Marceau, Patrick McGoohan.
(12) Cfr. Regole d’onore (Rules of Engagement, USA 2000). Regista: William Friedkin. Interpreti principali: Tommy Lee Jones, Ben Kingsley, Samuel Leroy Jackson, Anne Archer, Blair Underwood, Mark Feuerstein, Guy Pearce, Bruce Greenwood.
(13) Cfr. D. Frum, America Is Still a Conservative Country, in The Daily Telegraph, Londra 9-11-2006, poi sul sito dell’American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 9-11-2006: <www.aeiorg/ publica tions/ filter.all,pubID.251 19/ pub_detail.asp> (visitato il 30-11-2006).
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Cfr. Idem, Some Democrats Are Worse Than Others, in National Post, Don Mills (Ontario, Canada) 4-11-2006, poi sul sito dell’American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 6-11-2006: <www.aei. org/ publications/ filter.all,pubID.25100/ pub_detail.asp> (visitato il 30-11-2006).
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Ibidem.
(26) Idem, America Is Still a Conservative Country, in The Daily Telegraph, Londra 9-11-2006, poi sul sito dell’American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 9-11-2006: <www.aeiorg/publications/filter. a ll,pubID.251 19/pub_detail.asp> (visitato il 30-11-2006).
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Cfr. Idem, Battle for White House Gets Serious, cit.
(31) Cfr. i miei Il lato debole di W., in il Foglio quotidiano, Roma 31-8-2005, e Usa, l’embrione arma elettorale, in L’Indipendente, Roma 26-10-2005.
(32) Cfr. Irving Kristol, Il neoconservatorismo. Autobiografia di un’idea, trad. it., con Prefazione di Andrea Marcigliano, Nuove Idee, Roma 2005.
(33) Cfr. The Weekly Standard, vol. 12, n. 10, Washington 20-10-2006.
(34) Cfr. D. Frum, Some Democrats Are Worse Than Others, cit.
(35) Cfr. per esempio le dichiarazioni dell’ex analista conservatore della Casa Bianca Dinesh D’Souza nel mio Iran e Iraq, in Affari Italiani. Il primo quotidiano on line, Milano 20-7-2006: <http:// canali.libero.it/ affaritaliani/ politica/ iraniraq2007.html> (visitato il 30-11-2006).
(36) Cfr., per l’uso e il senso di questa espressione, John Micklethwait e Adrian Wooldridge, La destra giusta. Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra, trad. it., Mondadori, Milano 2005.
(37) D. Frum, America Is Still a Conservative Country, cit.
(38) Ibidem.
(39) Cfr. Giovanni Cantoni, “The Missourians”: un fatto, non una “fiction”, in Cristianità, anno XXXII, n. 324, luglio-agosto 2004, pp. 3-4.
(40) cfr. il mio Hanno votato in tanti. Ha vinto il presidente. God Bless America, in il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 45, Milano 6-11-2004, p. 1.