Ettore Ribolzi, Cristianità n. 148-150 (1987)
Atti e dichiarazioni della figura di maggiore rilievo nella mitologia rivoluzionaria sudafricana
Chi è Nelson Mandela?
Dal mese di giugno del 1987 è iniziata in Italia una campagna per raccogliere firme a sostegno della candidatura del leader nero sudafricano Nelson Mandela al Premio Nobel per la Pace per questo stesso 1987 (1).
Fra le numerose personalità che – secondo i promotori della campagna – avrebbero aderito all’iniziativa si segnalano anche esponenti, a diverso titolo prestigiosi, del mondo cattolico.
A tutt’oggi non sono mancate neppure voci discordanti dall’iniziativa e fra esse la più autorevole è certamente quella di padre Piero Gheddo, del PIME, il Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, autore di numerosi e apprezzati scritti relativi a diversi paesi e situazioni del Terzo Mondo, che ha espresso il proprio dissenso in una lettera inviata al quotidiano Avvenire (2).
Alla luce di quanto riferito sembra dunque opportuno e doveroso contribuire – nella misura del possibile – a dissipare la cortina di omissioni e di reticenze – per dire il meno – elevata da una parte rilevante dei mezzi di informazione attorno alla figura di Nelson Mandela e quindi metterne in luce caratteristiche meno note.
Alcuni cenni biografici
Nelson Rolihalahla Mandela, principe della tribù xhosa, nasce nel 1918 a Umtata, nel Tembuland, regione del Transkei, già Bantustan della Repubblica Sudafricana, indipendente dal 1979.
Fin da giovane si mostra interessato ai problemi razziali e già al tempo in cui frequenta l’università di Fort Hare si fa notare nel mondo studentesco per il proprio attivo impegno politico.
In seguito esercita la professione forense a Johannesburg, insieme a Oliver Tambo, attuale presidente dell’ANC, l’African National Congress (3).
Il vero e proprio inizio dell’attività politica di Nelson Mandela nell’ANC risale al 1944, e nel 1952 egli diventa presidente di questo movimento per il Transvaal. Successivamente, nel novembre del 1961, fonda l’organizzazione denominata Umkonto we Sizwe, che in lingua bantu significa “Lancia della Nazione” e che costituisce l’ala militare dello stesso ANC. Quest’ultimo – nel frattempo – è dichiarato fuori legge da parte del governo sudafricano, precisamente a partire dal 1960, anno in cui in un solo mese – dal 21 marzo al 19 aprile – attentati attribuiti all’ANC e al PAC, il Pan Africanist Congress – fondato nel 1959 da esponenti fuoriusciti dall’ANC – provocano ottantasei morti e quattrocentoventiquattro feriti fra civili e forze dell’ordine.
Arrestato il 5 agosto 1962 presso Howick, nel Natal, Nelson Mandela viene processato e condannato a cinque anni di carcere per reati minori, fra i quali espatrio clandestino e incitamento allo sciopero.
Mentre sta scontando tale condanna, l’11 luglio 1963 la polizia sudafricana fa irruzione in una casa – poi identificata come l’alto comando nazionale dell’Umkonto we Sizwe – in località Rivonia, a nord di Johannesburg. I risultati delle indagini che fanno seguito a tale irruzione inducono le autorità a processare, oltre alle sette persone arrestate direttamente a Rivonia e ad altre coinvolte, anche Nelson Mandela. Il processo, noto appunto come processo di Rivonia e che si svolge davanti alla sezione provinciale del Transvaal della Corte Suprema sudafricana, costituisce il momento focale per mettere in luce e identificare la personalità del leader sovversivo.
Il processo di Rivonia
Nel corso delle udienze pubbliche tenute dall’ottobre del 1963 all’11 giugno 1964, vengono ascoltati centosettantatrè testimoni e presentati dall’accusa numerosi documenti, riconosciuti come autentici dagli stessi imputati – e del cui contenuto farò stato diffusamente in seguito -, che dimostrano in modo inequivocabile il coinvolgimento degli accusati in attività di terrorismo e di complotto contro le istituzioni e i poteri dello Stato (4).
Chiamato al banco degli imputati, lo stesso Nelson Mandela, nella propria autodifesa processuale, confessa apertamente (5):
- di essere stato uno dei fondatori dell’Umkonto we Sizwe, esplicitamente affermando che tale organizzazione persegue obbiettivi politici attraverso il ricorso alla violenza. Ammette altresì di avere personalmente programmato azioni di sabotaggio, negando tuttavia che l’organizzazione da lui fondata abbia come obbiettivo azioni terroristiche e dichiarando inoltre di essere stato costretto a ricorrere alla violenza solamente a causa dell’atteggiamento del governo (6);
- di essere stato membro dell’Esecutivo Nazionale dell’ANC, negando tuttavia la propria appartenenza al Partito Comunista Sudafricano (7);
- che nel 1962 si è recato clandestinamente all’estero per cercare finanziamenti e per organizzare centri di addestramento militare per i membri dell’Umkonto we Sizwe. Riconosce pure di avere personalmente partecipato, in Algeria, a un corso di addestramento militare (8);
- di essersi accordato con l’Esecutivo Nazionale dell’ANC per l’assistenza e per il trasporto delle reclute presso i centri di addestramento militare all’estero, utilizzando a tal fine le missioni estere dello stesso ANC. Anzi, dichiara che le prime reclute venivano già addestrate in Tanganika al tempo del suo rientro in Sudafrica attraverso quel paese, cioè – approssimativamente – nella seconda metà dell’anno 1962 (9).
A conclusione del processo Nelson Mandela, unitamente ad altri otto imputati, viene riconosciuto colpevole di sabotaggio e di cospirazione contro lo Stato, e quindi condannato all’ergastolo.
Il ricorso alla violenza secondo Nelson Mandela
Passando a esaminare i documenti esibiti dall’accusa nel corso del processo di Rivonia, cioè i documenti sequestrati nella sede dell’alto comando dell’Umkonto we Sizwe, ci si trova di fronte a materiale di estrema importanza per ricostruire il pensiero politico di Nelson Mandela e, quindi, per metterne in luce il vero volto. Tali documenti contraddicono palesemente e in più punti la dichiarazione di autodifesa processuale.
Infatti, mentre in sede di dibattimento egli nega il carattere terroristico dell’organizzazione da lui fondata, cioè l’Umkonto we Sizwe, giustificando il ricorso alla violenza con l’atteggiamento del governo sudafricano, in un documento scritto di suo pugno, in un capitolo intitolato Materialismo dialettico, esprime il suo pensiero in questi termini: “La transizione dal capitalismo al socialismo e la liberazione della classe operaia dal giogo non potrà avvenire attraverso cambiamenti e riforme lente, come consigliano spesso i reazionari e i liberali, ma solo tramite la rivoluzione” (10).
Una successiva conferma di questa sua posizione dottrinale si trova in un’intervista pubblicata anche in Italia, nella quale non nega di aver pronunciato la frase secondo cui “il bianco deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista” (11).
Ciascuno liberamente valuti se dichiarazioni di questo tenore sono consone a un candidato al Premio Nobel per la Pace: esse mostrano infatti, con ogni evidenza, che per Nelson Mandela la violenza non costituisce l’eventuale extrema ratio a cui una nazione può fare ricorso per rovesciare un regime ingiusto – e, anche in questa ipotesi, fatta salva la moralità dei mezzi -, ma rappresenta piuttosto la modalità privilegiata e positivamente utilizzata per abbattere un regime esistente e per imporre un ben preciso modello di Stato, cioè, nel caso, un regime e un governo di tipo socialcomunista.
Un’ulteriore conferma di tutto questo si può rinvenire agevolmente in un altro importante documento, prodotto sempre dall’accusa nel corso del processo di Rivonia e intitolato Operation Mayibuye, “Operazione Ritorno”. Si tratta di un testo che contiene un vero e proprio piano articolato di guerriglia, con la previsione di un’invasione del Sudafrica da parte di forze armate addestrate all’estero. Nella prima parte del documento in questione, fra l’altro, si legge: “Come a Cuba, la rivolta generale deve essere lanciata da operazioni di guerriglia organizzate e ben preparate, nel corso delle quali si possono coinvolgere e armare le masse popolari.
“Non nutriamo illusioni circa le difficoltà che dovremo affrontare nell’avviare e proseguire con successo operazioni di guerriglia miranti alla vittoria militare. Né presumiamo che tale lotta possa concludersi velocemente” (12).
Nella quinta parte dello stesso documento sono indicati anche gli obbiettivi preferenziali che la guerriglia avrebbe dovuto colpire, ossia vie di comunicazione, centrali elettriche, questure e caserme, impianti industriali e così via.
In un altro documento – sempre esibito dall’accusa – sono pure indicate le esigenze della guerriglia, ed esse comprendono, fra l’altro, 210.000 bombe a mano, 48.000 mine anti-uomo e 1.500 congegni a orologeria per bombe. Come è facile notare, si tratta di esigenze davvero improprie per un’organizzazione che non avrebbe avuto fini terroristici …
Il rapporto con il marxismo
Dopo l’aspetto ideologico-operativo, merita certamente di essere approfondito il rapporto di Nelson Mandela con il marxismo.
Egli ha sempre rifiutato di essere definito comunista, ma ha ammesso di essere stato profondamente “influenzato dal pensiero marxista” (13); il suo pensiero in proposito può essere ricostruito facilmente attraverso la lettura di un altro documento sequestrato a Rivonia, intitolato Come essere un buon comunista e scritto a mano dallo stesso Nelson Mandela.
In questo testo, fra l’altro, si legge: “Nel nostro paese le lotte della popolazione oppressa sono guidate dal Partito Comunista Sudafricano e ispirate alla sua politica”; “Noi membri del Partito Comunista siamo i rivoluzionari più avanzati della storia moderna e siamo la forza contemporanea di lotta e di guida per il cambiamento della società e del mondo“; “… Il movimento comunista si trova ancora di fronte potenti nemici che devono essere completamente distrutti e spazzati via dalla faccia della terra prima che il mondo comunista possa essere realizzato. Senza una lotta dura, amara e lunga contro il capitalismo e lo sfruttamento non potrà esservi un mondo comunista” (14).
La conclusione che si può trarre immediatamente da un simile testo è che l’obiettivo ultimo dell’impegno politico di Nelson Mandela non consiste nel progresso sociale dei neri sudafricani, ma propriamente nell’instaurazione del comunismo, attuata attraverso una rivoluzione e una rivoluzione violenta, da realizzare servendosi della “dialettizzazione” dei rapporti razziali. Se – come scrive Arthur Rosenberg, ex membro del Comitato esecutivo della Terza Internazionale – “nel cercare la possibilità della rivoluzione tedesca, Marx trova il proletariato” (15), a cui si accosta come a un mezzo, senza pathos di nessun genere, Nelson Mandela, nel cercare la possibilità della rivoluzione sudafricana, trova invece i neri sudafricani, che devono essere utilizzati come strumenti per abbattere il governo del Sudafrica, espressione di un particolare regime politico ed economico prima ancora e piuttosto che di un certo gruppo etnico.
Dopo venticinque anni di carcere
Resta finalmente da vedere se, dopo venticinque anni di carcere, l’atteggiamento di Nelson Mandela non sia effettivamente mutato. Secondo i termini di un’intervista rilasciata a John Lofton di The Washington Times nel 1985, si deve dedurre che non lo è assolutamente. Infatti, in quell’occasione il leader nero ribadisce che “non vi è alternativa alla rivoluzione violenta, non vi è spazio per una lotta pacifica” (16).
Merita pure di essere ricordato che il governo sudafricano ha reiteratamente offerto a Nelson Mandela la scarcerazione all’unica condizione di una sua esplicita rinuncia alla violenza come metodo di lotta politica, ma che tale proposta è stata da lui sempre respinta.
Inoltre, è degno di nota il fatto che Amnesty International gli ha negato la qualifica di prigioniero politico, proprio perché Nelson Mandela ha pubblicamente ammesso e giustificato il ricorso alla violenza: “Amnesty International si renderebbe colpevole di adottare due pesi e due misure e perderebbe così la sua credibilità se chiedesse alla polizia e ai responsabili carcerari di astenersi dalla violenza e poi, nello stesso tempo, facesse pressioni sul governo per il rilascio di rappresentanti dell’opposizione che hanno fatto uso della violenza” (17).
Da quanto è stato messo in luce emerge che descrivere Nelson Mandela come “uomo di pace, rappresentante del suo popolo, patriota e democratico” e così via (18), costituisce un autentico falso storico.
Inoltre, è assolutamente evidente che la soluzione dei problemi di convivenza razziale che si agitano in Sudafrica non può certo consistere nel fomentare l’odio di razza e la violenza di razza, elementi strumentalizzati da parte degli agenti della Rivoluzione comunista e certamente non utili al fine del perseguimento di un autentico progresso sociale della popolazione sudafricana di colore.
Con queste premesse e in questo contesto, dunque, l’eventuale assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Nelson Mandela costituirebbe una vera e propria cauzione della violenza come strumento privilegiato di lotta politica e un implicito incitamento al terrorismo, non soltanto in Sudafrica, ma nel mondo intero.
Ettore Ribolzi
Note:
(1) Cfr. Pace Subito, supplemento a Sottovoce, anno V, n. 23, 6-6-1987.
(2) Cfr. PADRE PIERO GHEDDO, Il Nobel a Mandela? Proprio no, in Avvenire, 3-5-1987.
(3) Per i cenni biografici, cfr. Nelson Mandela, in Encyclopaedia Britannica. Book of the Year 1965. Biographies, p. 82. Per un inquadramento dei rapporti e dei legami fra l’ANC e il Partito Comunista Sudafricano, cfr. MASSIMO INTROVIGNE, Rapporto sul Sudafrica, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985.
(4) Le informazioni relative al processo di Rivonia sono tratte in massima parte da H. H. W. DE VILLERS, Rivonia. Operation Mayibuye. A review of the Rivonia trial, Africaanse Pers-Boekhandel, Johannesburg 1964.
(5) L’autodifesa di Nelson Mandela è stata pubblicata in Italia in un’antologia di suoi scritti, La non facile strada della libertà, Edizioni Lavoro, Roma 1986, pp. 95-126.
(6) Cfr. ibid., pp. 96-97.
(7) Cfr. ibid., pp. 117-118.
(8) Cfr. ibid., pp. 110-111.
(9) Cfr. ibidem.
(10) Cit. in H. H. W. DE VILLERS, op. cit., p. 97.
(11) Mandela: la guerra ai bianchi, intervista non firmata, in La Stampa, 23-8-1985.
(12) Cit. in H. H. W. DE VILLERS, op. cit., p. 65.
(13) N. MANDELA, La non facile strada della libertà, cit., p. 118.
(14) Cit. in H. H. W. DE VILLERS, op . cit., p. 95.
(15) ARTHUR ROSENBERG, Storia del bolscevismo; trad. it., Sansoni, Firenze 1969, p. 5.
(16) The Washington Times, 23-8-1985.
(17) Cit. dal quotidiano finlandese Helsingin Sanomat, 13-9-1985.
(18) La definizione è contenuta nella scheda per la raccolta delle firme a sostegno della candidatura di Nelson Mandela al Premio Nobel per la Pace 1987, allegata al fascicolo Pace Subito. cit.