Louis Salleron, Cristianità n. 5 (1974)
Traduzione dell’articolo Qu’est-ce que l’“exploitations?, comparso su Permanences. Parigi, marzo 1971, n. 78, pp. 13-22.
Da qualche anno, i cattolici si sono gettati sul marxismo per farne la loro religione. Ne sposano le idee e il vocabolario, con una ignoranza che fa paura – ignoranza del marxismo, ignoranza del cattolicesimo.
Prendiamo in esame una parola che compare spesso sui giornali, nei congressi, nelle mozioni e nelle dichiarazioni degli ambienti cattolici: “sfruttamento”. Bisogna distruggere il “capitalismo” e instaurare il “comunismo” (sovietico, maoista, castrista o d’altro tipo), perché il capitalismo è il regime dello “sfruttamento” (dei salariati, del proletariato, ecc.) e il comunismo è la soppressione dello sfruttamento, quindi con ogni probabilità la giustizia.
Una tale aberrazione è così incredibile – soprattutto quando si considera la situazione dei salariati nei regimi comunisti – che non si sa da che parte abbordare il problema per chiarirlo.
Ci limiteremo a qualche punto.
- LA PAROLA “SFRUTTAMENTO” NELLA STORIA DELLE DOTTRINE
Bisognerebbe anzitutto situare la parola “sfruttamento” nella storia delle dottrine. Senza dubbio esiste qualche grossa opera sull’argomento. Ma ci limiteremo a richiamare fatti ben noti, che oggi sembrano dimenticati.
Marx non ha inventato la teoria dello sfruttamento, né la parola, né l’idea.
L’idea di sfruttamento è vecchia come il mondo. Vi sono sempre stati forti e deboli, ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati: vi sono sempre state ingiustizie. Tutte le religioni, tutte le filosofie parlano della giustizia.
Quando la parola “sfruttamento” fa il suo ingresso nella letteratura economica? Personalmente lo ignoro. Vi sono sempre precursori nell’uso delle parole. Ma se Sismondi parla di “spoliazione”, nel senso in cui poi si dirà abitualmente “sfruttamento”, quest’ultimo termine sembra proprio che sia stato messo in circolazione dai sansimoniani.
Diciamo “i sansimoniani” piuttosto che Saint-Simon, perché generalmente si fa riferimento alla Doctrine de Saint-Simon, opera nella quale il suo discepolo Bazard espone le idee del maestro.
In quest’opera si trovano frasi del tipo: “L’uomo ha fino a oggi sfruttato l’uomo …”, oppure “Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che abbiamo mostrato nel passato nella sua forma più diretta, più grossolana, la schiavitù, continua a un altissimo livello nei rapporti tra i proprietari e i lavoratori, tra i padroni e i salariati” (1).
Data: 1828-1829.
Anche Proudhon usa il termine, riferendosi (probabilmente) a Saint-Simon. Stigmatizzando il furto commesso dal “capitalista” nei confronti del “produttore” (il lavoratore), scrive: “In questo soprattutto consiste ciò che è stato opportunamente chiamato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” (2).
Data: 1840.
Ricordando che la prima edizione del Manifesto del partito comunista è del 1848, e la prima edizione del Capitale del 1867, si vede che Marx ha avuto dei predecessori. Inoltre, anche se l’idea di sfruttamento è al centro della dottrina di Marx, la parola non vi trova un uso molto frequente. Citiamo almeno due passaggi: “il modo di produzione capitalistico si presenta dunque come necessità storica per trasformare il lavoro isolato in lavoro sociale; d’altra parte, in mano al capitale, la socializzazione del lavoro aumenta le forze produttive di questo soltanto per sfruttarlo con maggior profitto” (3). La divisione del lavoro si presenta “da una parte come progresso storico e momento necessario nella formazione economica della società, dall’altra come un mezzo di sfruttamento incivilito e raffinato” (4).
Per quanto riguarda le teorie, esse variano all’infinito, anche se, per il profano, sembrano tutte uguali.
Nella loro classica storia delle dottrine economiche, Ch. Gide e Ch. Rist scrivono: “Si potrebbero così riassumere i diversi significati del termine “sfruttamento”, a seconda che ci si ponga dal punto di vista di Sismondi, dei sansimoniani o di Marx: 1º) Per Sismondi, il lavoratore è sfruttato nel senso che non gli si dà un salario sufficiente per vivere in modo umano; ma il reddito senza lavoro gli sembra legittimo; 2º) Per i sansimoniani, vi è sfruttamento nel senso che una parte del prodotto materiale del lavoro è distolto a profitto dei proprietari dalle istituzioni sociali; 3º) Per Marx infine, vi è sfruttamento nel senso che una parte del valore creato dal lavoro è distolto dai capitalisti in virtù delle istituzioni sociali e delle leggi dello scambio” (5) .
Come si vede, le teorie possono variare. Gide e Rist ne esaminano solo tre. Se ne troverebbero ben di più se si passassero in rassegna tutti gli autori che, nel secolo XIX, hanno denunciato l’ingiustizia subita dai salariati. Ogni autore ha la sua teoria personale.
- LA PAROLA “SFRUTTAMENTO” NEL LINGUAGGIO CORRENTE
Nel linguaggio corrente con “sfruttamento” si intende una ingiustizia duratura, di ordine economico e sociale, commesso dai più forti ai danni dei più deboli, in occasione di una prestazione di servizi.
Quando si dice di chi presta servizi ad altri che è sfruttato, si vuol dire che, in cambio dei servizi forniti, non riceve una “ricompensa” proporzionata – si tratti di denaro, di considerazione, di condizioni di esistenza, ecc.
Nella nozione di sfruttamento sono dunque racchiuse due idee: l’idea di ingiustizia (è l’idea principale) e l’idea di durata (è l’idea accessoria).
In che cosa consiste la giustizia? Nel rendere a ciascuno quanto gli è dovuto – reddere cuique suum.
Se non si rende il dovuto a ciascuno, in una determinata occasione, lo si deruba o lo si lede. Ma se non gli si dà il dovuto in una prestazione di lunga durata (che per l’interessato costituisce uno stato) lo si sfrutta.
A questo proposito, il linguaggio corrente corrisponde a una intuizione assolutamente esatta delle nozioni di giustizia e di ingiustizia.
- I DIVERSI LIVELLI DI SFRUTTAMENTO (O DI NON-SFRUTTAMENTO)
Lo sfruttamento (o il non-sfruttamento) può intervenire a diversi livelli; e vi può essere sfruttamento a un livello senza che vi sia sfruttamento a un altro livello.
Ci spieghiamo.
Uno scambio di servizi ha luogo tra due individui, o tra un individuo e un gruppo, o tra un gruppo e un individuo – e ogni volta in seno a un insieme sociale più vasto, anch’esso incluso in un insieme ancora più vasto. Vi può essere sfruttamento a un livello e non all’altro.
Immaginiamo un contadino, povero, che, per un qualsiasi lavoro, si rivolga a uno più povero di lui e gli dia una somma molto inferiore a tutti i minimi salariali. Lo sfrutta personalmente? No, perché non gli può dare niente di più e si priverebbe delle sue prestazioni se dovesse farlo. Quindi non vi è sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Vi è sfruttamento (se vi è sfruttamento) di un uomo, e anche di due, da parte della “società”.
Non si tratta di un caso eccezionale. Si tratta, piuttosto, di una gamma di situazioni variabili all’infinito, della trama stessa della vita sociale.
Proprio per questo, se si approfondiscono un po’ le nozioni di sfruttamento e di non-sfruttamento, si vede subito che sfociano nel solo e unico problema della giustizia, così come si pone nei suoi due aspetti classici: quello della giustizia commutativa (ciò che l’uno deve all’altro nello scambio) e quello della giustizia distributiva (quanto è dovuto a ciascuno nel quadro della organizzazione dei gruppi sociali e della società globale).
In breve si tratta del cosiddetto problema della giustizia sociale.
- LO “SFRUTTAMENTO CAPITALISTA”
Per il marxismo, lo sfruttamento si riassume nello “sfruttamento capitalista“.
Nel Manuale di economia politica, pubblicato dall’Istituto di Economia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, e diffuso in milioni di esemplari, si legge: “La produzione capitalista è fondata sul lavoro salariato. Gli operai salariati sono liberati dai legami della servitù. Ma sono privati dei mezzi di produzione e, per non morire di fame, sono obbligati a vendere la loro forza di lavoro ai capitalisti. Lo sfruttamento del proletariato a opera della borghesia costituisce il tratto principale caratterizzante il capitalismo, e il rapporto tra borghesia e proletariato è il rapporto di classe fondamentale del regime capitalista” (6).
Di fronte a questo testo (e a innumerevoli altri dello stesso genere), si è portati a porre le seguenti domande:
– Se lo “sfruttamento”, è lo sfruttamento “capitalista” – cioè la condizione del salariato pagato dall’impresa capitalista – altrove non vi può essere sfruttamento. Il salariato di un padrone individuale non può essere sfruttato. Il salariato di una impresa nazionalizzata non può essere sfruttato. I ragazzi che lavorano con il padre non possono essere da lui sfruttati, ecc.
– Se il marxismo risponde che, in un regime capitalista, l’influenza del regime su tutte le attività economiche e sociali può incidere con un coefficiente di sfruttamento sui rapporti estranei alle imprese capitaliste, in tal caso il regime stesso costituisce lo sfruttamento.
– Se il regime capitalista (cioè un regime caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione) costituisce in sé stesso lo sfruttamento, in tal caso non vi può essere sfruttamento in regime non-capitalista (cioè in regime comunista).
– Se non vi è sfruttamento in regime comunista, gli interessati (cioè coloro che in regime capitalista sono chiamati salariati) sono, a parità di condizioni, meglio pagati, meglio trattati, più liberi e più felici di prima, o dei loro corrispondenti dei paesi capitalisti?
Ragionando, si è portati rapidamente alla seguente alternativa:
– o quella di sfruttamento è una nozione puramente astratta e nient’altro che una diversa denominazione per indicare la condizione di “salariato in regime capitalista“;
– oppure lo sfruttamento evoca un’idea di ingiustizia, di durata, di alienazione che si legherebbero concretamente alla condizione di salariato; e in questo caso bisogna provare che il salariato è effettivamente sfruttato in regime capitalista e che effettivamente non lo è in regime comunista.
La nozione astratta è evidentemente assurda. Ha senso solo se riferita alla realtà concreta.
Di conseguenza, si finirà per riconoscere che dal problema dello sfruttamento si passa a quello della giustizia. Si tratta di sapere se, nell’insieme, un regime in cui è abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione è più giusto di un regime in cui essa esiste.
Il regime più giusto è quello in cui è meglio assicurata la giustizia, cioè quello in cui le prestazioni fornite sono remunerate con il loro più esatto valore da altri (nel contratto) e dalla società (nell’organizzazione sociale).
- LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
La Chiesa parla molto della giustizia. Essa non parla assolutamente dello sfruttamento – nozione che, nel senso marxista del termine, è a essa estranea. Per essa, infatti, questa parola “non significa, come in Karl Marx, il processo automatico di estorsione del plusvalore che si scatena dal momento in cui sono di fronte il capitale e il lavoro“, ma significa “l’ingiustizia di una modalità (o regime del salariato) nella quale il capitale (nel senso collettivo di capitalisti) utilizza il lavoro altrui solo per trarne profitto” (7). Nella Quadragesimo anno Pio XI scrive: “Il capitale viola il retto ordine quando vincola a sé gli operai ossia la classe proletaria col fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l’economia tutta, senza far caso, né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale dell’economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune” (8).
In breve, per Pio XI, vi è sfruttamento capitalista quando vi è sfruttamento, cioè ingiustizia, in regime capitalista. Ma il regime capitalista non costituisce in sé stesso lo sfruttamento. Non si potrebbe dire lo stesso dello sfruttamento comunista, nel senso che il comunismo è “intrinsecamente perverso” e che il suo sistema economico si identifica con il suo regime politico e con la sua dottrina dell’uomo (al contrario del sistema capitalista, che, essendo di natura esclusivamente economica, può funzionare con effetti sociali molto diversi a seconda che sia utilizzato da sistemi politici diversi (9) e in conformità con diverse dottrine dell’uomo).
CONCLUSIONE
Da questa rapidissima scorsa sulla nozione di sfruttamento, la conclusione si tira da sola.
– O ci si riferisce alla nozione marxista di sfruttamento ed essa è falsa come teoria e positivamente assurda se si confronta con il reale. (Pretendere che un salariato americano sia sfruttato mentre un salariato russo no, è grottesco).
– O si usa il termine “sfruttamento” per significare una ingiustizia nei rapporti sociali tra i più deboli e i più forti e allora si danno mille forme di sfruttamento che ci invitano a una perpetua lotta, da una parte per correggere queste ingiustizie ovunque le si incontri, dall’altra per tentare di istituire il regime sociale che favorisca, di per sé stesso, la maggiore giustizia, o, almeno, la minore ingiustizia, per il maggior numero di persone.
In questa seconda prospettiva, l’unica cosa che si può dire con sicurezza, alla prova dei fatti e sul piano dottrinale, è che un regime che abolisce totalmente la proprietà privata dei mezzi di produzione favorisce maggiormente l’ingiustizia (dunque lo sfruttamento) di un regime che ammette la proprietà (pur regolandola).
E questa osservazione sarebbe ancora più vera se noi prendessimo in considerazione beni superiori a quelli costituiti dall’uguaglianza nello scambio e nell’organizzazione sociale – come, ad esempio, la libertà e la possibilità per l’uomo di perseguire i suoi fini più alti.
LOUIS SALLERON
Note:
(1) PAUL GEMÄLHING, Les grands économistes, Sirey, 1933, p. 225, nota.
(2) Ibidem.
(3) K. MARX, Le Capital, trad. Ray, II, p. 27, in J.-Y. CALVEZ, Il pensiero di Carlo Marx, trad. it., Borla, Torino 1966, pp. 321-322. La sottolineatura è nostra.
(4) K. MARX, op. cit., p. 53, in J.-Y. CALVEZ, op. cit., p. 324.
(5) CH. GIDE e CH. RIST, Histoire des doctrines économiques, 5ª ed., 1926, p. 254, nota. Le sottolineature sono degli Autori. La teoria di Marx è qui riassunta al massimo da Gide e Rist. Essa infatti è di una complicazione estrema, che caratterizza, in verità, tutto Il Capitale. Si sa che parte dalla teoria del plusvalore. Marx pensa che l’operaio riceva soltanto il prezzo della sua forza di lavoro, pari al valore degli elementi di sussistenza che gli permettono di vivere, mentre il suo lavoro crea un valore superiore nel prodotto da lui fabbricato. La differenza tra questi due valori è il plusvalore. Il capitalista, tenendo per sé il plusvalore, sfrutta il lavoratore. Questa teoria semplicistica, falsa tanto nel secolo XIX come oggi, aveva allora un’apparenza di giustificazione a causa dell’ingiustizia di cui soffriva il mondo dei lavoratori, effettivamente sfruttati (nel senso corrente del termine) dal mondo dei capitalisti. Oggi, lo sviluppo del macchinismo e dell’automazione permette a fatica di comprendere la teoria del plusvalore che, per altro, è privata di ogni senso concreto dal rapporto tra la massa dei salari e quella dei profitti.
(6) Manuel d’économie politique, trad. franc., Editions Sociales, Parigi 1956, pp. 117-118. La sottolineatura è nostra.
(7) J.-Y. CALVEZ – J. PERRIN, Eglise et société économique, Aubier, 1959, p. 451.
(8) PIO XI, Quadragesimo anno, in J.-Y. CALVEZ – J. PERRIN, op. cit., p. 451.
(9) Di fatto, tutti i regimi politici oggi sono ibridi; e quelli che i comunisti chiamano “regimi capitalisti” sono regimi generalmente molto socializzati. Ma non sono neppure puramente e semplicemente socialisti (cioè comunisti) dal momento che ammettono la proprietà privata dei mezzi di produzione e questa sopravvive malgrado importanti amputazioni di nazionalizzazioni e una fiscalità molto “socializzante”.