Louis Salleron, Cristianità n. 7 (1974)
Traduzione dell’articolo Travail et capital, comparso in Itinéraires, Parigi, maggio 1971, n. 153, pp. 84-87.
Da anni si è presa l’abitudine di affermare la supremazia del lavoro sul capitale, argomentando che il capitale è soltanto materia, mentre il lavoro, essendo indissociabile dalla persona del lavoratore, sarebbe in sé stesso qualcosa di spirituale.
Tutto questo significa introdurre una pericolosa confusione in un campo in cui è importante rispettare tutte le distinzioni necessarie.
Se si vuol dire che il lavoratore è, da tutti i punti di vista, superiore al capitale, cioè alla macchina e al denaro, l’affermazione è evidente e nessuno, a nostra scienza, la contesta.
Anche se si vuol dire che dietro il lavoro c’è il lavoratore, e che quindi non si devono mai trattare problemi relativi al lavoro senza tenere ben presenti le conseguenze che ne possono derivare per il lavoratore, pure questo è un punto su cui l’accordo non può non essere generale.
Detto questo, quando non si prenda più in esame il problema politico, cioè quello dell’organizzazione totale della società umana, ma il problema economico, cioè, sostanzialmente, quello dell’organizzazione della produzione, degli scambi e del consumo, i segni si rovesciano, o almeno le cose si fanno più complesse.
Il capitale è stato spesso definito “lavoro cristallizzato”. L’uomo, in quanto lavoratore, è un animale che capitalizza. Egli utilizza il suo lavoro per tre fini: anzitutto, per ricavare direttamente i suoi mezzi di sussistenza (consumo); in secondo luogo, per creare riserve di sussistenza (risparmio); infine, per creare mezzi nuovi e “artificiali” di produzione, che gli permettano di produrre di più e meglio lavorando meno o più piacevolmente (investimento).
Il risparmio e l’investimento corrispondono al capitale. Ogni uomo lavora per farsi un capitale, per aumentare la sua sicurezza e la sua pienezza umana.
Quindi il capitale non è una sorta di dato astratto estraneo all’uomo e al lavoro, ma piuttosto un “mezzo” dell’uomo e un “fine” del lavoro.
Lo si vede molto bene nelle realtà elementari dell’economia. Il Robinson abbandonato su un’isola, dopo avere bevuto l’acqua del ruscello e mangiato i frutti degli alberi, non ha altra urgenza oltre a quella di costruirsi una capanna e di dotarsi di “mezzi di produzione” (un arco, delle trappole per catturare selvaggina e pesci), in breve, di farsi un capitale per sopravvivere e per vivere meglio. L’uomo ha addomesticato gli animali e ha fabbricato utensili, cioè si è fatto un capitale, per sviluppare la sua umanità. Ma siccome l’uomo sono gli uomini, quelli che lavorano di più e meglio hanno voluto non essere privati del prodotto del loro lavoro, ed è stata così trovata la proprietà, che non è altro che la categoria giuridica del capitale.
Il contadino, lottando per diventare padrone del suo bene (la terra e le scorte), è l’incarnazione del lavoro che chiede alla società politica di garantire con la proprietà il capitale che ha creato. (È significativo che il termine “scorta” sia sinonimo del termine “capitale”).
Tutto questo, che salta agli occhi nelle forme nascenti della società, si vela nella complessità sociale moderna.
Si oppongono lavoro e capitale come entità ontologicamente distinte e contrarie. Questo significa dimenticare la loro natura reale, e anche deformarli riducendo a una semplicità eccessiva la molteplicità degli elementi che li compongono.
Il lavoratore è insieme l’homo faber e l’homo sapiens.
In se stesso, il lavoro è soltanto un penoso dispendio di energia. Ma il lavoro umano è questo dispendio di energia orientato a un fine. Il bue che tira l’aratro “lavora” perché l’uomo lo fa lavorare, cioè orienta il suo dispendio di energia. Il mulino ad acqua o a vento che macina il grano per fare farina “lavora” (se lavora) perché è strumento – il capitale – del mugnaio.
Il lavoro umano è sempre un lavoro capitalista, cioè un dispendio di energia applicato a un capitale utilizzato come mezzo moltiplicatore della produzione. Ed è sempre più vero nella misura in cui le invenzioni si moltiplicano. L’uomo con la vanga, poi l’uomo con l’aratro, l’uomo che conduce i buoi, poi quello che guida un trattore, lavorano utilizzando un capitale sempre più potente.
Ogni lavoratore è quindi un capitalista che lavora.
Benissimo, dirà qualcuno, ma proprio il lavoratore moderno non è più un capitalista, nel senso che non è più il
proprietario del capitale.
Ecco il problema.
Quando si esamina il problema dei rapporti tra il lavoro e il capitale, si finisce necessariamente sul problema della proprietà.
Solo che quando si studia questo problema per risolverlo, ci si accorge che non è semplice.
È infatti evidente che il singolo lavoratore non ha più davanti a sé un capitale che sia a sua misura, cioè tale da potersene impadronire. Se il contadino può essere proprietario del suo campo, dei suoi animali e del suo trattore, l’operaio non può essere proprietario della sua macchina. Anche quando vi fosse corrispondenza tra il suo lavoro personale e una piccola macchina, questa è uno strumento di produzione solo in rapporto con altre, ed è il loro insieme a costituire il capitale in seno a una unità di produzione che si chiama impresa.
Ma l’impresa stessa dipende strettamente da tutto un sistema e, per cominciare, esige un capitale-denaro la cui mole è di rado alla portata di un individuo.
Di argomento in argomento, ci si rende conto che l’economia moderna, come il rimanente della società, è una rete infinitamente complessa e che questa stessa complessità – divisione del lavoro, specializzazione delle attività, diversità delle funzioni, molteplicità dei canali della circolazione del denaro, differenziazione delle funzioni del credito, ecc. – è la condizione del progresso. Il problema sta nel trovare le forme della proprietà corrispondenti a questa evoluzione, perché siano assicurate, per quanto possibile, la giustizia, la libertà e l’efficacia. Il vero ritardo è nell’evoluzione giuridica.
Dire: “Bisogna solo attribuire al lavoratore la proprietà del capitale”, significa non dire assolutamente nulla, perché si tratta di sapere come. Ora è necessario rendersi conto che la diffusione della proprietà, che preconizziamo, suppone, per essere fatta bene, non solo una conoscenza precisa della complessità sociale, ma una visione esatta tanto dei fini della proprietà (che deve servire, oltre il lavoratore in quanto tale, l’uomo totale, la famiglia, le associazioni, ecc.), che della natura del capitale e del suo ruolo predominante nell’economia evoluta.
Voler sopprimere la proprietà privata per fare dello Stato l’unico proprietario – soluzione comunista – significa contraddire la giustizia, la libertà e l’efficacia, perché significa contraddire la natura dell’uomo e della società.
Il dramma della frenetica esaltazione del lavoro è che spinge al comunismo volendo riconoscere soltanto l’uomo-lavoratore. In questo modo l’uomo-lavoratore è ridotto alla condizione di lavoro incarnato. Non è più uomo, ma animale dotato di energia, oppure macchina, cioè uno strumento di produzione.
A questo punto è realizzato il rovesciamento, l’inversione della società. L’individuo è soltanto capitale umano al servizio del “più freddo dei mostri freddi”, lo Stato.
La materia, socialista fa dell’uomo uno schiavo dell’ordine economico: produrre per distruggere e distruggere per produrre – questo è l’ordine dell’azione opposto a quello della contemplazione, l’ordine della temporalità opposto a quello dell’eternità.
LOUIS SALLERON