Marco Invernizzi, Cristianità n. 400 (2019)
Testo, rivisto e annotato, dell’intervento tenuto nel corso della prima sessione del convegno 30 anni senza Muro. L’Europa non nata, organizzato da Alleanza Cattolica a Roma, presso il Salone dei Piceni, il 16 novembre 2019.
Perché non hanno sparato?
Comincio con una domanda, che abbiamo iniziato a porci subito dopo il famoso 9 novembre 1989, quando la notizia della caduta del Muro di Berlino invase il mondo. «Perché non hanno sparato», come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968, per citare soltanto gli episodi più eclatanti e recenti della storia del comunismo?
Certamente negli ultimi anni erano cambiate molte cose. Innanzitutto l’elezione alla guida della Chiesa di Giovanni Paolo II (1978-2005), nel 1978, il Papa che veniva dall’Est e conosceva bene i comunisti. Egli continuò la politica internazionale dei predecessori ma le cambiò il «cuore» pur servendosi delle stesse persone. E sottolineò costantemente la diversità fra le culture delle nazioni, rivolgendosi a ciascun popolo, ogni volta che poteva, nella sua lingua. Questo per sfidare il comunismo come potere, ma anche come ideologia livellatrice e distruttrice delle differenze, spostando il confronto a livello antropologico e usando la diplomazia per porre domande ai governanti comunisti in nome dei popoli che opprimevano, ancorché senza tornare alla politica del «muro contro muro» dei tempi della «Chiesa del silenzio» di Papa Pio XII (1939-1958), perché quella Chiesa «[…] adesso parla per bocca del Papa» (1), come disse egli stesso ad Assisi, il 5 novembre 1978, in occasione della seconda «uscita» da Roma dopo l’elezione al soglio pontificio.
Erano cambiati i protagonisti politici nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America e soprattutto il nuovo presidente americano, Ronald Wilson Reagan (1911-2004), aveva cominciato a sostenere le forze anticomuniste di tutto il mondo nella battaglia contro quello che definiva l’«impero del male» (2), ridando entusiasmo e voglia di resistere ai tanti dissidenti.
Nell’Unione Sovietica (URSS), dal 1985 il partito comunista era guidato da Michail Sergeevič Gorbaciov, un uomo dell’apparato che aveva scelto una politica di radicale cambiamento, la perestrojka (ristrutturazione), per tentare di salvare il socialismo, cercando di portare l’URSS nel campo del socialismo democratico attraverso riforme che avrebbero finito per stravolgere e travolgere i regimi comunisti europei, portandoli a darsi regimi democratici con la partecipazione al voto di diversi partiti politici. La stessa Russia comunista sarebbe implosa due anni dopo la fine del Muro, nel 1991, perdendo non solo il controllo degli Stati dell’Europa orientale comunistizzati nel secondo dopoguerra, ma anche delle repubbliche baltiche — Lituania, Lettonia ed Estonia — e del Caucaso, tornando così alla Russia vero nomine, che si chiamò Federazione Russa.
Tuttavia, la domanda non era peregrina. Dopo il viaggio in patria di san Giovanni Paolo II nel giugno 1979, alla nascita e il rapido diffondersi di Solidarność, sindacato libero dal controllo del regime a cui aderirono dieci milioni di lavoratori polacchi, il regime comunista rispose con il colpo di Stato del generale Wojciech Jaruzelski (1923-2014) del 1981. I polacchi che avevano sfidato il regime vennero arrestati o entrarono in clandestinità, protetti e sostenuti anche economicamente dalla rete di organizzazioni della Chiesa cattolica, ma comunque impediti a professare liberamente le proprie idee politiche. Sarà un decennio difficile, ma non verranno abbandonati né dal Papa né dal mondo libero, tanto è vero che, dopo un decennio «complicato», verrà il 1989.
«Perché non hanno sparato»? La domanda ha diverse risposte, fra cui anche quella del fallimento economico dei Paesi comunisti, del venir meno dell’equilibrio nucleare con la realizzazione della Strategic Defense Initiative (SDI), il cosiddetto «scudo stellare», che avrebbe protetto gli USA da un eventuale attacco nucleare.
La riuscita del progetto di Gorbaciov non era scontata. Proprio negli stessi giorni in cui i polacchi di Solidarność cominciavano a incontrarsi con il governo nei cosiddetti «accordi della Tavola rotonda», in Cina avveniva esattamente il contrario del dialogo, quando migliaia di persone, quasi tutti studenti, furono assassinate dalla repressione feroce del regime comunista nella piazza Tienanmen di Pechino, che diventerà tristemente famosa.
Sì, la domanda aveva un senso e noi di Alleanza Cattolica non eravamo gli unici a porcela.
Se la poneva per esempio lo storico franco-ceco Jacques Rupnik (3). E la risposta che egli dava era articolata e metteva in luce, per esempio, il fatto che il partito aveva ancora tanti militanti sulla carta, ma pochi erano rimasti «credenti». Rupnik ricordava come, sempre nel 1989, quando cominciavano gli incontri della Tavola rotonda in Polonia, fra il 6 febbraio e il 4 aprile, l’ultimo soldato sovietico, il 15 febbraio, lasciava l’Afghanistan occupato.
Una risposta certa alla domanda è ancora difficile. Sempre Rupnik riportava un articolo del comunista georgiano Eduard Shevardnadze (1928-2014) apparso sulla Pravda, l’organo del partito, il 26 giugno 1990, dove il ministro degli Esteri sovietico nel governo di Gorbaciov e poi presidente della Georgia scriveva: «Perché non abbiamo utilizzato i carri armati per “ristabilire” l’ordine? Ma possiamo seriamente pensare che una cosa del genere sia possibile, che il problema possa essere risolto in questo modo? Non dovremmo ricordarci le lezioni almeno dell’Afghanistan, se ci siamo già scordati quelle del 1956 e del 1968? […] È arrivato il momento di rendersi conto che né il socialismo, né l’amicizia, né il buon vicinato, né il rispetto si possono ottenere con le baionette, i carri armati e con il sangue» (4).
Dopo il 1989
Il variegato mondo di coloro che per decenni avevano combattuto il comunismo non poté che provare gioia, oltre che stupore, per la fine dei regimi comunisti. Gli stessi artefici, i «dissidenti», saranno sorpresi dalla velocità del mutamento, quando per esempio il presidente Václav Havel (1936-2011) nell’arco dello stesso 1989 passò da prigioniero politico del regime a capo di Stato della nuova Cecoslovacchia.
La gioia dei tanti anti-comunisti era legittima e sacrosanta perché un grande male usciva dalla storia, almeno in Europa (5), tuttavia la storia continuava, nonostante qualche proclama sulla «fine della storia» (6). Fra gli stessi dissidenti erano presenti diversi «anti-comunismi». Un ruolo importante ebbe la «Chiesa del silenzio», soprattutto in Paesi come la Polonia, ma nel dissenso anti-regime erano presenti liberali e anche socialisti. Così in ogni forma di dissenso contro l’internazionalismo socialista si manifesterà, forse più dopo che non prima del 1989, il rischio che il nazionalismo sostituisse l’internazionalismo marxista da cui ci si era finalmente liberati. Questa comparsa del nazionalismo fu particolarmente visibile nelle guerre che scoppiarono nella ex Jugoslavia negli anni 1990, soprattutto nel «nazionalcomunismo» di Slobodan Milošević (1941-2006), presidente della Serbia dal 1989 al 1997 e poi presidente della Repubblica Federale di Iugoslavia dal 1997 al 2000, nonché leader del Partito Socialista di Serbia, e indubbiamente era la prospettiva ideologica più immediata, forse la più facile da adottare dopo il 1989. Il nazionalismo moderno non coincide con l’amore per la patria, come si sforzeranno di ricordare ripetutamente sia il Magistero dei Papi, sia quello degli episcopati delle diverse nazioni «liberate».
Non dobbiamo neppure dimenticare la presenza nell’Europa orientale post-1989 di partiti socialisti nati dalla rapida «conversione» alla democrazia di vecchie strutture comuniste, aiutati anche dal fatto che i primi ad approfittare delle privatizzazioni furono gli appartenenti alla nomenklatura, i quali comprarono a poco prezzo i «pezzi» più pregiati del patrimonio pubblico messi allora in vendita — le industrie e le materie prime —, e quindi furono anche i primi ad arricchirsi.
Insomma, le società che uscirono dal 1989 erano società «segnate» da quarant’anni di comunismo, di ateismo insegnato nelle scuole, di repressione religiosa e culturale, di mancanza di libertà e di iniziative private, anche se erano società combattive, almeno nella parte rappresentata dai dissidenti, abituate a soffrire e a resistere. Esse si trovarono improvvisamente a dovere affrontare i problemi della libertà, perché, se è vero che nel mondo ex comunista riaprirono le chiese, arrivarono anche tutti i mali dell’Occidente, dalla pornografia alla corruzione, dalla droga all’alcolismo, tutti fenomeni che non mancavano anche prima del 1989 ma che non avevano la diffusione, l’ostentazione e talora il riconoscimento legale tipici delle società liberali.
Certamente è che queste società europee — per la Russia bisognerebbe fare un discorso diverso — si liberarono del comunismo in ogni sua espressione. In questa ottica va vista anche la recente rimozione, alla fine del 2018, della statua a Budapest di Imre Nagy (1896-1958), il presidente comunista ungherese che guidò la rivolta del 1956 e sarà assassinato dopo un processo-farsa voluto dall’URSS nel 1958 (7). La stampa ha enfatizzato l’eliminazione della statua, in realtà pare sia stata solo una sostituzione, ma è certo che Nagy, comunista benché ucciso dai suoi stessi compagni contro i quali si ribellò, rimane l’esponente di un modello lontano da quello che il governo di Viktor Mihály Orban propone oggi agli ungheresi, un modello di società per il quale nessuna forma di comunismo, neppure quello antisovietico di Nagy, rappresenta qualcosa di positivo.
Queste società hanno così cominciato ad affrontare un lungo percorso, difficile ma finalmente con una speranza, nonostante l’ostracismo delle grandi istituzioni internazionali. La Polonia e l’Ungheria, più degli altri Paesi ex comunisti, hanno attraversato anni di difficoltà, nel corso dei quali si è assistito anche al ritorno al governo — ma non al potere nel senso totalitario dell’epoca comunista — di quei partiti trasformatisi da comunisti in socialisti. Ma sono poi riuscite a esprimere governi nazionali che da anni ormai incontrano un grande consenso popolare. Il buon governo e l’ampio consenso ricevuto hanno permesso a questi Paesi di uscire veramente, in modo profondo, dall’epoca del totalitarismo e dell’ideologia, per «ritornare al reale», coniugando la ripresa dei princìpi fondamentali del bene comune, la centralità della religione e della famiglia, l’amore per la propria patria che non necessariamente significa tornare al nazionalismo che distrusse l’Europa prima e dopo la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), anche con una notevole ripresa economica.
Questi Paesi, usciti dal comunismo, hanno incontrato l’Europa o meglio il progetto in fieri dell’Unione Europea, che dalle origini successive al secondo conflitto mondiale ha conosciuto un progressivo coinvolgimento di tutti i Paesi europei, compresi, dopo il 1989, quelli dell’Europa orientale.
«Ritorno in Europa» era uno degli slogan di quegli anni. Ma in quale Europa? Havel scriverà che «abbiamo lottato per un sistema politico diverso rispetto a quello in cui ci siamo ritrovati» (8). Ma quale era questo sistema politico? L’impressione è che pochi pensarono al dopo, forse anche perché nessuno si aspettava un crollo così repentino del sistema comunista sovietico.
I dissidenti si trovarono di fronte a un’Europa che aveva accantonato il comunismo nella sua versione sovietica, ma le cui classi dirigenti erano prevalentemente composte da ex comunisti o da politici che non avevano combattuto contro il comunismo nei decenni precedenti, perché convinti che il comunismo non potesse essere sconfitto e quindi sarebbe stato destinato a durare nel tempo. Così, benché responsabile di oltre cento milioni di morti, il comunismo venne accantonato quasi in silenzio e pochi ne compresero la tragica lezione o ne tennero veramente conto (9). Ciò si può verificare per esempio nella cultura e nel mondo dell’informazione, sottomessi a quell’idea per cui il socialismo sarebbe stato un bene — l’utopia comunista — se non fosse stato tradito da chi aveva il compito di realizzarlo nella storia — il socialismo reale —, ma comunque rimaneva un bene, in via teorica.
Lo stesso atteggiamento nei confronti del comunismo venne mantenuto da molti ecclesiastici, anche se senza gli eccessi degli Anni Settanta, che avevano visto l’esplosione del complesso d’inferiorità culturale e morale verso i partiti comunisti occidentali, in particolare quello italiano, impegnato fra il 1976 e il 1979 nella politica detta di «compromesso storico» con la Democrazia Cristiana (10). Tuttavia, permaneva ancora negli Anni Ottanta un atteggiamento remissivo in generale, una sorta di sudditanza psicologica e culturale, che indeboliva e rendeva spesso incerta la lotta, non dichiarata, contro il comunismo, la quale, quindi, non poteva produrre effetti efficaci e duraturi, una lotta basata su convinzioni autentiche e non semplicemente legata a interessi contingenti.
In quegli anni, Alleanza Cattolica diede vita, insieme al politologo francese Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008) (11) alla CIRPO, la Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati, cercando di dare voce in Italia alle diverse Resistenze anticomuniste attive nel mondo, che stavano ritrovando aiuti e sostegno da parte del mondo occidentale, dove il clima culturale stava cambiando. Tuttavia, anche in questo decennio, rimasero molte difficoltà nella conduzione di questa battaglia all’interno del mondo cattolico, nel quale mancava la speranza di invertire la rotta, mentre un certo inquinamento ideologico rimaneva abbondantemente presente.
San Giovanni Paolo, la speranza e la conversione della società
Come già accennato, fin dall’inizio del suo pontificato, nel 1978, Giovanni Paolo II dedicò una parte importante del suo magistero all’Europa (12). Potremmo dividerlo in tre passaggi fondamentali che a mio avviso sono tenuti insieme dal tema della speranza.
La speranza è la seconda virtù teologale e spesso viene percepita come qualcosa di soltanto «spirituale», di disincarnato, che nulla ha a che fare con la storia. Ma non è così. Si può e si deve sperare la salvezza eterna, ma anche un mondo migliore. Sperare significa pregare, chiedere e conseguentemente operare per un fine, nella consapevolezza che i risultati sono un dono di Dio e non il frutto delle nostre capacità o dei nostri sforzi.
Mi soffermo su questo punto, che valeva allora come oggi, perché la speranza si può perdere e quando si è perduta la speranza spesso si rischia di perdere anche la fede, o almeno la considerazione della sua importanza. L’esempio dell’eresia modernista all’inizio del Novecento e dell’atteggiamento remissivo verso il comunismo dopo gli Anni Sessanta è stato tipico di chi aveva perso la speranza di potere trasformare il mondo, riducendo così la fede a una testimonianza personale in un mondo che non poteva mai più essere cambiato nel segno di Cristo. Così gli uomini tendono spesso a incolpare la loro mancanza di speranza a cause esterne, alla forza degli avversari, ai tempi difficili, quando invece basterebbe un breve esame di coscienza per rendersi conto che il problema è soprattutto presente nel loro cuore, prima che nelle difficoltà del proprio tempo storico.
Giovanni Paolo II cominciò fin dall’inizio del pontificato a sperare operosamente che il Muro di Berlino potesse essere abbattuto e che l’Europa potesse finalmente ritrovare l’unità politica e l’identità culturale a partire dalle proprie radici. Era la prima fase del suo insegnamento e della sua testimonianza sull’Europa.
Auspicò il superamento dei conflitti e dello smarrimento dell’uomo europeo già nel discorso tenuto a Santiago de Compostela, in Spagna, e denominato «Atto europeistico»: «Se l’Europa sarà una, e può esserlo con il dovuto rispetto per tutte le sue differenze, ivi comprese quelle dei diversi sistemi politici; se l’Europa tornerà a pensare, nella vita sociale, con il vigore che possiedono alcune affermazioni di principio come quelle contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nella Dichiarazione Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’“Atto” finale della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa; se l’Europa tornerà ad agire, nella vita più propriamente religiosa, con il dovuto riconoscimento e rispetto di Dio, nel quale si fonda ogni diritto e ogni giustizia; se l’Europa aprirà di nuovo le porte a Cristo e non avrà paura di aprire alla sua salvatrice potestà i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi della cultura, della civiltà, dello sviluppo (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978), 35 ss), il suo futuro non rimarrà dominato dall’incertezza e dal timore, ma si aprirà ad una nuova stagione di vita, sia interna che esteriore, benefica e determinante per il mondo intero, sempre minacciato dalle nubi della guerra e dal possibile uragano dell’olocausto atomico» (13), mentre a Spira, in Germania, il 4 maggio 1987, dirà che «solo se riconosceremo l’imperituro valore della nostra storia cristiana» e se sapremo utilizzarla «per i nostri compiti di oggi, sarà possibile offrire al mondo, come Europa spiritualmente unita, un messaggio di liberazione capace di rendere il futuro una meta ambita dagli uomini e dai popoli e di aiutarli a configurare un futuro degno dell’uomo ed a sostenere le loro prove» (14). E nello stesso discorso invitava ciascun uomo a non sottrarsi all’impegno e alla responsabilità con la solita scusa dell’essere solo: «ma cosa posso farci io, da solo? Posso dare qualche contributo personale? E io vi rispondo: Sì, tu da solo puoi mettere qualche cosa in movimento; perché ogni buona risoluzione, ogni pronta assunzione di un compito comincia sempre nell’uomo singolo» (15).
Dopo il 1989, il Pontefice comprese l’opportunità storica che si offriva alla Chiesa di avviare una nuova evangelizzazione di tutta l’Europa finalmente unita. Era la seconda fase del suo Magistero europeo.
Per questo egli nel 1991 convocherà un’assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi, riservata ai vescovi europei, dedicherà un capitolo dell’enciclica Centesimus annus (16) ai fatti del 1989 e pronuncerà numerosi discorsi su quanto accaduto e sul futuro dell’Europa. Il Papa attribuiva una grande importanza alla cultura, caratteristica del suo pontificato in generale, ma in particolare perché era convinto che l’Europa avrebbe potuto diventare una e superare i pericoli del nazionalismo e del relativismo soltanto recuperando le proprie radici, segnate in profondità dal cristianesimo.
«Ricco mosaico dalle linee armoniose — dirà a un Simposio pre-sinodale — l’Europa culturale, come sappiamo, è anteriore all’Europa politica ed economica che attualmente è più al centro dell’attenzione. Oggi si presenta una nuova Europa, liberata dalle oppressioni ideologiche, ma che affronta molte difficoltà ed è minacciata da tutto quello che le nostre società hanno di meno umano. Occorrerà discernere meglio i fondamenti culturali di questo rinascimento. Gli interventi politici ed economici, per quanto necessari, non sono sufficienti a guarire l’Europeo ferito, culturalmente reso più fragile e indifeso. Egli non ritroverà il suo equilibrio e il suo vigore se non nella misura in cui rinnoverà, con le sue radici profonde, le sue radici cristiane. L’Europa, diceva Goethe, è nata in pellegrinaggio e il Cristianesimo è la sua lingua materna» (17).
Perché tanta importanza data alla cultura? Intanto si deve ricordare che per il Pontefice polacco cultura è sinonimo di vita, non soltanto intellettuale, ma della vita che investe tutta la persona e le sue azioni, personali e pubbliche, sociali e politiche: cultura, dirà il Papa, è tutto ciò che l’uomo sceglie, da come vestirsi a che ruolo attribuire alla religione. Solo la cultura, meglio soltanto una conversione culturale potrebbe permettere ai popoli di cambiare profondamente, di intraprendere una strada che li conduca effettivamente al sicuro dalla tragica esperienza del socialismo reale, superando tutte le tentazioni che si possono presentare, da quelle che affliggono le società liberali dell’Occidente, in particolare il relativismo, alle possibili scorciatoie ispirate dal nazionalismo o dallo statalismo o dal dispotismo. La cultura è determinante per l’uomo europeo a cui il Pontefice si rivolge, affinché la sua speranza diventi preghiera e azione per un’Europa possibile, dove vivere nella giustizia e nella pace, dove riscoprire la verità sull’uomo.
Se questa speranza fu grande dopo il 1989, se essa animò i lavori del Sinodo del 1991, quando tutti fummo contagiati da questa grande aspettativa per una rinascita del Continente, grazie a una nuova evangelizzazione, non altrettanto si può dire della terza fase del Magistero sull’Europa di Giovanni Paolo II, quella che maturò nel 1999, alla vigilia del Terzo Millennio, quando convocò una nuova assemblea sinodale per valutare quanto accaduto nel decennio precedente, che chiude con l’esortazione apostolica Ecclesia in Europa del 2003, dove vengono riassunti ordinatamente i lavori del Sinodo (18).
Benché l’esortazione apostolica sia dedicata interamente alla speranza, traspare dal suo testo la consapevolezza che l’unità europea stia andando in altra direzione rispetto a quella auspicata dalla Chiesa. «L’Europa di oggi però nel momento stesso in cui rafforza ed allarga la propria unione economica e politica, sembra soffrire di una profonda crisi di valori. Pur disponendo di mezzi accresciuti, dà l’impressione di mancare di slancio per nutrire un progetto comune e ridare ragioni di speranza ai suoi cittadini» (19).
E allora il Papa rinnova l’offerta di aiuto e di collaborazione alle istituzioni europee, ricordando che la Chiesa non vuole nessuna confessionalizzazione degli Stati così come non li vuole succubi dell’ideologia laicistica, ma crede che l’Europa abbia bisogno «di una dimensione religiosa» (20) e di radicarsi «nella legge morale universale, inscritta nel cuore di ogni uomo» (21).
Ma il progetto di costruzione dell’unità europea insisterà a orientarsi verso un’altra direzione. Il Magistero dei Papi aveva dato molti contributi al processo di costruzione europea dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), con Pio XII, san Giovanni XXIII (1958-1963), san Paolo VI (1963-1978) (22) e continuerà con Benedetto XVI (2005-2013) e Francesco, purtroppo con scarsa considerazione da parte dei diversi interlocutori. Se nel 1965, come disse Paolo VI, «l’edificazione di questa coscienza europea è sufficientemente mantenuta presso gli uomini di governo» mentre «non si può dire che sia abbastanza diffusa in mezzo a tutti gli strati sociali» (23), alla fine del secolo saranno soprattutto le classi dirigenti a rifiutare ogni richiamo alle ragioni ideali dell’unificazione europea.
Recentemente, il giornalista Giulio Meotti ha raccontato la storia del rifiuto posto dal presidente francese Jacques René Chirac (1932-2019) all’introduzione del richiamo alle radici cristiane nel progetto di costituzione europea vissuto fra il 2003 e il 2007 (24). Secondo la ricostruzione fatta dal quotidiano fondato da Giuliano Ferrara, il Foglio quotidiano, lo statista francese era un uomo che detestava la cultura europea, perché impregnato di quel relativismo che oggi domina proprio la cultura europea. Ma il relativismo che corrode e alla fine uccide la speranza non può essere vinto se non dalla Verità, cioè dal contrario di questo virus ormai profondamente penetrato nel corpo sociale di cui stiamo parlando.
Nizza. La percezione del fallimento
Durante le discussioni per il Trattato di Nizza cominciò a essere percepito il fallimento del progetto di costruzione di una unione dei Paesi europei senza menzione di radici, senza partecipazione popolare, senza sussidiarietà, bensì attraverso l’imposizione di un modello da parte di una Commissione Europea che è una struttura burocratica non eletta, quindi priva di rappresentatività e quindi munita di una legittimazione poco credibile, una Commissione non scelta dai cittadini ma che sostanzialmente «comprava» il consenso di governi e di persone con l’elargizione di un fiume di denaro proveniente dalla Banca Centrale Europea (BCE) istituita l’1 giugno 1998.
Antonio Polito, giornalista del Corriere della Sera dal passato comunista, oggi convinto liberale, scrive che «cominciò forse proprio a Nizza, dieci anni dopo la caduta del Muro, quella divaricazione tra progetti ambiziosi e magnifici, annunciati da governi che non sapevano fare altro che indicare sempre nuovi traguardi senza raggiungerne mai nessuno, e opinioni pubbliche sempre più stanche e scettiche, pronte a bocciare sonoramente quei progetti ogni volta che avessero la ventura di essere interpellate» (25). Come ha spiegato Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno per molti anni, in questa Unione europea non c’è posto per scelte politiche anche a causa delle lacune del meccanismo con cui si arriva a prendere le decisioni fra i diversi Stati-membri, con il risultato che «la scelta effettiva viene operata in larga parte dalle burocrazie europee, che hanno modalità di cooptazione, luoghi di formazione e codici culturali certamente ostili all’identità europea, non senza collegamenti stabili con le principali lobby presenti e operanti a Bruxelles, ma distanti dal sentire dei popoli» (26). A Nizza, in Francia, dove si modificarono i trattati precedenti per preparare l’allargamento della UE ai nuovi Stati dell’Europa dell’Est, i Paesi-membri erano 15, ma poi diventeranno 28, ma con la prospettiva di aumentare ulteriormente.
Il fallimento sarà confermato dal rifiuto del popolo francese di ratificare, il 29 maggio 2005, il Trattato che adottava una Costituzione per l’Europa redatto nel 2003 dalla Convenzione europea; a esso seguì un analogo rifiuto da parte dei Paesi Bassi, il 1° giugno. Dopo due anni di riflessione, si decise di abbandonare la strada della Costituzione e di ripiegare su un accordo pattizio fra gli Stati che sfociò nel Trattato di Lisbona, firmato dai capi di Stato e di Governo il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
L’Europa non era nata, anche se veniva confermata una unione fra Stati che avevano interesse nel fare affari insieme. Ma avrebbe potuto nascere con queste premesse? «Purtroppo — dirà Papa Francesco ai governanti dell’Unione Europea in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati di Roma — si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le Istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione» (27). Quest’ultima, continua il Santo Padre, che pur criticando un certo populismo ricorda ll valore delle singole identità popolari, «nasce come unità delle differenze e unità nelle differenze. Le peculiarità non devono perciò spaventare, né si può pensare che l’unità sia preservata dall’uniformità» (28).
Fra il relativismo e l’islamismo si trova l’Europa
Non so come andrà a finire questa operazione di stampo tecnocratico, partita dal nobile desiderio di impedire il ripetersi di una nuova guerra tra Francia e Germania dopo quelle del 1870, del 1914 e del 1939. L’Europa si trova oggi ad affrontare una malattia che colpisce all’interno, il relativismo, e un’aggressione esterna dove gli aggressori godono ormai di propaggini radicate anche dentro i suoi confini, cioè il terrorismo islamistico, che non è l’islam ma una sua versione ideologica e violenta, che però pochi musulmani hanno il coraggio di rifiutare veramente. La posta in gioco è l’identità dell’uomo europeo, prima ancora che delle sue istituzioni. Perciò ho voluto insistere su quello che mi pare il cuore del messaggio europeo di san Giovanni Paolo II, ripreso da Papa Francesco nei suoi interventi sull’Europa: senza una conversione culturale, che nasca prima nelle persone e quindi da queste ultime venga trasmessa alle istituzioni, non ci potrà essere un’altra Europa diversa da quella dell’impero del denaro, delle lobby tecnocratiche, degli egoismi nazionalistici, dell’attacco alle radici e all’identità.
Quando si parla di conversione molti storcono il naso e non lo dico pensando a quelli che sono contrari alla conversione come idea, ma a quelli che non hanno pazienza perché vorrebbero vedere subito i risultati. Come a tutti, anche a me piacerebbe vedere e gustare dei buoni risultati, ma questo non sempre accade; anzi, non accade quasi mai. Nella nostra storia recente, sebbene felicemente increduli di fronte a quanto accaduto nel 1989, abbiamo presto capito che non era nato il mondo che speravamo. Siamo scampati al protrarsi di un grande male, ma da qui al trionfo del Cuore immacolato di Maria promesso a Fatima nel 1917 la strada sarà ancora molto lunga.
Questa strada era stata già intravista sessant’anni fa dall’allora don Joseph Ratzinger, nel 1959, quando aveva scritto che la maggior parte dei fedeli della sua Baviera erano pagani, non cristiani, perché non conoscevano i fondamenti della fede che credevano di professare (29). Era lo stesso periodo in cui Papa Pio XII cominciava ad abbozzare il concetto di nuova evangelizzazione, come attesta l’Enchiridion che raccoglie i documenti del Magistero sul tema (30).
L’Europa rinascerà quando rinasceranno gli europei: è il nostro compito e anche il nostro destino (31). Si tratta quindi di individuare una prospettiva anzitutto culturale, che possa diventare una proposta politica. Per far questo bisogna favorire una riflessione che parta dalla Prima Guerra Mondiale, che segnò la fine di una certa Europa e l’inizio della «guerra civile europea», come per primo lo storico tedesco Ernst Nolte (1923-2016) (32) definì il ciclo delle due guerre mondiali del Novecento e lo scontro fra il nazionalismo socialista di Adolf Hitler (1889-1945) e l’internazionalismo comunista.
La storia non torna indietro, ma riflettere su alcuni nodi della storia può aiutare a trovare una via d’uscita ai problemi e ai drammi della propria epoca. Credo che sia attuale quanto Alleanza Cattolica ha detto pubblicamente in occasione dei convegni organizzati nel 2018 e nel suo Manifesto per l’Europa (33), pubblicato in occasione delle elezioni europee di quell’anno, cioè che la premessa indispensabile a ogni progetto è la formazione o la riforma dell’uomo europeo. Tuttavia per formare quest’uomo europeo occorrono una strada e un esempio. Credo che la strada sia quella umile e lenta dell’apostolato culturale, così bene espressa nella parabola evangelica del seminatore, mentre l’esempio da proporre sia quello di un uomo che fu l’ultimo imperatore, ma potrebbe diventare anche il primo uomo politico nel senso più alto del termine a indicare all’Europa la strada della rinascita, proprio attraverso l’esercizio della fraternità fra i diversi popoli europei e la costruzione di un progetto comune di civiltà. Per questo chiediamo al beato Carlo d’Asburgo (1887-1922) (34) di pregare per noi — mentre noi preghiamo per la sua canonizzazione —, perché non venga mai meno in noi e negli altri l’amore per un’Europa che abbia un cuore e sia fedele alle sue radici per essere ancora portatrice di civiltà nel mondo (35).
Note:
(1) Cfr. Alessandro De Carolis, Le onde oltre il Muro: la Radio del Papa e il 9 novembre ‘89, nel sito web <https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-11/onde-muro-berlino-radio-vaticana-anniversario.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 27-12-2019). Cfr. anche il mio San Giovanni Paolo II. Un’introduzione al suo Magistero, prefazione di Livio Fanzaga S.P., Sugarco, Milano 2014, pp. 46-52.
(2) Il testo del discorso è reperibile sul sito web della Ronald Reagan Presidential Library, alla pagina <https://www.reaganlibrary.gov/sites/default/files/archives/speeches/1983/30883b.htm>. Cfr. la traduzione italiana in Marco Respinti, (a cura di), Ronald. W. Reagan. Un americano alla Casa Bianca, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2005, pp. 51-67 (p. 64).
(3) Cfr. Jacques Rupnik, Senza il Muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, trad. it., Donzelli, Roma 2019.
(4) Ibid., p. 100.
(5) Per un bilancio del «male» provocato dal comunismo nell’Europa centro-orientale, cfr. Testimoni della fede. Esperienze personali e collettive dei cattolici in Europa centro-orientale sotto il regime comunista, a cura di Jan Mikrut, prefazione del card. Christoph Schönborn, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (Verona) 2017.
(6) Cfr. Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it., Rizzoli, Milano 2003.
(7) Cfr. HuffPost, Rimossa la statua di Imre Nagy a Budapest, «un comunista dei peggiori», nel sito web <https://www.huffingtonpost.it/entry/rimossa-la-statua-di-imre-nagy-a-budapest-un-comunista-dei-peggiori_it_5cc20ab0e4b089c3424a1b05>, del 28-12-2018.
(8) Cit. in J. Rupnik, op. cit., p. 177. Su Havel cfr. Il potere dei senza potere, a cura di Angelo Bonaguro, La Casa di Matriona/Itaca, Milano-Castel Bolognese (Ravenna) 2013.
(9) Cfr. di Robert Acworth Conquest (1917-2015), Richard Louis Walker (1922-2003), James Oliver Eastland (1904-1986) e Stephen T. Hosmer, Il costo umano del comunismo, trad. it., n. ed., a cura di Oscar Sanguinetti, D’Ettoris, Crotone 2017.
(10) Cfr. Giovanni Cantoni, La lezione italiana. Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa,Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1980.
(11) Cfr. Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008), in Cristianità, anno XXXVI, n. 346, marzo-aprile 2008, pp. 14-15, mentre sulla costituzione della sezione italiana della CIRPO cfr. il mio «Le Resistenze dimenticate». «Per rompere la congiura del silenzio sulle opposizioni attive contro il socialcomunismo» una CIRPO anche in Italia, ibid., n. 116, dicembre 1984, pp. 3-5.
(12) Cfr. Giovanni Paolo II, Profezia per l’Europa, a cura di Mario Spezzibottiani (1952-2006), presentazione del card. Dionigi Tettamanzi (1934-2017), Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1997.
(13) Idem, Discorso in occasione dell’incontro con la gente del mare a Santiago de Compostela (La Coruña), del 9-11-1982.
(14) Idem, Omelia nella Messa nella cattedrale di Spira, del 4-5-1987, n. 5.
(15) Ibid., n. 9.
(16) Cfr. Idem, Enciclica «Centesimus annus» nel centenario della Rerum novarum, del 1°-5-1991.
(17) Idem, Discorso agli studiosi europei partecipanti al simposio presinodale su «Cristianesimo e cultura in Europa», del 31-10-1991.
(18) Cfr. Idem, Esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Europa» su Gesù Cristo, vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa, del 28-6-2003, n. 7.
(19) Ibid., n. 108.
(20) Ibid., n. 106.
(21) Ibidem.
(22) Cfr. I Papi e l’Europa. Documenti. Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, a cura di Pietro Conte, introduzione di Giovanni Battista Guzzetti (1912-1996), Elledici, Leumann (Torino) 1978.
(23) Paolo VI, Discorso al Centro Giovane Europa, dell’8 settembre 1965.
(24) Cfr. Giulio Meotti, Il peccato francese, in il Foglio quotidiano, Roma 14-10-2019.
(25) Antonio Polito, Il Muro che cadde due volte, Solferino, Milano 2019, p. 120.
(26) Alfredo Mantovano, Europa: vincere la crisi di identità, in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, p. 18.
(27) Francesco, Discorso ai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, del 24-3-2017.
(28) Ibidem.
(29) Cfr. Card. Joseph Frings (1887-1978), Il Concilio Ecumenico Vaticano II di fronte al pensiero moderno, in Cristianità, anno XLV, n. 383, gennaio-febbraio 2017, pp. 57-71, con la Nota introduttiva, pp. 55-56.
(30) Cfr. Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Enchiridion della nuova evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 1939-2012, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.
(31) Cfr. il mio L’Europa, la cultura e la conversione, in Cristianità, anno XLVII, n. 395, gennaio-febbraio 2019, pp. 3-8.
(32) Cfr. Ernst Nolte, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, trad. it., Rizzoli, Milano 2018.
(33) Cfr. Sì all’Europa. No a «questa» Unione Europea. Manifesto di Alleanza Cattolica, in Cristianità, anno XLVII, n. 396, marzo-aprile 2019, pp. 3-4.
(34) Cfr. O. Sanguinetti e Ivo Musajo Somma, Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo, D’Ettoris, Crotone 2004.
(35) Cfr. G. Cantoni e Francesco Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, 1a rist. corretta, D’Ettoris, Crotone 2007.