Giovanni Cantoni nel ricordo dei suoi militanti
Stefano Chiappalone, Cristianità n. 401 (2020)
Conobbi la voce di Giovanni Cantoni prima ancora di conoscere, di lì a poco, Giovanni Cantoni medesimo. Senza ancora potergli dare un volto, che immaginavo comunque plurisecolare, familiarizzai con quella «erre» scolpita, più che arrotata, con la sua tipica oratoria infarcita di espressioni pregnanti, spesso precedute da un «perdonate l’espressione», che mi giungevano da un’audiocassetta. Esattamente: un’audiocassetta, poiché nell’anno 2000 c’erano sempre gli uomini e i mezzi del Novecento, diremmo con una di quelle tautologie particolarmente care a lui, grande estimatore del signore di Lapalisse — o meglio, con acribia cantoniana: Jacques II de Chabannes signore di La Palice (1470-1525).
Il «maestro dell’ovvio» riemergeva frequentemente nel florilegio di autori che Cantoni distillava in forma di aforismi e citazioni (anzi, «brandelli» diceva, sempre con quell’impareggiabile erre), come piccoli sorsi di un gustoso liquore che consentivano all’uditorio di assaporare e meglio assimilare l’intero pasto costituito dai suoi corposi interventi, in cui riportava sempre l’interlocutore a interrogarsi sui fondamentali prima di passare ai trascendentali. Perché l’ovvio è talmente ovvio da passare in secondo piano, pur essendo la materia prima di ogni discorso. Prima di parlare della pace nel mondo, parliamo del mondo, cerchiamo di capire come funziona. Prima di parlare dell’umanità, guardiamo l’uomo concreto — di qui l’invito frequente ai legislatori a «viaggiare su un treno in terza classe», in altre parole, a conoscere la vita reale. Qualunque fosse il tema trattato, la prima opera di carità cantoniana consisteva nel riportare alla realtà più elementare chiunque fosse tentato di perdersi nei più astrusi voli pindarici. E per farlo non disdegnava di servirsi di immagini colorate (se necessario anche colorite) e battute sagaci, consapevole che «gli esempi concreti sono i carnefici delle idee astratte» (1), secondo l’aforisma di un altro fiore all’occhiello del suo florilegio, lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), della cui lettura gli sarò eternamente grato.
Oltre a Gómez Dávila erano molteplici i suoi livre de chevet, i suoi autori di riferimento da tenere «sul comodino», dallo svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) all’imprescindibile pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), di cui ha diffuso in Italia l’opera Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (2), come un libro non da leggere ma «da fare», versione sub specie societatis degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), altro suo caposaldo sul piano spirituale. Era un intellettuale? Lo era, se intendiamo il termine nel senso di uno che usa — e insegna a usare — l’intelletto e se tale definizione non fosse riduttiva. Cantoni era soprattutto un sapiente, maestro di quel «pensare conversando» — per dirla con il «professor Plinio» — mai disgiunto dal «pensare l’azione».
Capace di intrattenersi su qualunque argomento, era desideroso di sapere più che sfoggiare un’erudizione di cui peraltro non era affatto privo. Ed esortava, a sua volta, a «saperne» di più, a farsi spiegare le cose da chi le sa, per poi raccontarle con cognizione di causa. E quindi ad approfondirle, in un continuo lavoro di cesello che si rifletteva poi nell’acribia sopra menzionata. Ricordo con grande fatica e gratitudine le circa dodici telefonate in ventiquattr’ore per la preparazione di un articolo: citare la fonte, indicare la pagina, specificare se il signore citato nel testo era francese o spagnolo. Non per puntiglio, ma perché la fondatezza di ciò che affermiamo traspare anche dalla cura con cui lo scriviamo. La fatica era relativa, essendo piacevolissima la conversazione con lui, telefonica o de visu, e la gratitudine è pressoché infinita perché alla sua scuola ho assimilato un metodo che continua a essermi di grande aiuto.
Era un sapiente, oltre che un gran signore, poiché del tutto alieno da certo snobismo intellettuale. Non si può dire che sapesse di non sapere, poiché di fatto ne sapeva molte. Ma sapeva di non sapere tutto. Questo arzigogolato gioco di parole si può tradurre con una delle sue boutade: «Io non sono un uomo, sono un’introduzione». Un’introduzione molto utile, perché anche quando poi toccava a te proseguire la lettura, lui te ne aveva fornito però le chiavi, ti aiutava a «tracciare il quadro».
Nell’esporre aveva inoltre l’umiltà di sincerarsi che «lorsignori» avessero recepito il messaggio, preoccupato di essersi spiegato adeguatamente, senza lasciare la palla in mano all’interlocutore disinteressandosi poi se questi avesse compreso o meno. Recentemente, con un amico, ricordavo uno dei suoi tipici gesti che, nelle pause al termine di un suo intervento, manifestavano affetto e premura specie verso noi più giovani dalle verdi speranze e dalla mente confusa (adesso le verdi speranze sono andate ed è rimasta solo la mente confusa per quanto mi riguarda, ma grazie a lui un po’ meno confusa di un tempo). Lui, l’oratore di innumerevoli conferenze, che parlava anche a prelati e parlamentari, ti prendeva sottobraccio e, come un antico filosofo greco, passeggiava con l’allievo di turno sotto i portici (ci sono sempre chiostri e portici nei luoghi in cui facciamo ritiri e convegni, non so perché) chiedendo: «Mi sono spiegato bene? Era tutto chiaro?».
E l’allievo di turno poteva anche essere l’ultimo arrivato, che non aveva bisogno di presentarsi: era Cantoni ad andare direttamente da lui, manifestando sincero interesse per qualsiasi interlocutore. Poche persone, come Cantoni, riescono a tenersi al riparo dagli estremi opposti della freddezza spacciata per autorevolezza come di un malinteso sbracamento contrabbandato per familiarità. Era autorevole? Certamente. Era paterno? Altrettanto certamente. Ed era naturaliter l’uno e l’altro, per l’uno e per l’altro senza distinzioni. Era ironico, persino autoironico, al punto da «subire» con un certo divertimento una serie di sue caricature disegnate dal sottoscritto, ma — a mia parziale discolpa — con la complicità e la regia occulta di suo figlio Ignazio e l’incoraggiamento di sua moglie Sabina, che naturalmente si divertiva più di lui.
Come parlare di Gianni Cantoni senza parlare allo stesso tempo della «mamma» Sabina? È consolante pensare che se lui ci ha lasciato, c’è ancora Sabina, tanto materna quanto lui era paterno. Presenza discreta, dietro le quinte, nei tanti fine settimana in cui lui partiva dalla stazione di Piacenza per raggiungere questo o quell’altro capo d’Italia. Presenza accogliente, nella loro casa, quando dopo due ore di conversazione si riaffacciava sorridente nel salottino dicendo: «Gianni, però adesso Stefano lo hai stancato, lascialo andare…», ma in realtà io sarei rimasto a sentirlo per altre due ore. Presenza fissa e premurosa durante le scuole estive di Alleanza Cattolica, quando per una settimana si condivideva l’intera giornata con loro, dalla Messa del mattino fino al momento in cui, dopo le indimenticabili conversazioni serali, si congedavano mano nella mano, belli come due sposi ancora in luna di miele.
Riesco a scrivere pochissimi flash degli infiniti flashback che affollano la memoria scrivendo a poche ore dal funerale di un uomo che negli ultimi vent’anni ha seminato un bene immenso nella mia esistenza come in quella di molti altri amici, aiutando più di qualcuno a migliorarsi e persino a santificarsi e a me, almeno, a non perdermi del tutto.
L’ultima immagine, risalente a qualche mese fa, è la più triste, ma forse anche la più eloquente. Ferito e immobile come il Re Pescatore del ciclo del Graal e io altrettanto immobile come Perceval incapace di formulare «la domanda giusta», quella che avrebbe guarito il sovrano. Il vecchio leone giaceva senza poter più articolare neanche le poche parole che nei precedenti incontri manifestavano ancora l’intatta lucidità; ormai privo di ogni forza, ma nulla mancava alla sua maestà, che anzi pareva ostinarsi a risplendere proprio in virtù di quel Calvario. Adesso il Re Pescatore vede faccia a faccia quel Dio che, attraverso il Santo Graal, lo ha sostenuto in vita e nella lunga infermità. Ma prima di andarsene ci ha lasciato qualche arma per continuare a risanare la Terra Desolata…
Note:
(1) Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, p. 110.
(2) Cfr. G. Cantoni, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel cinquantenario (1959-2009): «istruzioni per l’uso», Presentazione a Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009.