Giovanni Cantoni nel ricordo dei suoi militanti
Angelo Cuntreri, Cristianità n. 401 (2020)
Sono stato molto titubante di fronte al desiderio, forte e spontaneo, di scrivere un ricordo personale in morte di Giovanni Cantoni (1938-2020). I motivi principali della titubanza sono tre. Da un lato il fatto che già numerosi sono stati i contributi di carattere pubblico, dall’altro la statura e l’autorevolezza di chi si è appunto espresso, nonché la profondità delle considerazioni svolte sulla figura dell’uomo di pensiero Cantoni e sul suo immenso lascito culturale. Da ultimo, ma non per ultimo, il fatto che molti di coloro che hanno scritto, a vario titolo e da vari punti di vista, su Cantoni lo hanno fatto in virtù di legami personali con lui. E qui sono fortemente in difetto. Nondimeno, ne scriverò per gratitudine nei confronti di lui e, prima ancora, di Nostro Signore, che mi ha dato l’opportunità di conoscerlo.
Ho conosciuto Cantoni circa venticinque anni fa, quando, ancora ragazzino, iniziai a frequentare Alleanza Cattolica (AC), da lui fondata e curata come un padre. Lui stesso ha accolto la mia entrata «ufficiale» nell’associazione. Nel corso di quasi quindici anni ci siamo visti e parlati tante volte, con grande confidenza da parte sua — da me, invero, immeritata —, non solo in occasione di numerosi ritiri associativi, ma anche in altre circostanze. La distanza geografica, purtroppo, non ha favorito la possibilità di incontrarlo più spesso come avrei enormemente desiderato. Per diversi anni è poi mancata persino la possibilità di parlargli a causa della malattia. E invero, immersi come si è nel momento presente e nelle sue grandi o piccole contingenze, si dimentica che, in questo mondo, il tempo per godere delle «cose belle» è limitato e precario.
D’altra parte il fatto di essere stato fisicamente lontano da Cantoni e dalla sua opera per molto, troppo, tempo, mi ha però dato, paradossalmente, la possibilità di meditare, in modo distaccato e oggettivo, sull’influenza profonda che il fondatore di AC ha esercitato sulla mia vita.
Ebbene, da questa meditazione è scaturita la presa di coscienza di una realtà che, per un qualsiasi osservatore esterno, sarebbe stata ovvia e di cui, invece, io non mi ero accorto appieno, e cioè che Cantoni è stato il più formidabile e grandioso maestro terreno che il Signore mi abbia voluto benevolmente accordare. E il Signore è stato molto generoso a concedermi di poter frequentare Cantoni amichevolmente per parecchi anni. In questo genere di cose, d’altra parte, ciò che conta non è tanto la quantità, ma, piuttosto, la qualità. Da questo punto di vista l’incontro con lui ha qualitativamente elevato la mia vita — la vita spirituale, la vita di pensiero e la vita di azione —, imprimendole una direzione consapevole, ragionata e decisa verso la meta cui ogni uomo tende, la salvezza dell’anima.
Nei rapporti con Nostro Signore, Cantoni mi ha «formato», regalandomi un «metodo» che niente e che nessuno potrà mai togliermi.
Alcuni tratti caratteristici di Cantoni, di cui sono a conoscenza non per sentito dire, ma in grazia di una «conoscenza vitale», sono significativi.
Cantoni non era semplicemente — o, forse, semplicisticamente — un uomo carismatico, né tantomeno, un leader carismatico. Era invece un sapiente, perché era alla ricerca della Sapienza e la Sapienza amava frequentarla, quella Sapienza che è dono dello Spirito Santo e che si è incarnata in Cristo. L’amore della Sapienza — l’amore di Gesù Eterna Sapienza, come direbbe san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716) — è del resto il tratto caratteristico primo e più evidente di Cantoni.
Dalle sue opere, dai suoi discorsi, perfino dai colloqui personali traspariva in modo evidente il «gusto» e il «piacere» di dire e di fare ciò che egli diceva e faceva per puro amore della Sapienza, con purezza d’intenzione. Spesso questa sua virtù mi ha indotto a riflettere sull’invito evangelico (Mt 6, 33) a preoccuparsi della ricerca della Sapienza in quanto unico elemento che davvero conti: «Quaerite autem primum regnum Dei et iustitiam eius, et haec omnia adicientur vobis».
Va dunque evidenziato come Cantoni non sia affatto stato un «intellettuale». Le sue sterminate letture e la sua profonda erudizione, infatti, non nascevano dal mero intellettualismo, ma originavano dal fuoco della ricerca della Sapienza e, rispetto a questa ricerca, rivestivano un ruolo ancillare. Cantoni ha insomma coltivato costantemente il desiderio della Sapienza, invitando i discepoli a fare altrettanto.
Questo sforzo di purificazione dei desideri del cuore per farli convergere tutti verso il bene sommo della «Sapienza» è, infatti, la prima e ineludibile condizione di qualsiasi «azione». E in verità, senza purezza d’intenzione e di desideri non si può essere veri «contemplativi», né, tantomeno, si può pensare di passare all’«azione».
Ricordo, in tal senso, che in un vecchio dattiloscritto interno ad Alleanza Cattolica, che ho letto tanti anni fa e che riproduceva un discorso di Giovanni Cantoni (si trattava, se non sbaglio, ma non ne sono del tutto certo, di un commento alla preghiera del Pater), si rimarcava — come realtà che un buon militante doveva sempre tenere a mente — che l’origine dell’«azione» risiede nel cuore dell’uomo, nei suoi desideri, e che il Signore, prima ancora che l’azione, giudica i desideri del cuore dell’uomo.
Giovanni Cantoni era un fedele e innamorato figlio della Santa Chiesa fondata sulla roccia del Vicario di Cristo in terra, il Papa. Ricordo le sue continue esortazioni a rimanere sempre e comunque cum Petro e sub Petro. Era solito dire, infatti, che così facendo certamente non ci saremmo mai sbagliati, perché mai il Signore, al momento del giudizio personale, avrebbe osato condannarci per essere rimasti fedeli, come Lui aveva comandato di fare, al Suo Vicario in terra.
Mi piace ricordare, inoltre, che Cantoni vedeva sempre la sua «creatura», Alleanza Cattolica, nella Chiesa e al servizio della Chiesa. Non come un gruppo di eletti, né come una fazione.
Nei suoi discorsi e nei suoi scritti la «dottrina» della «scuola cattolica contro-rivoluzionaria» — di cui egli è, allo stato attuale, l’ultimo, insuperabile, esponente — non è mai stata un sapere esoterico, buono per pochi iniziati, ma un poderoso strumento, sul piano delle «battaglia delle idee», al servizio della trasmissione dei principi naturali e cristiani compendiati nella dottrina del Magistero sociale della Chiesa.
Alleanza Cattolica, infatti, come amava ripetere sempre, è un’associazione dedita a quelle insigni — e forse, a volte, ahimè, neglette — opere di misericordia spirituale che consistono nell’«insegnare agli ignoranti» e nel «consigliare i dubbiosi».
Ciò, chiaramente, sul presupposto, di una profonda e ininterrotta cura di formazione personale. Ed è proprio alla formazione dei suoi militanti che, per quanto ho potuto notare, Cantoni dedicava, con amore paterno (e perfino «materno»), una quantità di tempo superiore a quella dedicata alle sue «uscite» pubbliche.
Ricordo che diceva sempre che la prima cosa da fare e non trascurare mai è la riunione settimanale — in cui ci si nutre sotto il profilo spirituale e dottrinale —, foss’anche l’unica attività svolta dal gruppo di militanti. Giovanni Cantoni sapeva leggere gli avvenimenti della «cronaca», cogliendone il significato più profondo, senza lasciarsi imprigionare nei particolari contingenti degli stessi. Era, inoltre, un uomo incredibilmente lungimirante. Il fatto è che conosceva il senso profondo, «provvidenziale», della storia. Sotto questo profilo, desidero ricordare — avendone diverse volte parlato con lui in piacevoli colloqui personali — che tra i suoi vari maestri, per quanto riguarda lo studio della filosofia della storia, rientrava anche Giambattista Vico (1688-1744), filosofo da lui molto apprezzato, e che, forse, sarebbe molto proficuo riprendere a studiare, soprattutto nell’ora presente.
Il senso profondo della storia, si badi bene, consentiva a Cantoni, di fronte alle «allarmanti» vicende di «cronaca», riguardanti la Chiesa e il mondo, che ciclicamente fanno capolino nella storia, di rimanere sereno e di infondere serenità, evitando qualsiasi scoraggiamento, come pure errate e pericolose visioni «apocalittiche» o «disperanti».
Giovanni Cantoni era un vero missionario. Si può dire, riprendendo una terminologia usata dal regnante Pontefice, che Cantoni non faceva affatto «proselitismo» (1). Evangelizzava instancabilmente, ma senza forzare o costringere nessuno, a cominciare dai suoi militanti, che erano, si ribadisce, i primi destinatari della sua opera di evangelizzazione.
Amava ripetere che l’obiettivo del militante non è «trasformare» tutto e tutti in Alleanza Cattolica, ma avvicinare, per quanto è possibile, tutto e tutti a Nostro Signore. Ricordo, poi, che, a proposito della militanza in Alleanza Cattolica, diceva sempre, in occasione di ogni ritiro, che nessuno era obbligato a farne parte e che ciascuno era libero di uscirne quando voleva, così come liberamente era entrato a farne parte.
Giovanni Cantoni aveva un’attenzione particolare per tutti e per ciascuno. Quando venivo in contatto con lui avevo la piacevole sensazione di essere trattato come un figlio, anzi come un figlio «unico». Non era affettazione. Realmente ricordava tutti e pensava a tutti.
Tante volte mi sono rivolto a lui per questioni personali, oserei dire «banali», e ha cercato sempre, per quanto era nelle sue possibilità, di fornirmi un aiuto, con grande delicatezza e pazienza. E proprio la pazienza, a mio avviso, era sua peculiare caratteristica.
A volte, poteva sembrare che avesse perfino «troppa» pazienza. Con il senno di poi, però, mi sono accorto che la sua pazienza aveva come modello la «pazienza» della Chiesa. In tal senso, ricordo che nei suoi ritiri associativi si soffermava spesso sul fatto che la Chiesa, non poche volte, era stata tacciata — e, invero, continua ad esserlo — di immobilismo o di colpevole silenzio (o addirittura di vera e propria collaborazione) di fronte a certe dottrine o movimenti perniciosi.
Ebbene, per meglio comprendere l’atteggiamento della Chiesa in tali frangenti, Cantoni faceva appello ai tempi e alla «pazienza» della Chiesa, che, da buona Madre e Maestra, prima di pronunciarsi cerca di mettere a fuoco con esattezza il problema per arrivare, poi, a tempo opportuno, a fornire la soluzione migliore in vista dell’unico bene della salvezza delle anime.
Potrei continuare, ma mi fermo qui. So bene che su Giovanni Cantoni si può dire molto di più e molto meglio di quanto mi sono sforzato di fare. Spero, tuttavia, che quanto ho ricordato di lui — a me stesso in primo luogo, così come a tutti coloro che lo amano e ne sono discepoli — possa servire non soltanto, come è doveroso e giusto, a continuare a celebrarne la memoria, ma anche, e soprattutto, a percorrere le orme di questo gigante. Il tutto, mi sia permesso di notarlo, con grata ed estrema fedeltà allo spirito della sua opera, nel giusto mezzo tra i poli opposti — in cui ci potrebbe essere il rischio di incagliarsi quando muore un così grande fondatore — dell’innovazione a tutti i costi, da un lato, e del feticismo, dall’altro.
Note:
(1) Secondo l’espressione di Benedetto XVI (2005-2013) secondo cui «[…] la Chiesa non cresce per proselitismo» — intendendo con ciò non la missione, ma le sue modalità aggressive e poco rispettose del cammino delle persone — bensì «per “attrazione”» (Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi ad Aparecida (Brasile), del 13-5-2007).