Nel dibattito pubblico ritorna periodicamente il tema dei cosiddetti “paradisi fiscali”. Non certo per lodare una supposta benevolenza dell’esattore quanto per stigmatizzare una presunta concorrenza sleale, un dumping fiscale e contributivo a danno degli altri paesi. Paesi che, evidentemente, si auto considerano come “purgatori”, quando non veri e propri “inferni” fiscali.
di Maurizio Milano
Si potrebbe liquidare la discussione con una semplice battuta: i “paradisi fiscali”, se esistono, devono la propria esistenza proprio agli “inferni fiscali”. Se si vogliono davvero eliminare i “paradisi” fiscali occorre allora eliminare anche e innanzitutto gli “inferni” fiscali. Il problema non è l’esistenza di quelli che sarebbe più corretto definire “tax haven” – ossia “rifugi fiscali” – e non “tax heaven” – “paradisi fiscali”: dei “porti sicuri” dove il capitale, altrove colpito da tassazioni sempre più espropriatrici, cerca comprensibilmente rifugio. Il tema vero è invece, rovesciando la prospettiva, l’esistenza certa e documentabile dei tantissimi “purgatori” fiscali – la quasi totalità dei sistemi fiscali moderni – e, soprattutto, dei veri e propri “inferni” fiscali, una classifica dove il nostro paese si piazza infelicemente tra i primi posti. Il vero e pericoloso “fuorilegge”, a ben vedere, non è Robin Hood ma lo sceriffo di Nottingham.
Con ciò non si vogliono certamente sottacere o minimizzare i problemi reali di opacità di certe legislazioni fiscali, che ovviamente pongono legittimi problemi di evasione ed elusione fiscale, oltre che di money laundering di origine malavitosa. Tutto vero, e ovviamente da contrastare, purché la black list dei “paradisi fiscali” non serva strumentalmente a distogliere l’attenzione dal problema principale: il fatto, cioè, che gli Stati moderni continuano da decenni ad allargare il proprio perimetro di intervento nella vita economica e sociale, comprimendo progressivamente – in accelerazione dopo ogni crisi, come sta avvenendo con l’attuale epidemia Covid – gli spazi di libertà e di sussidiarietà propri delle famiglie e dei corpi intermedi.
Livelli esorbitanti di spesa pubblica (in Italia circa il 50% del Pil) significano un’intermediazione da parte dei pubblici poteri – e ultimamente della classe politica e delle burocrazie varie – di una fetta maggioritaria o comunque elevatissima della torta della ricchezza prodotta. Una “convergenza” delle politiche fiscali tra i vari Stati toglierebbe al contribuente vessato ogni possibilità di “evasione”, da intendersi nel senso tolkieniano di legittima “fuga del prigioniero” dalle sbarre della prigione; gli Stati potrebbero così proseguire ancora più indisturbati con le loro politiche vessatorie, con quell’«arte della tassazione», come ebbe a scrivere cinicamente Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), ministro delle Finanze di Luigi XIV, che «consiste nello spennare l’oca al fine di ottenere la quantità massima di piume con il minimo di starnazzo possibile». Ma, si dirà, le entrate fiscali servono a sostenere la spesa pubblica, l’erogazione di servizi essenziali ai cittadini. Vero?
Vero, ma giova ricordare i principali effetti distorsivi della spesa pubblica quando questa va fuori controllo: un’allocazione “politica” delle risorse, scarse, a vantaggio delle lobbies e del capitalismo clientelare, una distorsione della libera e leale concorrenza, una diminuzione della “torta della ricchezza” a causa dell’allocazione inefficiente delle risorse, una contrazione degli spazi di libertà personale e familiare, un’atrofizzazione della società invasa dagli apparati pubblici, un’imposizione fiscale – per tornare al punto dolente – vessatoria e iniqua, che scoraggia il lavoro e gli investimenti e fa fuggire, chi può, alla ricerca di lidi migliori. Un processo di avvitamento progressivo, come stiamo vivendo sulla nostra pelle da alcuni decenni, a svantaggio dei più, in specie di chi non gode delle “ridistribuzioni” politiche della ricchezza accentrata dallo Stato.
La società viene così spaccata in due: da un lato, i beneficiari netti delle politiche redistributive, i “tax-consumers”; dall’altro, quelli che pagano il conto, i “tax-payers”, i contributori netti. Un fenomeno sempre più evidente nel nostro paese, dove con la progressiva contrazione della base produttiva – sia per il declino demografico sia per la fuga dei capitali – il peso crescente dei costi sanitari, pensionistici ed assistenziali si scarica su una base sempre più ridotta, e quindi sempre più tartassata. Alla faccia del “bene comune”, la cui promozione è il dovere primo dello Stato e la sua ultima ragion d’essere. A tale proposito, l’economista francese Frédéric Bastiat (1801-1850), nell’opera “La legge” del 1850, di ispirazione giusnaturalista, parlava di “spoliazione legale”, denunciando la raccolta esosa di denaro effettuata dall’autorità pubblica sulla collettività dei saccheggiati, denaro poi dirottato a favore delle élites politico-economiche che gestiscono la cosa pubblica, i tax-consumers. Parole forti, che purtroppo trovano corrispondenza nell’iniquità dei sistemi fiscali moderni.
Lo slogan utilizzato dai fautori del leviatano fiscale per gettare fumo negli occhi è sempre il medesimo: “pagare tutti per pagare meno”, con conseguente “caccia all’evasore” e spinta all’invidia e alla delazione sociale; in realtà, la soluzione corretta sarebbe “pagare meno perché paghino tutti”, perché riducendo la pressione fiscale automaticamente diminuirebbe la tentazione e la convenienza economica dell’evasione. Se la rivolta fiscale non scatta è solo perché i lavoratori dipendenti non hanno piena contezza dell’enorme incidenza fiscale e contributiva sulla busta paga netta che ricevono; molte altre tasse poi sono assolutamente opache, pensiamo solo agli incentivi alle fonti rinnovabili e al canone Rai che tutti paghiamo, non sempre con consapevolezza, nella bolletta elettrica delle utenze domestiche residenti.
Oltre al tema dell’iniquità si dovrebbe poi aggiungere anche quello dell’estrema inefficienza ed inefficacia della ricchezza accentrata e gestita direttamente dalla classe politica. Pensiamo, a titolo di esempio, ai costi esorbitanti della scuola e della sanità in Italia, a cui corrispondono servizi assolutamente inadeguati alle esigenze e ai costi sostenuti. La “qualità”, e non solo la “quantità” della spesa pubblica, deve quindi essere posta sul banco degli imputati. Già, perché se è comunque sbagliato un sistema di Stato assistenziale che drena gran parte della ricchezza privata ancorché poi elargisca servizi, in ipotesi, eccellenti – perché comunque liberticida e deresponsabilizzante – che dire di uno Stato esoso che poi fornisce servizi pubblici scadenti e aiuta solo gli “amici” e gli “amici degli amici”? Cui prodest?
I “paradisi fiscali” possono attendere, preoccupiamoci invece di combattere gli “inferni fiscali” in cui viviamo, anzi “sopravviviamo”.
Sabato, 25 luglio 2020